10 anni nella pancia del gigante d’acciaio. Seconda parte: la “conferma”

di Vincenzo Vestita

La confidenza con le tipologie di lavoro, mia come degli altri ragazzi assunti da pochi mesi, andava aumentando giorno dopo giorno. Il fatto di essere praticamente tutti diplomati rappresentava per l’azienda un vantaggio notevole; di coloro che andavano in pensione solo una minima percentuale aveva un diploma e di questi una parte ancora più residuale aveva una forma mentis adatta per confrontarsi con le innovazioni tecnologiche che, da li a qualche anno, avrebbero reso l’intero stabilimento completamente informatizzato. Avere personale fresco che “accompagnava” il rinnovamento tecnologico aveva un senso.

Eravamo una forza lavoro sicuramente inesperta ma avevamo un potenziale molto alto su cui l’azienda poteva investire con una certa tranquillità per il futuro. Basti pensare che la quasi totalità dei neo-assunti con mansione di manutentore elettrico o meccanico erano in realtà dei periti elettrotecnici o meccanici. I ritmi di lavoro dei turni integrali iniziarono a dettare anche i ritmi della vita al di fuori della fabbrica. Ricordo, ad esempio, che il pomeriggio dell’11 Settembre 2001 dormivo dopo un turno di notte e mia madre mi venne a svegliare dicendomi di accendere la tv; avevo la sensazione vivida che la Storia avrebbe preso un’altra direzione, che la caduta delle Torri Gemelle di New York in qualche modo rappresentava il primo, drammatico evento del nuovo millennio, di quelli forieri di immani disgrazie e sventure che, dai libri di storia, avevo imparato a chiamare guerre. Il fatto di viverlo in diretta incollato ad un teleschermo, unito al fatto che per le 18,30 dovevo essere in fabbrica per un turno di notte anticipato per “coprire” le ferie di un collega, mi diede per la prima volta lo spunto per riflettere su come la fabbrica “ingoi” i suoi lavoratori, isolandoli quasi completamente dal mondo esterno per il tempo in cui questi prestano la loro attività lavorativa. In qualche modo la fabbrica, per la sua particolare tipicità, pretendeva qualcosa di più, qualcosa che nessun contratto di lavoro avrebbe mai potuto quantificare.

All’approssimarsi della conclusione del periodo di formazione, che come ho già detto era di 24 mesi, le paure di tutti si univano alle speranze. Sarebbe bastato seguire i consigli degli “anziani” per raggiungere quella condizione piena di lavoratore in cui i doveri sono accompagnati a diritti la cui esigibilità non avrebbe compromesso in maniera definitiva il lavoro stesso? Dalla nostra parte avevamo il fatto che gli organici non erano talmente sovradimensionati da permettere all’azienda il lusso di poter esercitare la sua facoltà di non confermare fino al 40% dei contratti “formazione lavoro”. Inoltre, almeno per quel che riguarda il mio reparto, approssimativamente il 70-75% dei lavoratori che potevano vantare una esperienza decennale nella conduzione e manutenzione dell’impianto era già andato in pensione prima della fine del 2003; gli “anziani” di avevano lasciato in eredità il loro bagaglio di esperienze e conoscenze. Non era affatto semplice, per l’azienda, sostituire molti lavoratori già pienamente formati da due anni di addestramento, evitando nel contempo di inficiare in qualche modo la conduzione degli impianti e quindi la produzione, senza contare poi che questi lavoratori operavano già in perfetta autonomia sotto la supervisione di molti responsabili, a loro volta in possesso di una esperienza in sostanza limitata ai due anni di formazione o poco più (quali, ad esempio, parecchi capi turno o tecnici). Difatti praticamente tutti i contratti “formazione lavoro” del mio reparto furono trasformati in contratti a tempo indeterminato, ad eccezione di alcuni (ne ricordo due o tre su diverse decine di neo-assunti) che, probabilmente, non dimostrarono all’azienda l’“affidabilità” richiesta. Succedeva inoltre che ad alcuni non veniva confermato il primo contratto “formazione” salvo poi essere richiamati dopo un mese o due per un secondo contratto dello stesso tipo, da svolgere però in un altro reparto.

Con la maggiore sicurezza e tranquillità che derivava dalla stabilizzazione del contratto per un numero crescente di lavoratori, iniziarono ad arrivare le richieste dei rappresentanti sindacali che chiedevano l’iscrizione alle tre confederazioni presenti in ILVA (FIOM/CGIL, UILM/UIL e FIM/CISL). Gli stessi rappresentanti sindacali che sconsigliavano a coloro che avevano un contratto a “formazione” di iscriversi ad una delle tre organizzazioni sindacali, invitavano insistentemente a farlo una volta “confermato” il contratto, sottolineando in maniera implicita, da una parte, la “bontà” e veridicità dei consigli degli “anziani” e, dall’altra, la palese mancanza di forza dei sindacati in presenza di tipologie contrattuali in cui l’azienda ha la piena facoltà di decidere sulla continuazione o l’interruzione del rapporto lavorativo, secondo criteri unilaterali e non verificabili. Probabilmente da questo tipo di “formazione comportamentale” è derivata poi una diffusa diffidenza verso gli stessi sindacati, sentimento che al tempo condividevo anche io e che per molti aspetti si trascina ancora oggi a distanza di un decennio. Bisogna pensare che la generazione dei giovani lavoratori proveniva in gran parte dalle scuole ed era alla prima esperienza lavorativa; a ciò si aggiunga che ad una formazione di tipo lavorativo-impiantistico non si accompagnò, per i motivi che ho cercato di spiegare, una formazione che andava nel senso della comune appartenenza alla classe dei lavoratori – della quale il sindacato, nel senso più ampio del termine, era una emanazione diretta. Piuttosto la disciplina dettata dall’azienda spingeva con forza nel senso opposto, facendo dell’individualismo e della subalternità a regole di comportamento non scritte ma chiare ed in qualche modo condivise un elemento premiante quanto meno nel breve e medio periodo.

A meno di un mese dalla conferma a “tempo indeterminato” del mio contratto accadde però qualcosa che iniziò a scalfire pesantemente il mio modo di ragionare, fino a quel momento abbastanza granitico. Il 12 Giugno del 2003 ero di primo turno. Io e la mia squadra ci apprestavamo a concludere il turno alle 14,50; erano infatti le 13,45 circa quando alla radiotrasmittente l’ “addetto linea”, con voce rotta dal pianto, mi comunica trafelato che ai Parchi Minerali “è successo un macello, è caduta una gru e ci sono corpi appesi”. Non ricordo cosa gli ho risposto; onestamente non ricordo neanche se gli ho risposto qualcosa. La testa mi formicolava. Non riuscivo a togliermi quell’immagine dalla mente. Avevo visto quelle gru “da fuori”, costeggiando il perimetro dello stabilimento mentre mi recavo ogni giorno in fabbrica; la mia mansione infatti non consentiva di allontanarmi dalla mia postazione lavorativa per nessun motivo. Avevo chiaro solo che le bivalenti erano enormi macchinari d’acciaio circondate da vere e proprie colline di polveri di ferro. Finii il turno con un vuoto nello stomaco e nella testa, tanto che mi dimenticai lo zainetto nell’armadietto dello spogliatoio. Nell’incidente persero la vita due ragazzi della mia età, Paolo Franco, di 24 anni, e Pasquale D’Ettorre, di 27. Una decina di altri operai rimasero feriti, di cui uno in modo più grave.

Improvvisamente la “sicurezza” non era soltanto avere un contratto a tempo indeterminato: dalla fabbrica si poteva uscire in una bara. E tutti i buoni consigli del mondo non valgono quanto una esperienza che ti colpisce come un pugno in pieno viso; la Fabbrica in ogni momento può esigere un terribile tributo, una distrazione personale o un ordine di lavoro sbagliato impartito dai superiori non vale il prezzo di una vita. Il mio approccio al lavoro iniziò a cambiare. La responsabilità che avvertivo nel condurre un impianto con grosse parti meccaniche in movimento mi portava molte volte a cercare di discutere in maniera pacata con il capo turno sugli aspetti di sicurezza che una determinata manovra comportava. La richiesta del rispetto rigoroso delle procedure standard di stabilimento e delle cosiddette “pratiche operative” (schemi approfonditi e dettagliati sulla metodologia e sui pericoli che determinate lavorazioni comportano) rappresentava un elemento per evitare che chiunque potesse prendere delle pericolose “scorciatoie”. Il contratto a “tempo indeterminato” poneva molti lavoratori nelle condizioni di poter richiedere, a volte anche con forza, condizioni di lavoro sufficientemente sicure. Mi iscrissi anche al sindacato.

Nel 2006 anche l’impianto PCA, uno degli ultimi in ordine cronologico, fu interessato da un revamping, ossia un generale miglioramento impiantistico che avrebbe comportato il passaggio della supervisione dell’impianto stesso da un grandissimo pannello a muro con luci colorate e pulsanti di selezione multi posizione ad una supervisione tramite 5 o 6 monitor, tastiere e mouse. Anche la tecnologia presente nell’impianto cambiò; dai sensori di livello meccanici si passò a sensori di livello ottici o radar; il numero di sensori presenti su ogni macchina aumentò coprendo aspetti prima ignorati quali le temperature e le vibrazioni. Fu costruito anche un nuovo e più moderno impianto di captazione polveri, in sostituzione di quello esistente, eccessivamente obsoleto e solo parzialmente funzionante. Ogni macchina poteva interbloccare la precedente, evitando molti di quegli intasamenti di materiale che fisiologicamente accadevano. Questi importanti investimenti nel miglioramento impiantistico comportarono un maggior controllo dell’impianto stesso, riducendo le fermate e migliorando nel contempo la qualità delle produzione. Il rovescio della medaglia fu una riduzione della cosiddette “postazioni tecnologiche”, ossia del personale necessario per la conduzione dell’impianto. Si passò da 5 operai a 3 operai di campo. Gli ultimi “anziani” erano tutti andati in pensione. Anche i responsabili erano tutti ragazzi con meno di 30 anni d’età. Il personale complessivo dei lavoratori “sociali” (diretti ILVA) che raggiunse il picco massimo in poco più di 15.000 addetti, iniziò lentamente a diminuire per effetto del mancato turn-over degli ultimi lavoratori che andavano in pensione con i benefici per l’esposizione all’amianto e in virtù degli ammodernamenti tecnologici e della conseguente riduzione degli addetti necessari alla marcia degli impianti.

3 Comments

  1. Roberto Missiani Giugno 16, 2011 9:13 am 

    Vincenzo carissimo , se non ti conoscessi penserei che tu sia stato cooptato dall’azienda . Ci sono alcuni passaggi del tuo pregevole articolo , che sembrano scritti dall’ufficio stampa ILVA. La realtà è molto peggio di quella che tu descrivi . Voglio pensare che tu sia stato, tra i dipendenti assunti da RIVA , uno dei più fortunati.Basti pensare che alcuni giovani sono stati “inseriti” nei posti di lavoro il giorno stesso dell’assunzione e lì sono rimasti anche dopo la conferma. Ma sono stati resi “operativi” il giorno stesso dell’assunzione. Tanto dovevo per amore della Verità . Un abbraccio.

  2. Vincenzo Vestita Giugno 16, 2011 4:00 pm 

    Ciao Roberto,

    Taranto è nelle condizioni in cui si trova anche perchè quei pochi che hanno quanto meno il coraggio di dire quello che pensano, magari stando attenti a soppesare ogni singola parola per non trovarsi schiacciati da un gigante che fuori sembra invincibile (mentre dentro non lo sembra, lo è), invece di essere incoraggiati, vengono addirittura cazziati. E’ successo anche per quanto riguarda altri contesti per cui inizio ad abituarmi. Addirittura cooptato dall’azienda… eppure non mi pare di esserci andato leggerissimo. Sparare ad alzo zero verso una fabbrica in cui non amo lavorare ma lo faccio per necessità, in cui ho deciso di non vendermi anche il cervello e l’anima per 1000 schifosi euro al mese, ti confido non mi dispiacerebbe. Però cerco comunque di dire la mia, cercando per quanto posso di evitare di farmi stritolare. Io parlo della mia pesonale esperienza ed è vero, mi reputo fortunato a non essere capitato in alcuni reparti più esposti come le cokerie o le acciaierie, quindi mi pento e mi dolgo per questo.
    Di 11.500 lavoratori invece ce ne sono 11.495 che stanno zitti, altri ancora che hanno iniziato a dire o a fare qualcosa solo quando sono andati in pensione.

    Ce la faremo mai?

  3. Anonimo Giugno 18, 2011 7:12 am 

    Certo Vincenzo, solo chi non lavora o chi ci ha lavorato e adesso si gode la pensione puo’ permettersi di fare valutazioni irrispettose nei confronti di chi ancora ci sta dentro. E’ vero molti parlano solo dopo aver raggiunto la pensione ed è già tanto se lo fanno, altri invece la difendono per una sorta di sentimento di riconoscenza. Altri ancora ne erano completamente schiavi per poi successivamente diventare improbabili combattenti pro-ambiente, solo dopo aver raggiunto la pensione. Persino gli invalidi o gli ammalati ex-dipendenti Ilva (e sono tanti), pur ammettendo la pericolosità del lavoro nell’area a caldo e negli immediati dintorni, ammettono che è ‘pur sempre lavoro’ (come se fosse normale ammalarsi o morire per lavorare). Poi ci sono persone come te che con coraggio ma con ovvia prudenza ci illustrano realtà spesso sconosciute a chi è fuori. Personalmente ti ringrazio per il tuo impegno.

Comments are closed.