“Il dito nelle piaghe”: due iniziative per discutere della città dell’acciaio

di Roberto Polidori e Salvatore Romeo (’84)

Si apre la settimana della Passione. Taranto si prepara a celebrare quello che è forse il suo più intenso simbolo di unità. Ma una comunità esiste se non si interroga su sé stessa? Se non mette “il dito nelle piaghe” sparse sul suo corpo? Abbiamo voluto improvvisarci moderni San Tommaso, convinti che chi scrive non debba “credere” nelle cose che passano di bocca in bocca, ma “vedere (e toccare)” soprattutto gli aspetti più dolorosi della realtà.
Abbiamo individuato due ferite aperte, che scavano a fondo il corpo della città e rischiano di portarlo alla paralisi: l’emarginazione di un’intera generazione e la frattura fra ambiente e lavoro. Per ciascuno di questi argomenti abbiamo organizzato un’iniziativa pubblica. La prima, dal titolo “Questa non è una città per giovani” (un confronto gli esponenti di alcune fra le realtà giovanili più vivaci della nostra città) si svolgerà lunedì 18, a partire dalle 16:00, presso la Facoltà di Giurisprudenza (via Acton, 77); la seconda, che abbiamo chiamato “Dentro e fuori la fabbrica” (un forum fra esponenti del movimento ambientalista e lavoratori dell’ILVA) si terrà mercoledì, dalle 17:00, a Palazzo Galeota (via Duomo, 124). Di seguito vi proponiamo alcuni degli spunti che animeranno i dibattiti.

Questa non è una città per giovani.

Nel numero precedente di Siderlandia abbiamo provato a lanciare l’allarme sul progressivo invecchiamento della città. L’emigrazione giovanile ha toccato livelli di guardia. I giovani lasciano Taranto principalmente perché le opportunità di formazione sono estremamente limitate; al contempo non riescono a tornare a causa della particolare situazione del mercato del lavoro locale. Abbiamo visto anche come questi ostacoli oggettivi si combinino con una decisa sfiducia nei confronti della politica. Queste tre dimensioni – formazione (e cultura), lavoro e politica – saranno al centro del dibattito “Questa non è una città per giovani”. Ma vediamo di accennare ai problemi che ciascuno di questi ambiti pone.

La questione della formazione a Taranto chiama in causa due grandi incognite: l’università e il mondo dell’associazionismo. Il polo universitario jonico, come ha spiegato bene Remo Pezzuto, oggi rischia un grave ridimensionamento. La ragione va ricercata nelle scelte assunte negli utimi dieci anni. Lo sviluppo dell’università a Taranto, sin dall’insediamento dei primi corsi di laurea, aveva di fronte a sé due possibili esiti: dare vita a un semplice avamposto di Bari, in funzione del decongestionamento dell’Università-madre, o maturare una specializzazione peculiare. Per quest’ultima opzione sarebbero serviti significativi investimenti e una strategia di lungo periodo. Le politiche nazionali – orientate al contenimento della spesa –, il debole interesse mostrato dall’Ateneo barese nei confronti del polo jonico e la scarsa lungimiranza dimostrata dai gruppi dirigenti locali (politici ed economici) hanno fatto naufragare questa possibilità. Ma senza una netta specializzazione ogni nuova iniziativa si trova a subire la concorrenza delle realtà più forti. Ecco allora che, a fronte dell’obbligo imposto dalla Legge Gelmini di contenere entro un massimo di 12 le facoltà di ogni Ateneo, le 3 facoltà di Taranto (Giurisprudenza, Economia e Scienze della Comunicazione) rischiano di scomparire. La ragione è semplice: sono meri “doppioni” di quelle baresi, con una qualità che però non è neanche lontanamente paragonabile a quella delle facoltà del capoluogo. Una opportunità di crescita culturale, sociale ed economica rischia così di venir meno.

Il contesto culturale tarantino è stato già analizzato in un contributo di qualche settimana fa. La più grave criticità riguarda il carattere ampiamente volontaristico delle iniziative correnti. Non esiste una significativa “produzione culturale”, intesa anche come produzione di valore, nella nostra provincia. Ciò rende problematica la sopravvivenza delle attività esistenti. Una parte notevole di queste è infatti sostenuta da giovani che molto probabilmente, non potendo affrontare con i soli propri mezzi i rischi correlati ad un percorso di professionalizzazione, abbandoneranno presto l’impegno (e quasi certamente il territorio). Tale esito getterebbe Taranto e la provincia in una profonda depressione culturale e precluderebbe ogni ulteriore possibilità di differenziazione del sistema produttivo locale.

La situazione del mercato del lavoro è intimamente correlata a quanto si è appena detto. La miseria del panorama culturale – inclusa la tendenziale scomparsa dell’università e degli studenti, che ne sono il corpo vivo – ha un effetto economico dirompente: a Taranto non esiste una componente fondamentale delle moderne economie: i servizi culturali (o “produzione cognitiva”, come direbbero quelli bravi). Questo vuol dire che tutta una serie di soggetti che vanno formandosi per quel tipo di sbocchi sono automaticamente tagliati fuori; devono pertanto necessariamente emigrare per poter realizzare le loro aspettative. Quali tipi di lavori restano? A parte quelli di tipo manuale, per i quali la concorrenza resta feroce a causa della limitatezza della domanda di lavoro – esauritasi dopo la fine del turn over in ILVA e la campagna di assunzioni seguite all’insediamento di Alenia e Vestas –, il campo dei servizi appare caratterizzato da qualifiche prevalentemente di basso profilo. Questo perché il terziario resta caratterizzato dalla forte presenza della distribuzione (commercio di piccola e media dimensione, ma anche grandi centri commerciali). Un altro ambito dove si registrano significative criticità è quello delle professioni. Alcuni mestieri sono saturi (si pensi all’avvocatura) e le dinamiche di accesso delle giovani leve va assumendo aspetti feudali: i padri trasmettono direttamente la clientela ai figli. Se Taranto già non è una città per giovani, rischia soprattutto di diventare una città bloccata, in cui le componenti intellettualmente più vivaci rischiano di scomparire.

Quest’ultimo pericolo lo si avverte in modo particolare a livello della politica. Non si tratta semplicemente di constatare che vi è una scarsissima presenza di giovani nei partiti o nelle istituzioni, anche perché questa evidenza contrasta con una partecipazione che negli ultimi anni si è fatta particolarmente intensa in forme meno tradizionali di impegno (movimenti autorganizzati, comitati ecc.). Quello che però preoccupa è l’emarginazione cui vengono sottoposte queste ultime realtà da parte dei soggetti “ufficiali”. Il Palazzo, nella nostra provincia, è quanto mai impenetrabile. Alcune importanti innovazioni di prassi e di contenuto stentano a raggiungere le sue stanze; la pressione sociale è spesso inefficace. Se una parte di responsabilità deve essere ascritta a certi limiti dei movimenti, non si può tuttavia negare che nella sostanza è proprio l’impermeabilità dei partiti e delle istituzioni alle sollecitazioni della cittadinanza attiva il problema. Il rapporto fra politica e società civile, d’altra parte, è viziato da forme di interazione che favoriscono l’emergere di situazioni di dipendenza. Per esempio, a causa delle ristrettezze del contesto culturale locale molte iniziative per sopravvivere sono costrette a costruire legami solidi con le istituzioni; ma la loro debolezza relativa può far trascendere tali rapporti in una dipendenza strutturale dalla spesa e dalle scelte pubbliche. In questo modo, anziché funzionare da fattori di stimolo per il rinnovamento del contesto locale, i soggetti della società civile si trasformano in altrettanti puntelli dell’attuale sistema di potere. Lo stallo diventa così quasi irremovibile; e la conseguenza principale è che i problemi strutturali del territorio continuano ad essere affrontati con impostazioni tradizionali, orientate a perpetuare l’esistente. Si viene dunque a configurare un circolo vizioso: la politica difende il modello sociale ed economico corrente, le energie migliori – non trovando posto in tale situazione – continuano ad emigrare, il contesto locale si deprime ulteriormente e, di conseguenza, i centri di potere esistenti tendono a rafforzarsi.

E’ possibile rompere questa tenaglia? E come? Queste le domande che consegniamo al dibattito di lunedì pomeriggio.

Dentro e fuori la fabbrica.

La grande industria siderurgica di Taranto è il simbolo della moderna vecchiaia di un sistema economico- sociale contraddittorio e polarizzato su contrastanti interessi.

L’ILVA è lavoro; l’ILVA è inquinamento. Ma l’ILVA è anche il fulcro di accese polemiche: da una parte ambientalisti e cittadini che vorrebbero semplicemente chiudere l’impianto rimandando ad un secondo momento la risoluzione dell’evidente problema occupazionale conseguente alla chiusura; dall’altra ambientalisti che vorrebbero che l’azienda rispettasse almeno le normative europee, “ambientalizzando” le produzioni e riducendo l’impatto inquinante; da un’altra parte ancora importanti scienziati (medici e chimici) che elencano gli studi effettuati sul territorio e gli effetti letali o altamente invalidanti dell’esposizione a certi tipi di sostanze inquinanti, sentenziando l’improbabile ecocompatibilità della grande industria. C’è qualcuno che cerca di proporre soluzioni alternative.

Siderlandia ha affrontato le problematiche connesse alla convivenza del “grande mostro” con i cittadini, constatando che l’acciaio è nel sangue della gente, nel bene e nel male.

Abbiamo intervistato medici, ambientalisti con idee differenti, cittadini; abbiamo partecipato a convegni ed eventi impreziositi da esposizioni di scienziati ed economisti; abbiamo tratto le nostre conclusioni.

Prima conclusione: l’assordante silenzio delle istituzioni, mai sufficientemente stigmatizzata dalle testate giornalistiche locali, rare eccezioni a parte; Riva Group è la multinazionale dell’acciaio con amicizie governative che può permettersi di entrare nelle scuole pubbliche programmando giornate di visita degli scolari nei suoi impianti (come se si trattasse di una fabbrica di birra); è la corazzata che sul suo sito internet pubblicizza un giochino multimediale per bimbi nel quale “educa” l’opinione pubblica attuale e futura alla convivenza “felice” con il carbone e con l’acciaio (facendo leva sulle moderne dipendenze “tecnologiche” dei nostri figli e dimostrando di avvalersi delle consulenza di veri e propri “maghi” del marketing e della sociologia); è l’azienda che può permettersi di presentare la pubblicazione del Rapporto Ambiente e Sicurezza 2010 alla presenza delle più alte cariche istituzionali di Comune, Provincia e Regione (nonché ARPA Puglia) annunciando di aver risolto il problema ambientale tra i commenti soddisfatti di alcune personalità politiche, senza aver ancora ottenuto l’Autorizzazione Integrata Ambientale prevista dalla normativa europea e, notizia recente, benché il nostro paese sia stato condannato dalla Comunità Europea a risarcire i danni per il mancato adeguamento alla Direttiva Europea IPPC 2008 e si prevede che debba pagare almeno 2MLD di euro nel 2012 per lo sforamento degli obiettivo del Protocollo di Kyoto – indovinate quale impianto produce più anidride carbonica in Italia e chi pagherà le multe.

Facile capire come il colosso sia ovviamente e lecitamente argomento d’interesse e di campagna elettorale da parte di ambientalisti, nuovi e vecchi politici, nuovi e vecchi sindacalisti: i problemi nascono quando, ad elezione ottenuta, bisognerebbe incidere sulle scelte organizzative di un’impresa che pervade la quotidianità della provincia.

In questi mesi abbiamo appurato che l’informazione locale su ILVA non va oltre la pubblicazione delle dichiarazioni degli attori, se si eccettuano rare e coraggiose eccezioni che si “permettono” di verificare le fonti legislative, collegare le notizie e offrirne una valutazione. Ne è la prova la timida presenza dei giornalisti tarantini in “stanza a parte” il giorno della presentazione in ILVA del Rapporto Ambiente e Sicurezza 2010: solo pochissimi hanno osato proporre qualche domanda un po’ “impegnativa” al management e alle autorità presenti. Qualcuno potrebbe dirci che giornalismo vuol dire fotografare il fatto e pubblicarlo; potremmo rispondere che secondo noi – che non siamo giornalisti professionisti – giornalismo vuol dire soprattutto leggere le fonti ed azzardare collegamenti tra notizie per evidenziarne le eventuali incoerenze e quindi fornire una valutazione di ciò che accade, la più obiettiva possibile. Tutto questo, a Taranto e non solo, è un miraggio (fatte salve le solite mosche bianche): le inchieste su ILVA non esistono, chissà perché.

Seconda conclusione: la disarticolazione e la mancata integrazione di iniziative settoriali realmente encomiabili, dal potenziale “informativo” enorme ma dall’effetto reale decisamente smorzato a causa della scarsa diffusione; ciò accade quando il pubblico di questi eventi è sostanzialmente costituito da gente appartenente allo stesso tessuto sociale degli individui che hanno organizzato e creato tale evento. Se non c’è pubblicità, dibattito e trasmissione di informazioni tra tutti gli strati sociali, è facile prevedere un effetto depotenziato e blando di tali informazioni; se i medici parlano ai medici e/o agli ambientalisti, se i sindacalisti parlano ai sindacalisti e/o agli operai, se le problematiche specifiche di un enorme dilemma comune restano confinate nel perimetro di “isole di competenza”, come è possibile cercare anche solo semplicemente il dialogo tra portatori di interessi contrapposti? Figurarsi preconizzare la costruzione di proposte alternative.

Terza conclusione: la mancanza di coinvolgimeno nelle iniziative degli “scudi umani”. A nostro parere l’assenza di coinvolgimento degli operai nel dibattito ambientalista è sintomatico della mancanza di “prospettiva economica” di un problema che è essenzialmente economico e sociale. Fermo restando il valore di iniziative continue da parte di associazioni ambientaliste che hanno il merito di mantenere alta l’attenzione sul preoccupante dramma sanitario di Taranto, il voler bypassare (consciamente o meno) la classe operaia per “risolvere di persona” una questione che va ben la di là del Dott. Riva – e tutto ciò il management di Riva Group lo sa benissimo – dimostra a nostro avviso una concezione elitaria dell’ambientalismo che non tiene conto di cosa siano quei 220 milioni di euro annui in stipendi per chi li guadagna. Prova ne sia che qualsiasi cittadino a Taranto ha almeno un parente che lavora in ILVA; poco importa se, dopo aver contratto una malattia, i lavoratori ILVA rimpiangono di aver lavorato lì dentro. Le politiche sindacali delle moderne aziende hanno sbriciolato la “coscienza di classe”degli operai, indivualizzando il rapporto azienda-lavoratore per poterli controllare e ricattare meglio. E’ in atto una guerra fra poveri. Circa la necessità di uno stipendio, però, gli operai ritrovano l’accordo tra loro.

Da queste questioni prenderemo le mosse nel forum ambientalisti/operai che si terrà mercoledì a Palazzo Galeota.

2 Comments

  1. Mina Lafratta Aprile 18, 2011 8:30 pm 

    Sono d’ accordo. La situazione è gravissima e, al punto in cui si è arrivati, ritengo che solo le giovanissime leve,qualora animate da sani valori e seri propositi, se organizzati in modo razionale e proficuo da gente esperta, da ambientalisti veraci, da menti acute, potrebbero ottenere risultati ricominciando da zero e partendo dal basso. Dagli altri possiamo solo sperare che finalmente prendano coscienza della situazione di stallo della città e si rimbocchino le maniche, senza dimenticare che il coinvolgimento di tutta la cittadinanza per potenziare un piano di azione costruttivo sarebbe indispensabile e dovrebbe prevedere l’ allargamento a ventaglio non solo delle informazioni veraci quanto delle iniziative da intraprendere nell’ interesse di tutti.. La massa generalizzata e le classi operaie andrebbero coinvolte nella maniera adeguata, quella effettuata in un linguaggio comprensibile per tutti,come potrebbero essere in grado di recepire autenticamente senza sentirsi emarginati e soli a difendere la propria pagnotta come è stato loro inculcato per decenni. L’ isolamento delle classi intellettuali dal popolo non è indice di soluzione pratica.
    Ad alcuni l’ opera, ad altri la mente,sì, meglio se accomunate da obiettivi condivisi.

  2. Giancarlo Girardi Aprile 21, 2011 6:46 pm 

    Ottima ed interessante l’iniziativa di Siderlandia, ben preparata, dibattito ricco di passione sincera, alcune strumentalità e personalismi, che probabilmente non mancheranno mai, causati dalle continue campagne elettorali in cui ci imbattiamo. Alcune semplici considerazioni del giorno dopo. La cortina d’acciaio, che separa la fabbrica dal territorio non è stata abbattuta, quel muro alto che la circonda non è caduto, ma poteva essere scalfito e forse lo è stato, perché sin dall’inizio ha tenuto banco il “ricatto occupazionale”, il terreno politico ed economico scelto ed imposto da Emilio Riva sin dalle origini della sua presenza a Taranto, ha nei fatti guidato il dibattito e condizionato tutti. Eppure Alessandro Leogrande nella sua intervista e nel suo articolo ha saputo cogliere il nesso che lega la fabbrica al territorio, davvero sarebbe stata un’ottima base di partenza per il dibattito se fosse stato letto o compreso meglio dai più. Ognuno di noi è giunto all’appuntamento con le sue convinzioni e con esse se ne è andato. Più volte il coordinatore della serata ha posto la domanda del perché dell’assenza degli operai, eppure diversi erano presenti fisicamente, sono intervenuti, ma non sembravano esserci “politicamente”. Invisibili in fabbrica come nel dibattito, Vincenzo, Fabio, Ciccio hanno manifestato un malessere sentito, subito ma ritenuto necessario, ancora sopportabile, quasi, nei loro interventi sembravano scusarsi per non essere utili al grande problema che pone la “Questione Ambientale” oggi a Taranto. Beninteso riguarda loro prima di tutti, sicuramente molto di più che a un signore venuto da Sava, trenta chilometri dall’area a caldo del siderurgico, che è intervenuto gridando la sua rabbia per l’ecatombe in cui è incorso il destino della sua famiglia per colpa di questa fabbrica che andrebbe chiusa, per lui, immediatamente. La partecipazione di varie associazioni ha mostrato una sensibilità al problema, ma non basta, a mio avviso, a risolverlo e provo a spiegarne le ragioni. L’ing. De Marzo, di AltaMarea, ha colto il grande problema della mancata visibilità dei lavoratori, dell’assenza di una loro identità, del loro potere decisionale oggi inesistente, leggendo il brano di un libro che parla del blackout dello stabilimento due anni fa. Ero lì quella mattina, davanti ai cancelli dell’Ilva per un’iniziativa politica, il rumore di fondo, che accompagna ogni secondo della vita di quella fabbrica, percepibile dall’esterno della sua cortina d’acciaio, si spense: un avvenimento rarissimo e di grande suggestione. Ebbene solo in quel momento due operai si chiedono qualcosa del loro presente e futuro, cercano di costruire un rapporto umano, una relazione resa possibile dalla fermata e dal silenzio di tutti gli impianti. Una immagine straordinaria per raffigurare la solitudine dei lavoratori, uomini e donne, oggi, senza rappresentanza politica e poco e male rappresentati nei loro interessi fondamentali, quelli di sempre: la dignità, la salute, la loro sicurezza, il loro salario, tutti fattori che li relegano in coda nell’Europa comunitaria dell’acciaio. Il problema è, quindi, politico perchè occorre attendere che la magistratura emetta una sentenza “storica”, come quella della ThissenKrupp per gridare ad una “vittoria” dei lavoratori. Eppure gli operai che temono di perdere il lavoro o cadere in cassa integrazione, non pagare il “mutuo” o non poter mettere su “famiglia”, come è stato detto nel dibattito, appartengono al più antico e forte sindacato metalmeccanico italiano, quello che con la sua azione contro il Marchionne di turno, fenomeno antico, sta dando dignità politica alla classe operaia italiana. Al segretario della Fiom, da vecchio iscritto, gli avrei chiesto, glielo chiederò alla prima occasione, di fare propria la rivendicazione ambientale e metterla al primo posto tra tutte, di riprendere le battaglie degli anni 70 fatte dall’allora Flm, non attendere il consenso degli altri, non perdere tempo, di fare esattamente ciò che sta facendo la sua organizzazione in tutte le fabbriche Fiat d’Italia. Come si fa a non capire che Emilio Riva è un padrone “ottocentesco”, che ha anticipato di quindici anni a Taranto ciò che sta avvenendo oggi in Italia nella Fiat. Ugualmente Taranto sembra essere stata, sino alla sua bancarotta morale ed economica la parabola del Paese d’oggi. Non sto divagando nelle considerazioni ma Taranto e l’Italia vivono la stessa tragedia ambientale dovuta ad un inquinamento che ha prodotto qui malattie, morte fisiche, ma ovunque degrado morale, politico, culturale e sociale. Questa città si è svegliata colpevolmente solo dopo un ventennio di delega al forte di turno ed abbandono, tutti quanti noi, anche chi oggi fa sua la bandiera ambientale ne portiamo le colpe, l’anagrafe in questo è cruda e spietata. La dignità, preziosa per noi tutti, è stata offesa nuovamente ieri mattina, riproposta tal quale dopo la vicenda dall’acqua alle fontanelle del cimitero, anni fa, con il lancio della bottiglia dello spumante da parte del nostro sindaco all’inaugurazione di un alto forno. Occorre ribadire che è il nostro territorio che ospita le grandi fabbriche, non viceversa, Emilio Riva se vuole interloquire con le nostre istituzioni faccia anticamera nel palazzo del Comune o della Provincia per poter essere ricevuto. Tuttavia da quattro anni a questa parte, merito dei movimenti ambientalisti, sorti con enorme ritardo in questa realtà, e di chi, come AltaMarea, pone l’Aia come forza di un cambiamento dei rapporti di forza tra città e fabbriche, la strategia di Ilva è mutata. Non basta certamente, occorre che i movimenti e le associazioni pongano la necessità, dalla città più inquinata d’Europa, che nel codice penale venga introdotto il “delitto ambientale”, unico deterrente che indurrebbe le proprietà ad intervenire con i necessari, costosi, interventi o in alternativa “cambiare aria” per farci respirare meglio

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