di Salvatore Romeo (’84)
Giovedì, 7 aprile, si terrà presso la biblioteca Comunale di Taranto un incontro con Guido Viale, organizzato dalla cooperativa sociale “Ernesto De Martino” con la collaborazione di Sinistra Critica. Economista ambientale, autore di numerosi saggi (si ricordano “Vita e morte dell’automobile”, Bollati Boringhieri, 2007, “La civiltà del riuso – riparare, riutilizzare, ridurre”, Laterza, 2009), Viale sostiene in particolare la conversione in senso ecologico del sistema produttivo come necessità (per la sopravvivenza degli organismi viventi) e opportunità (per le nostre economie). Lo abbiamo sentito per farci spiegare meglio la sua prospettiva
Uno degli argomenti preferiti da chi vuol eludere le tematiche ambientali è il contrasto col livello economico. Viene tirata in ballo la dicotomia ambiente/sviluppo o ambiente/lavoro per sostenere che, tanto più in un momento di crisi, non possiamo permetterci il “lusso” di adottare modi di produzione e consumo eco-sostenibili. Lei ritiene valido questo argomento?
Indubbiamente i movimenti in difesa dell’ecosistema sono sorti in contesti rurali, prevalentemente nei paesi del Terzo Mondo, come reazione al tentativo delle forze economiche e politiche sia locali che straniere di imporre modelli di sviluppo analoghi a quelli dei sistemi occidentali. Solo successivamente si sono diffusi anche nelle regioni avanzate. Tuttavia oggi appare evidente che i paesi che ottengono risultati economici migliori sono proprio quelli che hanno un livello maggiore di investimento nei settori “verdi” (si pensi alla Germania). Viceversa, paesi come l’Italia sono in difficoltà sull’uno e sull’altro versante. E ciò, per quel che riguarda il nostro paese, nonostante vigano agevolazioni estremamente favorevoli all’installazione di impianti di produzione di energia “pulita”(da noi gli incentivi sono i più alti del mondo!). Il problema è che l’Italia ha sì aumentato la produzione di energia con metodi a basso impatto ambientale negli ultimi anni, ma continua ad importare i mezzi di produzione, che rappresentano un peso notevole per la nostra bilancia commerciale. E fra i principali produttori di questi strumenti c’è proprio la Germania.
La conversione “verde” della produzione sarebbe quindi un’opportunità per rendere più solido il nostro sistema economico?
Non solo più solido. I vantaggi sarebbero principalmente di due tipi: in primo luogo, ci sottrarremmo alla concorrenza internazionale ritirandoci da settori che sono ormai maturi e nei quali i vantaggi di costo dei paesi emergenti sono insostenibili; inoltre avvicineremmo la produzione al fabbisogno locale. Si consideri, infine, che proprio quei settori – stiamo parlando di una gamma vasta di produzioni: cogenerazione, solare, eolico, geotermico ecc. ecc. – sono ad alta intensità di lavoro, per cui la loro diffusione avrebbe effetti benefici anche sul piano occupazionale.
Lei è intervenuto nel dibattito sul futuro della FIAT proponendo una radicale trasformazione dell’assetto produttivo del gruppo: sostituire la realizzazione di autoveicoli con la produzione di impianti di cogenerazione di energia. Come sarebbe possibile?
La proposta della conversione alla cogenerazione l’avevo avanzata a proposito dello stabilimento di Termini Imerese. Un’occasione persa, perché intanto è stato varato un piano industriale assolutamente fumoso. D’altra parte abbiamo sotto gli occhi evidenze molto precise: nell’ultimo anno le immatricolazioni di veicoli FIAT sono scesi del 30%. E’ un dato allarmante, che dimostra quanto la nostra principale impresa automobilistica non riesca a stare sul mercato. D’altra parte la stessa FIAT avrebbe il know how e la tecnologia per avviare produzioni “verdi”.
A monte della produzione automobilistica c’è la siderurgia. Veniamo così a Taranto e alla sua acciaieria, che detiene due primati: è la principale in Europa per capacità produttiva, ma anche quella che produce il 90% di diossine del continente. Lei ritiene che in questo caso sarebbe possibile una “conversione” della produzione dello stabilimento o non sarebbe piuttosto necessaria la sua sostituzione con altre unità produttive, specializzate magari proprio nei settori “verdi”?
Credo che nel caso di Taranto sarebbero necessarie entrambe le cose: anzitutto, un ridimensionamento della capacità produttiva del siderurgico, perché non è sostenibile l’attuale livello se nel frattempo la produzione automobilistica nazionale – che è la principale consumatrice di prodotti siderurgici – va contraendosi. Vi è dunque una convenienza economica a limitare la produzione dell’acciaieria. E poi il dato del 90% di diossina europeo emessa dal solo siderurgico tarantino dimostra che quello stabilimento è tecnologicamente arretrato. Occorrerebbero dunque investimenti anche sul versante dell’ammodernamento del processo produttivo. Se si fa il paragone con l’impianto di Bagnoli si resta stupefatti perché lì il centro era stato quasi interamente rifatto e nonostante ciò è stato “dismesso” e venduto pezzo per pezzo ai coreani; nel caso di Taranto invece parliamo di strutture vecchie di 40/50 anni che restano ancora in attività. C’è da dire che le responsabilità sono senz’altro della siderurgia pubblica che lo ha realizzato e sfruttato nel suo primo trentennio di vita, ma poi bisogna chiamare in causa soprattutto i nuovi proprietari privati per non aver fatto sufficienti investimenti.
Accanto a questa linea bisognerebbe inoltre sviluppare una strategia di diversificazione del sistema produttivo locale, considerando che – come dicevo prima – le produzioni “verdi” sono ad elevata intensità di lavoro, per cui sarebbe possibile conservare i livelli occupazionali correnti anche con un significativo ridimensionamento delle capacità del siderurgico.
Questa strategia di diversificazione richiederebbe un nuovo intervento pubblico? E di quale tipo?
A livello di governo nazionale – ma non vi sarebbero differenze se questo fosse nelle mani di altre forze politiche – non esiste la cultura politica per avviare una programmazione centralizzata. E’ necessario piuttosto costruire esperienze locali di programmazione, che prevedano il coinvolgimento diretto della cittadinanza attiva, delle forze produttive locali e delle istituzioni politiche (comuni, provincie e Regione).
I movimenti ambientalisti in Italia agiscono prevalentemente a livello locale, svolgendo soprattutto opera di denuncia. Lei non crede che sarebbe necessario un maggiore coordinamento quanto meno nazionale e un atteggiamento più “propositivo”?
In realtà esistono già alcuni momenti di coordinamento nazionale. Io credo però che i movimenti ambientalisti dovrebbero agire proprio a livello locale con qualcosa di più che la pur meritoria opera di denuncia e di sensibilizzazione. Certo, non si può pretendere che la soluzione a questioni estremamente difficili le diano i cittadini attivi, però essi possono promuovere momenti di confronto e di studio dai quali possano emergere eventuali strategie di conversione. Per esempio costituendo forum o uffici studi in cui si inizino a studiare le possibili alternative.