di Antonio Anteneh Mariano
Il federalismo demaniale è entrato nella sua fase attutiva e fra le proprietà che lo Stato vorrebbe cedere gratuitamente al Comune di Taranto c’è la Salina Grande. Estesa per 9,8 km² a sud-est del centro abitato, per il suo particolare habitat l’area è stata considerata d’interesse comunitario. Tuttavia la ex Salina, bonificata già in epoca napoleonica, risulta compresa nel perimetro del “sito d’interesse nazionale” di Taranto, cioè fra le zone maggiormente contaminate del nostro circondario. La cosa impressiona perché l’intero sito è circoscritto all’area industriale e ai terreni su cui sorgono le discariche. Per quale ragione una parte di territorio di notevole rilievo naturalistico è stata messa sullo stesso piano di spazi certamente inquinati?
Il 23 aprile 1998 l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, promulga un decreto nel quale viene descritto con precisione notevole per l’epoca – considerato che ancora non si disponeva di rilevazioni quantitative – lo stato ambientale della nostra città. Nell’opera di recupero viene inserita anche l’area della Salina Grande. I rischi ambientali correlati a quest’ultima vengono così descritti: “i pericoli e le interferenze antropiche sono rappresentate dalla presenza di numerose discariche abusive, dalla presenza di alcune strutture di distribuzione elettrica e di trasmissione/ricezione radiotelevisive e da improprie utilizzazioni agricole; si segnala anche la presenza di attività di autodemolizione.” Insomma, i danni all’habitat straordinario della zona sarebbero derivati da sversamenti di rifiuti. Ma risulta difficile pensare che livelli di contaminazione allarmanti potessero derivare dallo scarico di semplici rifiuti solidi urbani. E infatti il decreto precisa che, laddove nel circondario si riscontrano situazioni di degrado del suolo, queste sono da attribuirsi alla presenza di “siti in cui sono stati abusivamente accumulati rifiuti, in quantitativi stimati inferiori o pari al migliaio di metri cubi, dei quali risulta difficile definire puntualmente la tipologia ma che, in linea di massima, possono essere identificati per lo più come inerti o speciali.”
L’intervento di bonifica della Salina viene considerato “priorità 1: interventi fondamentali rispetto alle problematiche principali dell’area a rischio”; esso viene pensato per “migliorare lo stato dei canali ricolmi di rifiuti e le zone vicino alle strade utilizzate come zone di abbandono di rifiuto di vario genere.” Tuttavia tanto i tempi quanto l’impegno finanziario previsti per portare a termine la messa in sicurezza della zona sono relativamente modesti: in un periodo di 6/12 mesi si sarebbero dovuti spendere 600 milioni di Lire, a spese del Comune di Taranto.
Di lì a pochi mesi il Parlamento approva la legge 426, “Nuovi interventi in campo ambientale”, con cui si istituiscono i “siti di interesse nazionale” e si stanziano, per il triennio 1998-2000, 180 miliardi per la bonifica dei territori contaminati. La responsabilità progettuale e finanziaria del recupero di queste aree passa dunque allo Stato: viene infatti dato mandato al Ministero dell’Ambiente di elaborare un programma nazionale di bonifica e di definire nello specifico le aree geografiche dell’intervento. In attesa di una più precisa perimetrazione, fra le 14 situazioni a rischio viene inserita anche Taranto.
Finalmente con decreto del 10 gennaio 2000 l’allora ministro dell’Ambiente, il verde Edo Ronchi, stabilisce i confini del sito d’interesse nazionale di Taranto. Viene inserita anche la Salina Grande, assieme agli spazi su cui insistono ILVA, ENI, Cementir e le discariche, ma per più precise informazioni sulle condizioni di inquinamento si rimanda all’“attività da svolgere nella successiva fase di caratterizzazione”. Nient’altro viene detto a proposito delle cause che avrebbero provocato la contaminazione dell’area e sulla natura dei rifiuti sversati abusivamente nella ex-Salina. Senz’altro la caratterizzazione avrebbe permesso di stabilire quantomeno la gravità e l’entità dei danni e di avviare il percorso di bonifica.
L’intera procedura viene normata da un successivo decreto del Ministero dell’Ambiente, promulgato il 18 settembre 2001. In questa sede si approva definitivamente il Programma nazionale di bonifica e viene stabilita una modalità d’intervento in due tempi. Prima la messa in sicurezza d’emergenza e la caratterizzazione e solo dopo la bonifica (o messa in sicurezza permanente) e il ripristino ambientale. Fra gli interventi approvati risulta anche quello relativo al sito di Taranto, ma la scheda tecnica allegata al Decreto precisa che per la caratterizzazione di quest’area il Ministero ha già approntato “un documento di linee guida”; l’intervento di bonifica resta invece ancora “da elaborare”.
Passano gli anni e le caratterizzazioni iniziano a svolgersi anche nel sito di Taranto. Una relazione ARPA del 2009 avverte che “se si considerassero nel calcolo solo le aree industriali con aziende in esercizio, la percentuale di caratterizzazione sarebbe pari al 90%. Contemplando nel calcolo allo stato di avanzamento della caratterizzazione anche le aree a Nord e Sud dell’area Italcave, risulta che quasi l’80% delle aree industriali hanno completato la caratterizzazione, principalmente ad opera delle grandi aziende.” Vi è però un buco nero relativo alle aree pubbliche (sia demaniali, come la Salina Grande e l’area portuale, sia quelle di proprietà del Comune, l’area Romanelli-Gennarini). La stessa autrice rileva che “per il 92% di queste aree non è stato ancora prodotto un piano di caratterizzazione”. Quasi la metà di questo spazio è occupato dalla Salina Grande.
Intanto in quello stesso anno nel Piano Strategico dell’Area Vasta Tarantina viene inserito un progetto relativo proprio alla “messa in sicurezza di emergenza del sito Salina Grande e della Palude Erbara”, la cifra stimata è 10 milioni di euro. Insomma, la tanto agognata caratterizzazione.
Ma quest’opera sembra segnata da un destino grottesco. Infatti nel 2006 Pierluigi Bersani, all’epoca Ministro per lo Sviluppo economico, decide di far rientrare il piano nazionale di bonifica nel programma dei fondi FAS 2007-2013. 2 miliardi di euro vengono assegnati direttamente tramite finanziamenti destinati alle aree sottosviluppate, mentre 1 miliardo e 300 milioni arriva invece dai fondi strutturali co-gestiti da Stato e Regioni. Come tuttavia ha rilevato Giorgio Mottola dalle colonne del quotidiano ecologista Terra, l’intera cifra stanziata a suo tempo per la riqualificazione delle aree contaminate è stata spesa per altre emergenze: Alitalia, ICI, terremoto in Abruzzo, cassa integrazione. Così anche il progetto di caratterizzazione della Salina Grande è rimasto al palo. A tutt’oggi l’intero piano di area vasta è stato ridimensionato a seguito della ricollocazione dei Fondi FAS all’esterno delle aree geografiche cui erano stati originariamente rivolti.
Intanto però si affacciano alla ribalta delle cronache inquietanti evidenze: una parte delle 600 pecore mandate al macello alla fine dello scorso anno perché contaminate da diossina provenivano dalla masseria Epifani, situata proprio nell’area della Salina Grande. Questa rilevazione getta un’ombra inquietante sulla situazione ambientale del nostro territorio. Com’è possibile che a distanza di decine di chilometri dall’epicentro dell’inquinamento (l’area industriale) si rilevino inquinanti tanto pericolosi? Questo interrogativo allude al vero mistero della Salina Grande: che tipo di rifiuti venivano smaltiti in quella zona? Erano forse di natura industriale?
Con la municipalizzazione di quel terreno quali sarebbero le conseguenze? Il rischio maggiore è che la caratterizzazione e la successiva bonifica dell’area ricadrebbero sotto la responsabilità del Comune. Ciò non solo snaturerebbe l’indirizzo conferito agli interventi sin dal 1998, creando per l’ente locale un ulteriore onere, ma rappresenterebbe una vera e propria beffa politica Taranto, città disastrata dal punto di vista ambientale ad opera dell’industria di Stato, si vedrebbe recapitare dallo Stato medesimo un nuovo conto. Se questo è il tanto decantato federalismo c’è da essere più che scettici sulla sua capacità di vivificare i contesti locali. Ci chiediamo per esempio perché non si parli del trasferimento di autentici “gioielli di famiglia” compresi nel demanio militare – si pensi all’Arsenale. Ma non è questa la sede per affrontare tali nodi; qui siamo costretti a constatare che una delle aree verdi più significative del territorio è stata per chissà quanto tempo scarico di rifiuti altamente tossici. Di quale provenienza questi fossero non lo sappiamo ancora; ma soprattutto non possiamo conoscere fino in fondo quali danni gli inquinanti depositatisi nella Salina continuano a provocare all’habitat naturale e alla salute umana.