La democrazia in un bicchier d’acqua

di Francesca Razzato

Margherita Ciervo è una giovane ricercatrice dell’Università di Bari, autrice del libro “Geopolitica dell’acqua” (Carocci, 2009), referente del Comitato Pugliese Acqua Bene Comune e Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. Nel 2007 ha collaborato alla stesura del ddl della Regione Puglia che avrebbe dovuto portare alla ripubblicizzazione dell’Acquedotto Pugliese – ma che non è mai stato approvato dal Consiglio regionale. Attualmente impegnata nella campagna referendaria per il SI all’acqua bene comune. Venerdì 3 giugno è stata a Taranto proprio per un’iniziativa sul voto del 12 e 13 giugno… un’ottima occasione per chiederle quale sia il senso della consultazione e cosa ruoti attorno alla questione idrica.

Il dato così rilevante delle firme raccolte in Puglia dal comitato Acqua Bene Comune, sottolinea il grado di consapevolezza dei cittadini pugliesi rispetto alla tematica della difesa dell’acqua come bene comune. Qual è per Margherita Ciervo il bilancio di questa esperienza a una settimana dal referendum popolare per la sottrazione del bene acqua alle logiche del profitto?

Il bilancio è davvero straordinario in termini di partecipazione. Noi stiamo parlando – e dobbiamo davvero comprenderlo fino in fondo – di un referendum storico: per la prima volta dalla nascita della Repubblica per una consultazione popolare sono state raccolte oltre un milione quattrocento mila firme, a fronte delle cinquecento mila necessarie – di cui oltre un quinto solo in Puglia!Altro elemento particolarissimo è che, a differenza dei referendum precedenti, non è stato promosso da partiti, ma dalla cittadinanza. E’ il Forum italiano dell’acqua che lo ha lanciato, invitando poi i partiti ad appoggiarlo. Accanto a questi elementi si deve considerare l’ostruzionismo del governo – anzi, si può parlare di vero e proprio boicottaggio, dal momento che sono stati sprecati soldi pubblici per impedire che il referendum fosse accorpato alle elezioni amministrative, per non parlare della legge sul nucleare… Confrontando questi avvenimenti ricaviamo che il governo sta cercando di svilire la grande mobilitazione popolare che c’è stata attorno al referendum. Arriviamo così alla questione centrale: la “questione democratica”. Il secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione dice a chiare lettere che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E la sovranità consiste proprio nella capacità di decidere sulle risorse e su come vadano gestite. Ora, se su queste cose il popolo non può incidere perché non è messo nelle condizioni di farlo, allora a decidere è un governo spinto dagli interessi finanziari ed economici. Dovremmo infatti ricordarci che il giorno successivo alla conversione in legge del decreto Ronchi, il valore azionario delle società del settore idrico quotate in borsa è aumentato, se non in diversi casi addirittura raddoppiato.

La straordinaria partecipazione dei cittadini alle tematiche referendarie ha sfatato la retorica dell’indifferenza. Come motivi questa partecipazione?

I motivi sono rintracciabili nella storia stessa del Forum italiano dei movimenti per l’acqua. Il forum nasce ufficialmente prima della raccolta firme per il referendum, nel marzo 2006, come tentativo di mettere insieme su scala nazionale movimenti già attivi nei territori, in particolare di quelli che già avevano fatto esperienza della privatizzazione dei servizi idrici. La prima iniziativa è stata la raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che già prevedeva la trasformazione delle società per azioni in soggetti di diritto pubblico per la gestione del servizio idrico potabile con meccanismi di partecipazione sociale. Anche allora furono raccolte quattrocento mila firme – a fronte delle cinquantamila necessarie in quel caso. La proposta venne depositata nelle mani dell’allora Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, il 10 luglio 2007, ma non è mai stata calendarizzata – né dal passato governo né, tanto meno, dall’attuale. Successivamente c’è stato il tentativo di coinvolgere più direttamente gli enti pubblici locali attraverso la creazione del Coordinamento degli enti locali per la ripubblicizzazione dei servizi idrici; ancora una volta la Puglia è stata capofila. Quindi il percorso che ha condotto al referendum è cresciuto nel tempo sia come diffusione che come analisi.

Come la modalità “orizzontale” con la quale si organizzano i vari comitati territoriali può aver stimolato il coinvolgimento popolare?

E’ stata determinante sia la modalità “orizzontale” che quella territoriale. I Comitati regionali non sono lottizzati, non ci sono referenti di questo piuttosto che di quel partito, ma ogni componente è espressione di quel particolare gruppo di persone che in un certo territorio si occupa della questione. Ovviamente non esistono leader. Questo ha portato a conseguire risultati sul piano pratico, ma è servito anche ad auto-responsabilizzare ognuno. Quando non si è pagati per dedicarsi a qualcosa, lo si fa solo se alla base c’è un nuovo (ma in realtà vecchio) modo di intendere il mondo, non più basato sull’individualismo, ma sulla solidarietà e sulla collaborazione. Quindi il percorso è partito concentrandosi sull’acqua ma poi si è esteso al recupero di pratiche politiche e sociali che ultimamente erano state un po’ trascurate.

Nei giorni scorsi il Comune di Taranto ha approvato un ordine del giorno a favore dei quesiti referendari in materia di servizio idrico. Qual è l’importanza della presa di posizione in questi termini dei vari enti locali?

E’ enorme. Checché ne dica il decreto Ronchi, che giustifica la privatizzazione degli acquesdotti richiamando la ricezione di norme comunitarie, l’Unione Europea, nonostante la sua generale impostazione liberista, ha lasciato libertà agli Stati-membri o alle autonomie locali di decidere se la i servizi idrici sono o meno da considerarsi “di rilevanza economica”, dunque se possono essere privatizzati oppure sono da intendersi alla stregua di diritti inalienabili. Per cui sono importantissimi gli atti legislativi – ordini del giorno o, ancor meglio, modifiche degli Statuti – con cui i Comuni hanno riconosciuto il valore di bene comune all’acqua: in questo modo si è posto un limite alla privatizzazione da parte di quegli stessi soggetti che eventualmente avrebbero dovuto attuarla. C’è poi da segnalare che proprio la questione dell’acqua bene comune ha messo d’accordo amministrazioni di diverso colore politico: nel Coordinamento ci sono giunte di centrosinistra e di centrodestra; il vero fronte del conflitto sembra passare quindi fra livello centrale – meno vicino ai cittadini e più influenzabile da parte dei poteri forti – e livello locale – più sensibile alle esigenze delle persone.

Il tortuoso percorso intrapreso dalla regione Puglia per la ripubblicizzazione dell’acquedotto pugliese,come sappiamo è stato caratterizzato da numerose frenate e tentennamenti. A che punto è l’iter e qual è il giudizio di Margherita Ciervo su questa vicenda?

Iniziamo a ricordare a beneficio di quelli che non lo sanno che nel 1999 il governo D’Alema trasformò l’Acquedotto Pugliese in una società per azioni a intero capitale pubblico – anche se era previsto che successivamente le azioni sarebbero dovute essere vendute. Ancora oggi vige questa struttura: il capitale della società è per l’87% nelle mani della Regione Puglia e per il 13% in quelle della Basilicata. Nel 2009 è iniziata un’interlocuzione fra il Comitato per l’acqua e il governo regionale, che nell’ottobre del 2009 ha prodotto un tavolo tecnico – composto paritariamente da 5 tecnici, giuristi o persone indicate dalla Regione e 5 individuati dal Comitato – che aveva come obbiettivo l’elaborazione di un disegno di legge che ripubblicizzasse il nostro acquedotto – cioè lo trasformasse da s.p.a. a “soggetto di diritto pubblico”. Peraltro l’articolo 6 del testo partotito dal tavolo prevedeva la realizzazione di meccanismi di partecipazione alla gestione da parte dei lavoratori e della cittadinanza. Il ddl è stato consegnato il 23 dicembre 2009. Stando agli impegni assunti dalla Regione, il testo sarebbe dovuto diventare legge prima delle elezioni regionali – e non è successo. L’approvazione allora è stata rimandata ai primi 100 giorni di attività del nuovo governo; così il 10 maggio 2010 la Giunta ha votato all’unanimità a favore del ddl, disponendo che il Consiglio lo approvasse entro il settembre successivo – appunto a 100 giorni esatti di distanza. Ma anche questa promessa non è stata mantenuta. Un nuovo impegno a portarlo in Consiglio entro gennaio 2011 è stato successivamente assunto dall’assessore Amati; ma al momento della presentazione ci siamo ritrovati con alcuni emendamenti al testo originario, proposti dallo stesso assessore, che, se approvati, andrebbero a snaturare il disegno di legge. Il primo prevede che le “attività collegate” al servizio idrico (che non si capisce quali siano e cosa si intenda con quella formula) possano essere affidate a società miste; il secondo abolisce il fondo che dovrebbe garantire quel quantitativo minimo di acqua necessario ad una vita dignitosa – o quanto meno alla sopravvivenza. Il terzo riguarda gli organi di governo: al posto del consiglio di amministrazione viene introdotta la figura dell’“amministratore unico”; e il meccanismo di nomina molto articolato ma basato in ultima istanza sul parere dei comuni previsto dal testo originario viene sostituito con la decisione del Presidente della Regione “sentita la Giunta”. Noi il 12 marzo scorso contro questo progetto abbiamo tenuto una mobilitazione regionale di rilevanza nazionale perché la Puglia potrebbe essere un’esperienza innovativa, ma lo diventerà se si assumeranno nuovi indirizzi nella realtà, non solo sul piano della retorica.

In che modo il comitato acqua bene comune può avere un effetto paradigmatico, fungendo come modello per affrontare altre tematiche della partecipazione democratica?

Quello che dici è già avvenuto in Bolivia con la Coordinadora de l’agua e la vida. Indubbiamente l’acqua sta diventando simbolo di una situazione, da una parte, di appropriazione privata dei beni comuni (quello che accade all’acqua è solo la punta dell’iceberg di un sistema e dell’ideologia liberista) e, dall’altra, di riappropriazione collettiva degli stessi. Da quando è iniziato questo percorso in ogni assemblea c’è qualcuno che si alza e dice: “scusate, voi parlate dell’acqua… ma l’energia non è un bene comune? E i trasporti? E l’istruzione?” Si comincia quindi dall’acqua per realizzare la sovranità popolare cui facevo prima riferimento.

Il comitato si chiama “acqua bene comune” e non “ acqua bene pubblico”. Qual è la differenza concettuale tra questi due termini?

La differenza è profonda. Nel nostro ordinamento giuridico noi abbiamo due tipologie: pubblico e privato; il pubblico sarebbe lo Stato e il privato sono i singoli o i soggetti giuridici. Nel diritto romano c’erano però altre due tipologie: le res nullius, le cose che non appartenevano a nessuno, e le res communes, cioè le cose che appartenevano alla comunità, che è diversa dallo Stato. Allora dire “acqua bene pubblico” significherebbe dire “acqua gestita dallo Stato”; usando l’espressione “bene comune” si richiama un concetto di appartenenza alla collettività e quindi di responsabilizzazione dei singoli che la compongono. Non si tratta però solo di una riflessione filosofica: nel 2007 si è insediata una commissione ministeriale presieduta dal prof. Stefano Rodotà, che sta cercando di tradurre politicamente e giuridicamente questo concetto.

Per concludere, i tre motivi su tutti ,che Margherita Ciervo percepisce come più importanti per andare il 12 e 13 giugno, a votare per il referendum ed esprimere 2 SI in favore dell’acqua bene comune.

Anzitutto, si va a votare al referendum perché è uno degli strumenti sanciti dalla nostra Costituzione attraverso i quali possiamo praticare la sovranità popolare: dobbiamo decidere noi e non gli interessi finanziari e il governo al loro servizio. Secondo motivo: si parla di un bene vitale, senza il quale non è possibile nessun tipo di attività umana. Terzo motivo perché con il primo quesito si blocca la privatizzazione e col secondo si elimina la ragione alla base di quel processo, cioè il profitto sulla tariffa. Ma la cosa fondamentale è portare ai seggi quante più persone possibile; abbiamo ormai appena una settimana e c’è tanta gente che ancora non ne sa niente del referendum – grazie al silenzio governativo. Serviranno 25 milioni di voti e ce la dobbiamo fare!

1 comment

  1. francesco miglino Giugno 6, 2011 10:12 am 

    Tocca alle élites internettiane esercitare il controllo serrato e puntuale sulla progettualità e sui flussi di spesa di denaro pubblico per fermare la mutazione in atto delle oligarchie nella dittatura degli impostori. Le ostentate violenze lessicali, la pochezza concettuale e progettuale, il coniugare nella prassi comportamenti trasgressivi irridendo valori condivisi, minacciano la nostra permanenza fra gli Stati civili che invece selezionano le proprie classi politiche allontanando i disonesti, gli edonisti, i portatori di valori nocivi alla comunità . Oltre al diniego al POPOLO di scegliere i propri governanti, le oligarchie, per assenza di controlli, diventano sempre più ampie, trasversali, strutturate e determinate a mistificare la realtà . Le elites internettiane debbono organizzarsi per raccogliere, educare e mobilitare le energie disperse dei grandi numeri raggiungibili in rete per contrastare le cristallizzazioni degli inamovibili. E’ nella potenza aggregativa della rete e nella determinazione degli internettiani affermare l’ essenza della democrazia organizzando la partecipazione della maggioranza cosciente, titolata ad esercitare il controllo nei luoghi oggi nascosti ove da anni si celebra l’ impunito rito mistico dell’ appropriazione indebita di risorse pubbliche.

    francesco miglino

    6 giugno 2011 alle 08:22

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