di Alessandro Leogrande
Per tutta la vita Alexander Langer non ha fatto altro che saltare muri, attraversare confini culturali, nazionali, etnici, religiosi. Fin da ragazzo si è impegnato a favore della convivenza inter-etnica nella sua terra, l’Alto Adige/Sudtirolo, si è speso per sgretolare i blocchi monolitici contrapposti tra italiani e tedeschi, evitare la rappresentazione del Sudtirolo per “gabbie”, e aprire a una nuova dimensione delle relazioni umane, sociali e politiche. Ma Langer è stato anche molte altre cose: giornalista, insegnate, militante di base e poi dirigente in Lotta continua, parlamentare europeo. Negli anni ottanta è stato tra i maggiori animatori del movimento “verde”; negli anni novanta un costruttore di ponte tra “linee nemiche” in Bosnia e nei Balcani, fortemente orientato dalla ricerca di soluzioni concrete di pace, inter-etniche e dal basso, che mettessero insieme i “traditori” delle rispettive parti, sulla base di quelle elaborate molti anni prima nel suo Sudtirolo. Viaggiatore instancabile, intellettuale pluriligue, Langer si è tolto la vita quindici anni fa, ma i molti testi che ha lasciato, e che negli ultimi anni sono stati raccolti in più libri, continuano a interrogarci. Il viaggiatore leggero (Sellerio) costituisce tuttora la raccolta più esaustiva di articoli e interventi. Ma per capire il suo singolare percorso all’interno del cristianesimo del dissenso, nella nuova sinistra, nella galassia ecologista, nel pacifismo, è utile leggere anche la biografia che gli ha dedicato Fabio Levi, In viaggio con Alex (Feltrinelli).
Tra i tanti temi sollevati da Alex Langer c’è anche quello del rapporto tra ecologia politica e sindacato, tra difesa dell’ambiente e difesa dei diritti dei lavoratori. Un rapporto che spesso (anche se non sempre) diventa molto complicato quando si tratta di difendere il posto di lavoro (in Italia, in Europa, come nel Sud del Mondo) in fabbriche oltremodo inquinanti. Questo tema è stato ben sintetizzato da Guido Viale, nel corso di un convegno dedicato alla sua figura (Alex Langer tra ieri e domani, maggio 2010) che si è tenuto a ad Amelia, in provincia di Terni, con un intervento dal titolo: La conversione ecologica nel rapporto con i lavoratori delle fabbriche in crisi.
Langer è stato tra i primi a parlare di “conversione ecologica”. Di conversione (con un senso fortemente etico e strutturale) e non semplicemente di riconversione (termine meramente tecnico). Ha anticipato molti temi, tra cui quello della “decrescita condivisa e responsabile”, che poi sarebbero stati largamente usati agli inizi del ventunesimo secolo. Ma ogni qualvolta Langer ha parlato di “conversione ecologica”, non ha mai eluso il tema di una trasformazione della produzione industriale gestito dal basso (con il consenso cioè dei lavoratori). A differenza di un certo ambientalismo che bypassa completamente le questioni sociali, non ha mai sottaciuto che trovare una composizione tra ecologisti e operai è il problema della società postindustriali. Il problema principale per chi oggi si occupa di lavoro, non solo di ambiente.
Probabilmente Langer aveva maturato questa concretezza negli anni settanta, quando a Francoforte per Lotta continua e altri gruppi della nuova sinistra tedesca si occupava di organizzare politicamente gli “operai multinazionali”, cioè i lavoratori immigrati dall’Italia, dalla Grecia, dalla Turchia, dalla ex Jugoslavia in Germania. Questa esperienza è stata recentemente ricordata da Daniel Cohn-Bendit. Ovviamente non fu solo la nuova sinistra a occuparsi di lavoratori immigrati in Germania, ma quello che ci interessa sottolineare, a parte la vicinanza con gli operai e con i loro problemi, è un altro aspetto. Ci interessa sottolineare il fatto che Langer abbia sempre preferito l’espressione “operai multinazionali” alla categoria di immigrati. E questa forse è una lezione da ricordare anche oggi, quando si parla o ci si impegna al fianco dei nuovi lavoratori della società italiana. Nelle fabbriche, nelle metropoli, nei piccoli centri, nelle campagne… Sono lavoratori multinazionali, non immigrati.
Ma torniamo al tema della conversione ecologica e al rapporto con gli operai e i sindacati, tema che Langer avvertiva come cruciale. In un testo molto bello dell’ottobre del 1983, intitolato: Ecologia e movimento operaio, un conflitto inevitabile?, scriveva: “È tempo, dunque, che si infittiscano il dialogo e le iniziative esemplari tra ecologisti e operai (anche sindacalisti), ma anche tra ecologisti, operai e imprenditori, per esplorare concretamente, e non necessariamente solo in situazioni di conflitto, il terreno della comune lotta per la qualità ecologica, oltre che sociale e umana, del lavoro. Vorrà dire prendere per le corna il toro dell’alienazione, e lavorare per il disinquinamento non solo dell’ambiente, ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne.”
Langer non aggira la questione di fondo, non nega che spesso di fronte alla difesa del posto di lavoro in fabbriche che continuano a inquinare o che producono beni che sono il simbolo di una società inquinata (come le automobili) la soluzione non sia facile, e che in alcuni casi estremi risulta addirittura impossibile. Non nega che parlare di “limitazione delle scelte produttive” in tempi di crisi possa apparire una chimera. Non nega tutto ciò, eppure sottolinea che il tema della giustizia globale ha che fare immediatamente con l’ecologia e i modi di produzione. E su questo basta citare il noto paradosso: se tutti i cinesi e gli indiani vivessero come gli americani e gli europei occidentali, cosa cui legittimamente ambiscono, e cosa che il Nord del mondo non può impedire autoritariamente, avremmo bisogno delle risorse di cinque pianeti come la Terra. E, allora, che fare? Siamo così arrivati al fondo del nesso tra lavoro ed ecologia, un nesso che investe le scelte del movimento dei lavoratori, a Termini Imerese come a Shanghai.
Che fare, allora? Nello stesso testo del 1983, Langer sviluppava anche un’altra riflessione che è opportuno rileggere per intero. “Ma esiste anche un’altra tradizione nel movimento operaio”, scriveva ancora, “quella che annovera la rivendicazione di fabbricare aratri invece che cannoni e di costruire case popolari invece che alloggi di lusso; quella che affermava che la nocività non si contratta e la salute non si vende; quella che si opponeva tout court alla logica del produttivismo (‘di cottimo si muore’, ‘no alla flessibilità e alla piena utilizzazione degli impianti’…). La tradizione di quei filoni della lotta dei lavoratori che pretendevano – giustamente – di pronunciarsi sulla qualità sociale del lavoro, sui suoi fini, sui limiti della vendibilità della forza-lavoro, oltre che sul suo prezzo. Utilizzando un’espressione oggi corrente nel dibattito sull’ecologia, si potrebbe dire che anche nel movimento operaio si ritrova il filone in cui prevale l’attenzione alla ‘quantità’ e quello, invece, più attento alla ‘qualità’: e se indubbiamente il sindacalismo si è avvicinato sempre di più alla mera contrattazione della quantità (di lavoro, di retribuzione, di tempo, di servizi e prestazioni sociali, eccetera), non va sottaciuta e rimossa tutta quell’altra faccia del movimento operaio e dello stesso sindacalismo che è intervenuta e continua ad intervenire sulla qualità (del lavoro e delle condizioni di lavoro, del prodotto, del tempo lavorativo o libero dal lavoro, della stessa retribuzione e delle prestazioni sociali connesse, eccetera).”
Oggi quindi si impone sempre di più la necessità di riconsiderare la qualità ecologica del lavoro e delle sue condizioni. “Lo esige non solo l’emergenza ambientale, in generale, ma lo stesso degrado alienante del lavoro, da un lato, e le potenzialità di riscatto e di risanamento, dall’altro. (Cosa che, del resto, dovrebbe valere altrettanto anche per il versante imprenditoriale, e comincia – infatti – ad affermarsi qua e là.)”
A quindici anni dalla scomparsa del più eclettico e cosmopolita dei verdi italiani, la questione è più aperta che mai.
*Alexander Langer nasce nel 1946 a Sterzing/Vipiteno, in provincia di Bolzano, in una famiglia tedesca. Fin dall’infanzia è perfettamente bilingue. Nel 1967 fonda, con altri giovani intellettuali sudtirolesi, il mensile “Die Brucke” (“Il ponte”). Si laurea in giurisprudenza a Firenze, dove conosce padre Balducci e don Milani. Negli anni settanta vive dapprima in Germania federale, dove lavora tra gli immigrati, e in seguito a Roma, dove collabora al quotidiano “Lotta Continua”, divenendone per un breve periodo direttore responsabile. Ritornato in Sudtirolo, nel 1978 viene eletto consigliere regionale nelle liste Neue Linke/Nuova Sinistra. Al censimento del 1981, assieme a migliaia di obiettori, rifiuta la schedatura etnica nominativa. Verrà rieletto consigliere regionale per altre due volte, sempre in liste inter-etniche.
Negli anni ottanta è tra i promotori del movimento politico dei Verdi in Italia e in Europa. Nel 1989 viene eletto deputato al Parlamento europeo e diventa primo presidente del neo-costituito Gruppo Verde. In questi anni Langer intesse relazioni con un fitto arcipelago di iniziative. Con i movimenti transfrontalieri: “SOS-Transit”, “Pro vita alpina”, “Arge-Alp”, “Alpe Adria”. Con le associazioni e i movimenti per la conversione ecologica: la “Fiera delle utopie concrete di Città di Castello”, il “GAB. Gruppo di attenzione alle biotecnologie”, l’“Eco-istituto del Sudtirolo”, la rete “Alleanza per il clima”, la nuova rete internazionale di “sindacalisti ecosensibili”.
Dopo la caduta del muro di Berlino, si intensifica il suo impegno contro i crescenti nazionalismi. Nel corso degli anni novanta la guerra nei Balcani assorbe gran parte delle sue energie. È co-fondatore, insieme alla parlamentare austriaca Marijana Grandits, del “Verona Forum” per la pace e la riconciliazione nell’ex-Jugoslavia. Provocando un fortissimo shock nella larga comunità di amici, conoscenti e compagni di strada, si toglie la vita il 3 luglio 1995, all’età di 49 anni. Tutti i suoi scritti sono stati raccolti sul sito della Fondazione a lui intitolata: www.alexanderlanger.org