di Gaetano De Monte
33 anni, ma già importanti pubblicazioni alle spalle. E’ Alessandro Leogrande: giornalista, scrittore, vice-direttore della rivista di cultura “Lo Straniero”, fondata e diretta da Goffredo Fofi, fucina di giovani talenti come poche altre oggi in Italia (alcuni fra i nomi più interessanti emersi di recente nel panorama letterario italiano sono passati di qui: da Mario Desiati a Nicola Lagioia). Ma soprattutto tarantino che conserva un legame strettissimo con la città d’origine. L’ha raccontata per la prima volta poco più che ventenne in “Un mare nascosto” e si appresta a tornare sull’argomento nei prossimi mesi. Parlare con lui è come assistere alla crescita di un albero: i pensieri si diramano, mantenendo tuttavia sempre un’unità.
L’ultimo tuo libro, “Uomini e caporali”, ha segnato un passaggio significativo nel giornalismo d’inchiesta italiano: per la prima volta è stata ricostruita la vicenda degli immigrati dell’Est Europa ridotti in schiavitù nel Tavoliere. Ma nell’attuale panorama del mercato editoriale italiano (inclusi i periodici) è più o meno facile per un giornalista riuscire a raccontare realtà complesse in maniera ampia e dettagliata? Insomma, che spazio c’è per il lavoro d’inchiesta al momento nel nostro paese?
Un primo dato di fatto oggettivo che qui mi preme sottolineare è che oggi il giornalismo d’inchiesta tende a scomparire dai giornali, e ciò avviene non per precise scelte editoriali – non è quindi tanto un discorso di censura –, ma è piuttosto un problema di come sono costruite le stesse macchine dei giornali.
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