di Vincenzo Vestita
10 anni è quello che attesta il mio tesserino di riconoscimento: data di assunzione 16 Maggio 2001. In realtà il mio rapporto con “la grande fabbrica” è iniziato ben prima. Figlio di un operaio Italsider, ho imparato presto a modulare la vita famigliare secondo i turni di mio padre, assunto giovanissimo nella seconda parte degli anni Settanta attraverso i corsi ANCIFAP (Associazione Nazionale Centro IRI per la Formazione e l’Addestramento Professionale). Ricordo distintamente quando da bambino – avrò avuto a malapena 5 o 6 anni –, andando a trovare i miei nonni materni al cimitero di Taranto e vedendo le alte lingue di fiamme, i pennacchi di fumi vari e quelle enormi e strane costruzioni illuminate a giorno dai neon, chiedevo a mio padre se davvero quella “cosa” fosse l’Italsider, aggiungendo, quasi con le lacrime agli occhi, che li dentro non sarei mai voluto entrare.E li dentro sono entrato per la prima volta nel marzo 2001, con una maturità scientifica in tasca e un percorso universitario appena interrotto a meta’, insieme a centinaia di altri ragazzi, come me legati da stretti legami di parentela con lavoratori che, nel volgere di un periodo che andava da qualche mese a pochi anni, sarebbero andati in pensione dopo 30 anni di contribuzione e i benefici per l’esposizione all’amianto. Era letteralmente “il treno che passa una sola volta nella vita” e in quei mesi, in quegli anni, la stazione era piena di ragazzi col biglietto infilato nelle tasche molte volte da un padre o uno zio e la voglia di guadagnare uno stipendio per comprarsi la macchina nuova. Nel periodo che va dal 1998 al 2003, con il picco massimo nel 2001, diverse migliaia di giovani, in gran parte dai 18 ai 25 anni, moltissimi diplomati, hanno dato vita a un massiccio turn-over che ha visto sostituire la generazione dei padri con quella dei figli, legando indissolubilmente le loro storie famigliari e i loro destini al IV Centro Siderurgico.
Dal colloquio col Capo del Personale, passando per le visite mediche, la firma del contratto e un corso di tre giorni – di cui ricordo vagamente solo una grande sensazione di smarrimento – passavano in media un paio di mesi. Mi aspettavo ci spiegassero il ciclo dell’acciaio, invece ci furono date una serie di informazioni generali e ci comunicarono i reparti a cui saremmo stati destinati, dicendoci che l’addestramento vero e proprio sarebbe iniziato direttamente sul campo. Del breve tour dello stabilimento in pullman mi rimase fortemente impresso il passaggio sullo stradone prospiciente il GRF (Recupero Materiali Ferrosi, reparto in cui grossi pezzi di materiale ferroso vengono tagliati in misure di circa 1,5-2 metri, rendendoli così idonei ad essere trattati nelle Acciaierie). Lì un paio di operai infilati in una pesante tuta integrale argentata comprensiva di un grande casco con visiera, con l’ausilio di una lunga lancia a fiamma ossidrica, lavoravano in una nuvola di fumo denso e giallo, all’aperto e sotto la canicola di una metà Maggio già molto caldo. Mi colpi’ anche la vastità degli ambienti; l’architettura industriale fatta di spartane strutture di cemento armato e di lamiere, miste a tuboni alti centinaia di metri; il dedalo di tubi per il trasporto dei gas che si innalzavano e si abbassavano formando un groviglio indistricabile per un occhio non esperto; i capannoni chiusi, da alcuni dei quali si intravedeva il rosso vivo delle colate continue, mentre in altri spuntavano grossi macchinari al lavoro. Ebbi immediatamente l’idea che non poteva considerarsi un lavoro come un altro; come pure pensai che una “macchina” così grande e complessa aveva bisogno di una organizzazione e un coordinamento fuori dal comune. E capii che tutti quei ragazzi in quel pullman sarebbero diventati “ingranaggi”, ognuno con una sua funzione ben specifica.
Infatti, a gruppetti di 4 o 5, fummo destinati ai reparti più disparati, a seconda delle richieste che dagli stessi reparti arrivavano per sostituire il personale che in quei mesi avrebbe raggiunto i requisiti per andare in pensione. Una veloce vestizione con la tuta (che a quell’epoca era ancora verde), un paio di scarpe antinfortunistiche e il casco rosso ed eravamo nella pancia del Gigante d’acciaio. Io, insieme ad altri 6 ragazzi, fui destinato al reparto PCA (Preparazione Calcare, che comprende una cava calcarea più un impianto di frantumazione del calcare stesso in diverse granulometrie, a seconda degli impianti da servire: un sabbione molto fine per l’agglomerato e del pietrisco di 30-60 mm per i forni a calce). Il capo reparto ci fece un veloce colloquio collettivo, chiedendoci se avessimo problemi particolari ad essere inseriti in turnazioni integrali (che coprono le 24 ore giornaliere, 365 giorni l’anno), il nostro titolo di studio, eventuali patenti speciali e così via. Cinque di noi furono inseriti immediatamente in turnazione nelle 4 squadre che si alternavano nell’esercizio dell’impianto di trattamento; i restanti due del gruppetto di neo assunti, poiché in possesso di patenti speciali, furono invece destinati all’utilizzo e trasporto di mezzi pesanti o speciali in cava. Le squadre di esercizio dell’impianto di trattamento calcare 10 anni fa erano composte da 7 persone, fra cui un addetto sinottico (colui che supervisiona l’andamento dell’impianto da un pulpito principale, attraverso il quale, tramite interfono, fornisce istruzioni agli addetti presenti in campo per controlli specifici o cambi di cicli di produzione, oltre a controllare e dare avvio ai cicli di rifornimento in contatto con i sinotticisti degli altri impianti), un addetto linea (che controlla le linee di rifornimento ai vari impianti di destinazione attraverso kilometri di nastri trasportatori) e 5 addetti impianto (che controllano il ciclo di frantumazione del calcare). La mansione che mi fu affidata, dopo due settimane di affiancamento in campo per comprendere il ciclo del materiale nell’impianto di frantumazione, fu quella di addetto sinottico.
Le prime settimane furono molto particolari. Non esiste nessun corso, nessuna scuola che possa prepararti a lavori come questi. Quando hai a che fare con macchinari enormi alimentati a 3 kilovolts, in grado di frantumare pietre di 20 centimetri con la facilità con cui si schiacciano delle noci, quando hai a che fare con kilometri di nastri trasportatori e rulli in movimento o con enormi mezzi di trasporto da 30 tonnellate a vuoto, 800 cavalli di potenza e ruote alte quasi 3 metri il fatto di aver frequentato questo o quel corso è un dettaglio trascurabile che fa poca o nulla differenza. Ed infatti gli “anziani” (così noi ragazzi chiamavamo gli operai a cui eravamo affiancati e che si avviavano tutti verso la pensione nel giro di una manciata di mesi) ci raccomandavano in continuazione di tenere gli occhi aperti per evitare di farci male (in dialetto “Occhi aperti che a chiuderli un attimo ci vuole”). In realtà tutti gli impianti presenti in fabbrica, seppur tra loro molto diversi anche nei fattori di rischio intrinseci, hanno bisogno di un approccio fatto di concentrazione pressoché totale, che coinvolge quasi tutti i sensi. Ogni impianto ha infatti colori, forme, odori, rumori propri, dall’analisi dei quali possono venire anche avvertimenti specifici.
Quello sulla conduzione degli impianti non fu l’unico tipo di addestramento ricevuto. Gli “anziani” continuavano, sicuramente in buona fede e nel nostro interesse, a consigliarci di adottare un modello comportamentale particolare se eravamo interessati a veder confermato il nostro contratto “formazione lavoro” di 24 mesi in un contratto a tempo indeterminato. E questi consigli, a differenza di quelli impiantistici, erano uguali da un capo all’altro dello stabilimento.
Non fare malattia. Non fare infortunio. Non iscriverti al sindacato. Non fare sciopero. Non creare troppi problemi.
Il contratto formazione lavoro infatti era un contratto a tempo determinato di 24 mesi – oramai non esiste più ed è stato sostituito dal contratto “di apprendistato” o dal contratto “di inserimento” –, che obbligava il datore di lavoro a fornire, oltre alla normale retribuzione, una formazione professionale ad hoc e a confermare a tempo indeterminato almeno il 60% del personale assunto con quella modalità. Quel grosso 40% restante, che consentiva all’azienda la libertà di scegliere se confermare o meno il lavoratore, era un motivo più che sufficiente per accettare di buon grado i consigli degli “anziani” e non fare troppe domande.
In realtà l’addestramento sulle postazioni lavorative anziché di 24 mesi, si riduceva molte volte a pochissimi mesi, per cui si richiedeva di diventare autonomi in breve tempo. Per quanto mi riguarda ricordo ancora i sudori freddi che mi accompagnarono il primo giorno che rimasi a condurre da solo l’impianto, a fine Luglio del 2001, poco più di due mesi dall’assunzione. Quasi la metà dei lavoratori anziani era andata in pensione.