di Roberto Polidori
«E uno sciopero politico, è la solita CGIL di sempre»: ecco il commento preferito di più di qualche collega di lavoro e più di qualche iscritto quando ho illustrato le ragioni dello sciopero del 6 Maggio; anche loro evidentemente plagiati dalle armi di diffusione di massa berlusconiane e non. «Meno male che la CGIL fa scioperi politici» ho risposto io, anche perché continua a sfuggirmi la differenza tra uno sciopero politico ed uno sciopero non politico. Inutile ricordare che il sostantivo “politca” discende dal sostantivo greco “polis”. E’ più utile ricordare che quando gli scioperi sono proclamati unitariamente sono scioperi veri, quando sono proclamati dall sola CGIl sono politici (in senso dispregiativo, ovviamente). Forse leggo troppi libri e vedo poca TV ma, quando si tratta di scendere in piazza per difendere i diritti conquistati con anni di lotte ed avanzare qualche proposta di politica economica dettata dalla normale intelligenza umana, mi chiedo che senso abbia tirare fuori il colore di istanze legittime. Questa volta le motivazioni dello sciopero erano talmente numerose (dodici ragioni essenziali) che chiunque avesse voluto perdere un po’ di tempo per leggerle sul volantino predisposto e distribuito – piuttosto che ripetere la solita cantilena – avrebbe poi dovuto contestare nel merito la consistenza delle criticità elencate. Chi non lo ha fatto ha perso un’ottima occasione per fermarsi un attimo e riflettere sulle sfide future che ci attendono. Peccato.
Questo governo aveva promesso una riduzione delle tasse e la pressione fiscale dell’Italia è passata in un anno dal 42,4% al 44% sul lavoro dipendente (dati ufficiali Eurostat): si tratta del livello di imposizione fiscale più alto in Europa; con queste tasse il governo avrebbe dovuto garantire una quantità ed una qualità di servizi pubblici almeno pari alla Svezia (che ha una pressione fiscale del 43,4% ed è al secondo posto nella classifica). A me risulta che questi servizi siano stati tagliati e che il Ministro Tremonti abbia lasciato alla Regioni lo sgradevole compito di aumentare ulteriormente le imposte per il prossimo anno.. una scelta forzata alla luce dei tagli previsti nei Patti di Stabilità. Secondo la Banca d’Italia il nostro è il paese europeo che ha fatto registrare nell’ultimo decennio il più grande trasferimento di ricchezze dai cittadini più poveri ai cittadini più ricchi: il 10% della popolazione italiana detiene il 47% della ricchezza totale mentre il 50% della popolazione detiene il 10% della ricchezza totale (dati Istat); si tratta di un livello di distribuzione di ricchezza tra i più disuguali nello scenario OCSE: solo Messico, Turchia, Stati Uniti e Polonia presentano una distribuzione più iniqua.
L’Italia è il paese i cui lavoratori dipendenti hanno perso nell’ultimo decennio il maggior numero di garanzie sociali e legali legate al lavoro secondo i dati ufficiali OCSE (indice IPL). E questa maggiore flessibilità lavorativa – con ben 35 tipologie di contratti lavorativi precari – non è che abbia garantito maggiore produttività…tutt’altro.
Per esempio lo sciopero indetto dalla CGIL chiedeva l’istituzione della tassa sulle grandi ricchezze – ricchezze totali nette del nucleo familiare superiore ad 800.000 Euro per una imposizione netta pari a circa 1.000 Euro a famiglia iper-ricca – con la quale si potrebbero raggranellare 18 MLD di Euro per garantire ammortizzatori e programmi di inserimento occupazionale per il milione di precari già espulsi dal mondo del lavoro in questo biennio. Il Governo ha risposto con un Decreto Sviluppo ridicolo nel quale, ad esempio, si concedono le spiagge in gestione ai concessionari per 90 anni, garantendo loro la possibilità di edificare liberamente a due passi dalla battigia (diritto di superficie): un’ulteriore appropriazione privata di risorse pubbliche in barba alla normativa europea, che prevedeva entro il 2015 un rinnovato processo di gara d’appalto per le concessioni in gestione delle spiagge ai privati, che in Italia si sono già appropriati dei lidi da decenni tramandandoseli di padre in figlio per mezzo di una sorta di diritto successorio mai scritto. Noi cittadini pagheremo le multe certe che l’Europa comminerà all’Italia per la trasgressione della normativa: un altro caso di appropriazione privata di diritti pubblici con beffa e danno certo. In compenso, per non disturbare gli imprenditori incapaci di ideare e rinnovare per essere competitivi su un mercato realmente libero, Attilio Befera, Direttore dell’Agenzia delle Entrate, impone alla Guardia di finanza di effettuare ispezioni nelle aziende a 6 mesi di distanza l’una dall’altra e a comportarsi in modo tale da non infastidire troppo i titolari e gli amministratori; si vuole uscire dalla crisi “dal lato del padrone” appunto, ammiccando sfacciatamente all’evasione fiscale per chi può permettersela (ma in questo, secondo Banca d’Italia, siamo già primatisti mondiali secondo Banca d’Italia e Trasparency International con i nostri 120 MLD di importo evaso all’anno su 250 MLd di imponibile). Azioni di politica economica in questo Decreto Sviluppo: zero.
Grazie ad un’omologazione culturale iniziata trent’anni fa ad un martellamento mediatico finanziato dalle lobbies che contano, il pensiero unico economico è penetrato talmente nell’immaginario collettivo e nello stile di vita delle persone da condurre al non prevedere altra ineluttabile soluzione finale per uscire dalla crisi se non la seguente: la collettività deve privatizzare velocemente ogni residuo bene pubblico per renderlo “economico” e permettere così all’imprenditore privato di estrarne il valore massimo da distribuire tra se stesso e le collettività. Bisogna lasciar fare alle aziende private per rendere il lavoro “meno costoso” e, in questo modo, aumentare la “produttività” del sistema Italia e distribuire più ricchezza per tutti. Questo ci dicono. Peccato però che la crisi economica altro non sia che l’effetto collaterale di una “mancata redistribuzione” di redditi a livello globale sfociata in indebitamento privato che ha generato una bolla speculativa immobiliare (dato universalmente accettato ormai anche dagli economisti “liberisti”). Peccato che sia scientificamente provato come, soprattuto negli ultimi 10 anni (dati OCSE per l’Europa e dati Ispes ed Istat per l’Italia), i profitti delle grandi multinazionali siano cresciuti enormemente in termini reali a fronte di un abbassamento – sempre in termini reali – dei redditi di lavoratori (di quei lavoratori che non hanno perso il posto, ovviamente): una diminuzione in termini reali dei redditi da lavoro equivale ad un impoverimento secco. Peccato che, “lasciando fare al mercato”, la disoccupazione strutturale sia aumentata in tutto il mondo occidentale negli ultimi trent’anni. Peccato che il “libero mercato privato” non esista o esista solamente per i pesci piccoli della catena produttiva: per i piccoli coltivatori diretti del sud strozzati dalla concorrenza marocchina e turca esiste eccome; esiste anche per gli operai del distretto del mobile di Santeramo, per esempio, che hanno recentemente firmato un contratto integrativo nel quale sono minuziosamente misurati dall’azienda i tempi di assemblamento di un mobile onde percepire il premio di produttività per combattere la concorrenza dell’omologo operaio cinese. Ma la nostra intellighentia politica nazionale ed internazionale sta cercando di risolvere la crisi consegnando nelle mani dei carnefici che la hanno generata le ultime importantissime risorse la cui attuale condivisione ci permette di non essere chiamati del tutto “schiavi”. Ci dicono che “diversamente non si può fare”, che non esiste alternativa alle liberalizzazioni senza regolamentazione ferrea, che la flessibilità in ambito lavorativo è necessaria per assorbire i “picchi di produzione”. A questo serve il lavoro precario, dicono loro. Intanto però, con il processo di privatizzazioni selvagge in corso, il primo effetto che i cittadini potranno constatare sarà l’eliminazione di una serie di servizi che erano abituati a ricevere dallo Stato a prezzi “non di mercato”, poiché beni essenziali alla vita e per questo garantiti dallo Stato: uno Stato di diritto e le sue imposte dovrebbero servire a questo, non a trasferire risorse dalle moltitudine più povera a pochi già ricchi. Constateremo a breve sulla nostra pelle quali saranno gli effetti di ciò. Tutti sanno che quando le grosse multinazionali mettono le mani su alcuni beni, creano un oligopolio o un monopolio e “fanno il prezzo” di un prodotto. La gestione privata dell’acqua a Latina ha scatenato una sollevazione popolare legata al triplicamento del prezzo della fornitura e all’abbassamento della qualità del servizio – le quantità di arsenico nell’acqua erano doppie rispetto al generoso limite stabilito dal Ministero dell’Ambiente in Italia. Dopo 30 anni di servizio privato, Parigi è tornata al gestore pubblico Acqua di Francia. Stiamo danzando allegramente sull’orlo del burrone senza accorgerci che la frana è già iniziata, questa è la verità.
Il 6 Maggio la CGIL ha scioperato da sola perché le altre associazioni sindacali maggioritarie, la CISL e la Uil, ritengono che la “modernizzazione” del contesto lavorativo nell’attuale situazione produttiva ed economica richieda maggiore flessibilità dei lavoratori e uno statuto dei lavori che sostituisca lo Statuto dei Lavoratori (L. 300/70): bisogna andare dietro il datore di lavoro, insomma, assecondare le esigenze produttive (e di profitto) dell’azienda che ti concede il lavoro. Il lavoro ora è merce rara, ma quali dinamiche economiche e politiche hanno determinato questa situazione a livello globale e siamo sicuri che perpetuando tali dinamiche non verrà inferto il colpo definitivo al Lavoro? Il ricatto di Marchionne a Pomigliano, Mirafiori e Bertone con richiesta di rinuncia a diritti indisponibili costituzionalmente garantiti non è forse una prova decisiva in tal senso?
Sembra invece che la crescente flessibilità degli impieghi, il crescente tasso di disoccupazione, il crescente tasso di riduzione dei salari reali vadano di pari passo con la concentrazione del capitale e l’aumento vertiginoso dei profitti.
Il Segretario della Fiom di Taranto Rosario Rappa illustra benissimo le differenze tra le organizzazioni sindacali: «C’è un modello di Sindacato del Novecento – quello della FIOM – che ritiene che il datore di lavoro ed i lavoratori siano portatori di interessi diversi e talvolta contrapposti: ci si siede ad un tavolo e si raggiunge un accordo contrattuale facendosi concessioni reciproche; il modello sindacale di Cisl e Uil è un modello “moderno” secondo cui la centralità dell’impresa è sacrosanta, l’azienda decide in solitudine le strategie organizzative che comportano la programmazione di utilizzo e i diritti della forza lavoro ed i sindacati che ci stanno forniscono servizi agli associati e solo a questi. Gli altri sindacati non contano. Non si parla di diritti dei lavoratori ma solo di servizi concessi agli iscritti. E’ uno scambio in cui Cisl e Uil creano gli enti bilaterali con i rappresentanti dell’azienda (che finanziano questi enti bilaterali) per assumere personale, assicurarlo, fornirgli assistenza fiscale, copertura sanitaria, fondi pensione e formazione. Questi sindacati non sottopongono a referendum tra i lavoratori le piattaforme contrattuali decise con l’azienda: è l’azienda che decide in solitudine concedendo ai sindacati che ci stanno servizi per gli iscritti. Dov’è il processo democratico di certificazione del consenso a politiche aziendali che comportano cambiamenti di vita per i lavoratori? Si tratta dell’attuale nostro modello di rappresentanza parlamentare trasferito alle imprese. E un modello corporativo di sindacato che nulla ha a che vedere con quello tedesco di co-gestione d’impresa e che mette sotto scacco continuo anche i sindacati “amici” del datore di lavoro. Marchionne ha dimostrato che sindacati di questo tipo possono essere sempre by-passati dall’azienda: con i recenti referendum, infatti, è uscito da Confindustria e ha disdettato l’accordo separato siglato con Cisl e Uil ma non da CGIL nel Gennaio 2009; per creare la New Company in cui fossero cassati i diritti individuali dei lavoratori trasferiti, Marchionne è tranquillamente passato sopra l’accordo firmato con i due sindacati consenzienti, lo ha dichiarato nullo e ha dimostrato che il padrone può decidere di dar da mangiare al cane fedele o può bastonarlo a piacimento». E dire che Bonanni, Segretario Generale della Cisl, aveva detto che il contratto imposto da Marchionne ai lavoratori di Pomigliano – “o firmi o chiudo la fabbrica” – sarebbe stata un’eccezione legata alla particolarità del momento…infatti è stato esteso immediatamente al comparto intero.
Mi chiedo come sia possibile avallare ricatti occupazionali che prevedono la chiusura di una fabbrica che produce autovetture, l’apertura di una fabbrica nuova che continua a produrre le stesse autovetture e l’assunzione degli stessi lavoratori licenziati dalla fabbrica chiusa con le stesse mansioni e con contestuale applicazione di un contratto aziendale (poiché il contratto collettivo è stato stracciato) nettamente più sfavorevole rispetto al contratto precedente. E’ una cessione di azienda mascherata, per la quale la legge italiana ancora prevederebbe stesso trattamento economico ai lavoratori e stesse protezioni sindacali. Una porcheria del genere può essere firmata solo da rappresentanze sindacali che assecondino il processo di redistribuzione al contrario che ha generato la crisi. Cisl e Uil hanno firmato: ecco perchè non erano in piazza il 6 Maggio. Cisl e Uil hanno preferito bersi le menzogne di Marchionne sui 20 Mld di investimenti produttivi a Mirafiori, sapendo che, come successo, nel caso in cui Marchionne non avesse mantenuto i patti (non scritti) non avrebbero mosso dito: ecco perché non erano in piazza il 6 Maggio. A questi sindacati il pensiero unico liberista va benissimo perché sono interessati più al business degli enti bilaterali e agli iscritti che non alla salvaguardia dei posti di lavoro. Ma scusate, questa non è politica?
Il motivo per cui invece la piazza era piena di giovani precari e studenti è chiarissimo ed è stato ancora una volta illustrato magistralmente da Rosario Rappa: « Con Ilva nel 2007 noi abbiamo siglato un contratto unitario dopo che Riva aveva interrotto le trattative perché non accettava le nostre proposte: abbiamo proclamato lo sciopero unitario ed abbiamo incassato un’adesione dell’80% dei lavoratori; lo sciopero più partecipato da quando l’industria è diventata di proprietà privata; gli impianti si sono fermati e l’azienda, dopo aver subito una perdita economica ingente, si è seduta nuovamente al tavolo delle trattative dopo 15 giorni. Abbiamo incassato l’integrativo migliore della categoria e non perché il padrone fosse buono. Taranto è una città unica difficilmente riproducibile nel contesto produttivo mondiale: è dominata da una grandissima industria con un impianto che il datore di lavoro non può delocalizzare (date le dimensioni) e che genera tantissimo fatturato. Ora, se i lavoratori si accordano e rivendicano condizioni di lavoro migliori, si dimostra che il datore di lavoro, impossibilitato a delocalizzare e desideroso comunque di continuare a fare utili, è costretto a firmare contratti più vantaggiosi rispetto a quelli firmati in contesti in cui ha le mani più libere. Immaginiamo di recuperare la coscienza di classe, che trent’anni di liberismo, alcuni partiti politici e alcuni sindacati hanno scientemente annichilito; immaginiamo che Taranto sia l’Italia e l’Europa, immaginiamoci uniti con chi il lavoro lo ha perso, rischia di perderlo ogni giorno o studia per cercare più opportunità. Taranto è la prova in piccolo che, potendolo attuare, conflitto e contrattazione sono due facce della stessa medaglia che ha nome lavoro»
La teoria economica neoclassica ci aveva giurato che la creazione di un unico mercato globale caratterizzato da libera circolazione di merci, lavoratori capitali ed idee avrebbe determinato la piena occupazione del lavoro e la massimizzazione di profitti e salari. Alla libertà di concentrare i capitali per poi trasferirli, di trasportare le merci e di far circolare le idee non è corrisposta uguale libertà di circolazione dei lavoratori – meno che mai in questi giorni. La disoccupazione strutturale crescente ha aumentato le capacità di ricatto occupazionale di pochi proprietari di capitale –molto spesso preso a prestito. Le aziende, con la connivenza di gran parte della politca, hanno poi frammentato i rapporti di lavoro e gli stessi processi produttivi per isolare gli operai e instillare paure ed insicurezze nella gente. Da questa situazione si esce con pochi contratti collettivi e con il conflitto politico. Adesso è tempo di essere uniti contro la crisi, uniti contro chi vuole rubare il futuro nostro e dei nostri figli.