Contro i “flagellanti”. I numeri del voto a Taranto

di Salvatore Romeo (’84)

“Nella storia sono importanti tre cose: innanzitutto, il numero… in secondo luogo, il numero… e, per finire, il numero.” Così sentenzia Rémy, professore di Storia, di fronte agli sguardi straniti dei suoi studenti nel fulminante incipit de “Il declino dell’Impero americano”. Si è fatto un gran scrivere in questi giorni a proposito del mancato raggiungimento del quorum nella città di Taranto, ma nessuno ha guardato “il numero”. Non il numero complessivo dei votanti (che, a dire il vero, è rimasto al di sotto del “50% più uno” soltanto per 124 voti), bensì la distribuzione dell’affluenza nelle diverse zone della città. Insomma, quella che un tempo si sarebbe detta l’“analisi del voto”. Eppure questo è uno strumento interessante per cogliere i “movimenti tellurici” che, a prescindere da questo referendum, attraversano la società tarantina. Proviamo quindi a utilizzarlo e vediamo dove ci porta.

Le differenze nella distribuzione territoriale del voto che emergeranno dall’analisi vanno intese non come linee nette, bensì come sfumature. In questo modo, immaginando una rappresentazione grafica in cui le parti più colorate fossero quelle dove si è maggiormente concentrata l’affluenza, vedremmo la tinta sbiadire man mano che dal confine orientale della città si volge lo sguardo verso la parte opposta*.
Se infatti avesse votato solo l’area che dal Borgo (escluso) arriva a lambire il Salento, Lama-SanVito-Talsano compresi, cioè il 75% del corpo elettorale (127.437 votanti), il quorum sarebbe stato raggiunto tranquillamente con una media (51,7%) molto vicina a quella provinciale (52,4) e a quella regionale (52,5). Presso il restante 25% degli elettori (42.043 cittadini), concentrati nel Borgo, in Città Vecchia, ai Tamburi e a Paolo VI, l’affluenza (44,4%) è stata più simile a quella della provincia di Crotone (45,1), la peggiore d’Italia.
Scomponendo ulteriormente il dato è possibile rilevare che le sezioni in cui si registra l’affluenza maggiore sono abbastanza concentrate in un’area precisa della città: quella posta ad est di viale Magna Grecia (inclusa). Tutti insieme i seggi delle scuole Leonida, Battisti, Volta, Liside, Martellotta, Tempesta ed Archimede comprendono circa un quarto dell’elettorato complessivo (precisamente il 23%) e fanno segnare una media del 57,1%. All’interno del campione si oscilla fra il massimo del Liside (61,5% su 5 sezioni) a il minimo dell’Archimede (53,9 su 5 seggi). In ogni caso tutte le sedi presentano medie superiori a quella cittadina e fra tutte le altre scuole solo in una (la Renato Moro con le sue 6 sezioni) si riesce a conseguire un risultato migliore del “minimo” dell’Archimede (ma di pochissimo: 54,1%).

Martellotta (10 sez.) 5943 10168 58,4
Tempesta (5 sez.) 2090 3798 55
Archimede (5 sez.) 2920 5410 53,9
Liside (5 sez.) 2826 4595 61,5
Volta (9 sez.) 4197 7294 57,5
Battisti (6 SEZ.) 2782 5026 55,3
Leonida (3 sez.) 1430 2527 56,5
Est di Magna Grecia 22188 38818 57,1

Risultati complessivamente positivi e a loro volta abbastanza omogenei si registrano in un’altra area relativamente compatta: il “quadrilatero” Cesare Battisti-Magna Grecia-Virgilio, chiuso ad ovest dalle diramazioni di Corso Italia (via Giovan Giovine a nord e via Sorcinelli a Sud). Qui si trovano le scuole XVI circolo (Basile), Europa, Viola, XXII circolo (San Giovanni Bosco), Lorenzini, XII circolo (don Milani), Renato Moro, Alfieri, Colombo, Quinto Ennio: complessivamente si tratta di una percentuale di votanti molto vicina all’area precedente (22%). In questa zona il quorum è raggiunto di misura e i risultati delle diverse sedi oscillano fra il minimo della Lorenzini (47,1 su 5 sezioni) e il massimo della Renato Moro – che però, come si è visto, supera di pochissimo il punto più basso della zona precedente. Oltre alla Lorenzini solo un’altra scuola, la XXII circolo, non raggiunge il 50% (ma di pochissimo: 49,8 su 6 seggi).

XVI circolo – Basile (2 sez.) 874 1725 50,6
Europa (3 sez.) 1609 3113 51,6
Viola (6 sez.) 2571 4929 52,1
XXII circolo- don Bosco

(6 sez.)

2665 5363 49,7
Lorenzini (5 sez.) 1891 3992 47,3
XII circolo – don Milani

(3 sez.)

1436 2734 52,5
Renato Moro (6 sez.) 2725 5036 54,1
Alfieri (2 sez.) 1013 1881 53,8
Colombo (6 sez.) 2690 5151 52,2
Quinto Ennio (4 sez.) 1702 3202 53,1
Ovest di Magna Grecia (quadrilatero Cesare Battisti-Magna Grecia-Virgilio-Sorcinelli/Giovine) 18558 37126 50,0%

Il quorum è centrato anche in tutt’altra parte della città, le cosiddette “tre terre”. Le sezioni delle scuole Foscolo, Mazzaraso, Tramontone, Salvemini e Frascolla, raccolgono a loro volta un elettorato di poco superiore al quinto di quello cittadino (precisamente il 21,5%); da queste sedi emerge una media confortante: 51,7%, perfettamente allineata a quella della “parte orientale” (il 75% del corpo elettorale) considerata sopra. Ma in questi rioni le percentuali sono molto più omogenee che nelle aree analizzate in precedenza: si va dal minimo della Frascolla (l’unica che non raggiunge il quorum, col 48,7% su 5 sezioni) al massimo della Mazzaraso (52,3% su 7 sezioni). Anche in questo caso però il massimo non raggiunge il livello più basso della prima zona esaminata, quella in assoluto più “virtuosa”.

Foscolo (7 sez.) 3200 6221 51,4
VIII circolo- Mazzaraso (7 sez.) 3750 7168 52,3
XXIV circolo – Tramontone (8 sez.) 3960 7900 50,1
Salvemini (9 sez.) 5562 10352 53,7
Frascolla (5 sez.) 2412 4945 48,7
Talsano-Lama-San Vito (10,7%) 18883 36586 51,6%

Dalla fascia che attraversa l’ospedale in giù fino ai due grandi quartieri periferici di Tamburi e Paolo VI non solo non si raggiunge il quorum in nessuna sede, ma i risultati migliori non riescono neanche ad eguagliare i minimi delle altre zone. A ridosso del Borgo le grandi scuole Acanfora, Cabrini e Aristosseno – precedentemente incluse nella “parte orientale” –, in totale l’8,7% dei votanti, fanno segnare il 42,4% dell’affluenza.

Acanfora (9 sez.) 2865 7088 40,4
Cabrini (6 sez.) 1994 4251 46,9
Aristosseno (5 sez.) 1419 3468 40,9
Intermezzo a ridosso Ospedale 6278 14807 42,4%

La situazione migliora ma di poco nel Borgo, dove presso la Bettolo, la XXV Luglio e il Pitagora, comprendenti il 7,3% dell’elettorato, si arriva al 44,6% di affluenza con risultati abbastanza omogenei.

Bettolo (4 sez.) 1358 3102 43,7
XXV Luglio (6 sez.) 2314 5163 44,8
Pitagora (5 sez.) 1860 4135 44,9
Borgo (4,1%) 6951 12400 44,6%

In Città Vecchia c’è il crollo: nell’unica sede della Galilei, che raccoglie in realtà solo l’1,3% dei votanti della città, si raggiunge un misero 23,3%.

Città Vecchia
Galilei (3 sez.) 531 2277 23,3%

A Tamburi e Paolo VI – entrambi comprendenti l’8% dell’elettorato distribuiti rispettivamente presso le scuole Vico e Giusti, da una parte, e Pirandello, dall’altra – le medie oscillano attorno al 40%.

Giusti (7 sez.) 2298 6132 37,4
Vico (9 sez.) 3106 7453 41,6
Tamburi 5404 13585 39,7%
Paolo VI
Pirandello (13 sez.) (3,4%) 5780 13791 41,9%

Come si possono interpretare questi dati? Anzi tutto impressiona la compattezza della distribuzione delle percentuali. Quelle in assoluto più alte si concentrano, come abbiamo visto, in quella che potremmo definire la “città nuovissima”. E’ quella parte del centro abitato che si estende ad est di Viale Magna Grecia, urbanizzata in tempi relativamente recenti (ultimi 25/30 anni), coincidente grosso modo con i quartieri Solito-Corvisea e Salinella e con l’area cosiddetta “Taranto 2”. Presenta una composizione sociale relativamente omogenea, con netta prevalenza di ceti medi.
Un gradino sotto troviamo l’area che potremmo chiamare la “città nuova”. Prima dell’esplosione urbanistica che ha fatto seguito alla “grande industrializzazione” era il margine del Borgo; col tempo è diventato il centro fisico della città e l’area più densamente popolata. La composizione sociale è variegata: si va dalla borghesia delle professioni e del commercio a secche di sottoproletariato urbano.
Grosso modo alla pari troviamo le “Tre terre”. Zona in qualche modo a sé, quasi un vero e proprio microcosmo che riassume in sé tutte le contraddizioni del più ampio contesto urbano. L’urbanizzazione di questi luoghi è avvenuta in tempi e modi diversi: se il nucleo centrale di Talsano è cresciuto in conseguenza dell’espansione industriale, ma alimentato soprattutto dall’immigrazione di contadini delle aree limitrofe, un discorso a parte merita Lama. Qui a un primo nucleo anch’esso di origine “industriale” (Tramontone) – ma con tutt’altri connotati sociologici (netta prevalenza di di popolazione urbana) – è andata giustapponendosi una “seconda ondata”, molto più recente e sostanzialmente diversa. Residence, villette, palazzine: una vasta parte di questa zona ha assunto l’aspetto del sobborgo residenziale, rifugio di ceti medi in cerca di condizioni di vita meno “congestionate”. Queste differenze si riflettono ovviamente in una composizione sociale estremamente variegata, tipica – come si accennava – più del contesto urbano che non della semplice “periferia”.
Percentuali decisamente inferiori le si ha in centro. Questa zona in realtà l’abbiamo scomposta in due fasce. La prima, il “pre-centro”, dove si ottengono i risultati peggiori, prende le mosse da via Oberdan, attraversa l’Ospedale e giunge fino quasi a Piazza Ebalia. E’ la prima zona operaia della città, sorta già dagli inizi del Novecento attorno all’Arsenale. Oggi presenta una composizione sociale decisamente livellata verso il basso, ma con differenze interne stridenti (si pensi invece ai “grattacieli” che affacciano sul Lungomare); la “degradazione” di buona parte di quest’area si riflette d’altronde nel paesaggio urbano (interi palazzi chiusi e abbandonati perché pericolanti).
Le cose vanno un poco meglio nel Borgo propriamente detto, il nucleo di origine umbertina, dove ancora risiedono parti importanti delle classi dirigenti cittadine.
Ma i risultati in assoluto peggiori li si ha nelle zone più popolari: Tamburi e Paolo VI, grandi sobborghi prevalentemente operai con importanti nuclei di sottoproletariato, e Città Vecchia, ancora oggi sede del sottoproletariato urbano tarantino.

Si possono avanzare delle conclusioni in calce a questa analisi? Sommariamente sembrerebbe proprio che il risultato cittadino sia stato ottenuto grazie alla mobilitazione dei ceti medi dei sobborghi residenziali; ed è proprio da questi ultimi che i movimenti “reclutano” una parte consistente delle proprie leve. Si tratta di donne e uomini, ragazze e ragazzi, che meglio padroneggiano i nuovi strumenti di informazione e di relazione (in particolare internet) e che anche per questo elaborano un grado di consapevolezza su quello che gli accade attorno relativamente accentuato. Insomma, guardano “fuori dal loro cortile”. Non è poi da sottovalutare la correlazione fra questi gruppi e l’argomento dei referendum:. Questi chiamavano in causa alcuni beni comuni di fondamentale importanza (su tutti l’acqua) e quei soggetti non solo sono idealmente sensibili all’“interesse generale”, ma in molti casi si trovano a dipendere materialmente dal servizio pubblico – l’amministrazione, la scuola, il servizio sanitario nazionale ecc. – e ad esso devono il proprio status – se hanno potuto conseguire certe posizioni è stato prevalentemente grazie all’istruzione e al sistema di welfare che le ruota attorno. Insomma, sono i figli dello Stato sociale italiano, che – per quanto imperfetto – ha pur sempre consentito dal dopoguerra ad oggi livelli di promozione sociale prima inimmaginabili.
La situazione in altri punti della città è molto diversa: soprattutto laddove la “ritirata” dello Stato sociale, avvenuta negli ultimi vent’anni, ha lasciato sul campo non poche vittime. Qui alla protezione “legale”, diritto immediatamente esigibile di fronte alle istituzioni, è subentrata quella “informale”. Le elezioni sono un momento di scambio: si può ottenere la casa che l’edilizia pubblica non garantisce più o il sussidio che lo Stato stenta a pagare o ancora il ricovero in sala e non in corsia o l’assunzione nella ditta dell’appalto di questo o quell’ente. Il voto è fortemente personalizzato, in quanto sancisce un “patto” – in realtà sempre precario, perché espresso nella forma del favore, che è in ogni momento revocabile – fra chi si candida a esercitare un certo potere e chi dal potere è in vari modi marginalizzato.
Ma se questo è l’atteggiamento tipico del “sottoproletariato”, la stessa cosa non si può dire dei gruppi operai delle grandi industrie. Questi godono di una relativa stabilità che almeno in parte li sottrae alla dinamica dello scambio. Buona parte di essi risentono però della stessa ideologia privatistica che alimenta il clientelismo. E’ l’atteggiamento che gli è stato trasmesso dai rapporti di produzione e dai modelli culturali diffusi dai media, in cui l’individualismo è la stella polare delle relazioni sociali.
Quello che però impressiona è il risultato del Borgo. Nella parte dove risiede una componente significativa delle classi dirigenti cittadine i risultati sono simili a quelli dei quartieri più periferici. Certo, si tratta di una zona in cui la destra ha uno storico radicamento, per cui l’elettorato più vicino a quella parte politica potrebbe aver seguito le indicazioni dei maggiorenti nazionali e locali e sia “andato al mare”. Ma se rinunciamo all’idea che i cittadini siano macchine comandate dai partiti, potremmo giungere a un’ipotesi ancora più inquietante: che in fondo presso quei gruppi sia prevalente una concezione privatistica del servizio pubblico. A ben guardare è l’altra faccia della medaglia dello scambio clientelare: se quest’ultimo sussiste è perché chi esercita il potere lo fa come se fosse una risorsa da sfruttare per interessi privati. D’altra parte la vicenda del dissesto dovrebbe insegnare.
Leggendo i risultati del referendum “in filigrana” è possibile dunque parlare di “due città”, divise da un diverso approccio rispetto al servizio pubblico e alle relazioni sociali in generale – “privatismo” versus “pubblicismo”? Indubbiamente si tratta di una estremizzazione, anche perché i due elementi si trovano spesso intrecciati fra loro. Ma il prevalere di una sensibilità sull’altra in certi gruppi è evidente e contribuisce alla definizione della loro identità sociale. Ora, la struttura della società tarantina presenta una combinazione che la rende unica rispetto ai contesti circostanti (e dovrebbero ricordarlo quelli che si sono battuti il petto sull’“anomalia tarantina” a proposito del mancato raggiungimento del quorum): da una parte, la più grande concentrazione di lavoratori dell’industria di tutto il Mezzogiorno; dall’altra, uno dei tassi di emigrazione giovanile (e intellettuale) più alti della regione. Ciò fa sì che i gruppi che in questa fase sono portatori di prospettive più avanzate vivano una condizione non solo di minoranza numerica, ma anche di relativa marginalità.
Alla luce di tutto questo, il fatto che l’affluenza abbia raggiunto quasi il 50% è un risultato che dovrebbe rinfrancare i sostenitori del referendum – e della prospettiva “pubblicista” –, invece di abbatterli o di metterli l’uno contro l’altro con accuse reciproche di presunte defezioni. Essi sono riusciti a far smuovere partiti che nella pratica clientelare sono pienamente invischiati e hanno portato al voto anche persone che probabilmente prima di questo momento mai si erano poste il problema dei “beni comuni”. In una città come Taranto questi sono risultati che pesano e che andrebbero valorizzati nella prospettiva di una ancora più vasta mobilitazione nell’interesse del benessere collettivo – che da noi significa lotta per un ambiente salubre, per servizi pubblici efficienti, per un lavoro stabile, per un contesto culturale vivace…
Semmai, i movimenti e i singoli di buona volontà dal risultato del 12 e 13 giugno hanno un insegnamento di altro tipo da ricavare: in questa città il blocco sociale “privatista” è fortissimo e, anche fisicamente, “centrale”; per scalfirlo bisognerà immaginare forme e contenuti all’altezza della sfida. Per esempio: come strappare la classe operaia al culto del “particulare”? Come convincere il sottoproletariato che l’occupazione, la casa, la sanità sono diritti e non favori? Come mostrare alle classi dirigenti che col loro atteggiamento condannano sé stesse e la città al declino? Piuttosto che incamminarsi al seguito della processione dei flagellanti, si avvii subito una riflessione e un dibattito su queste questioni.

*: Le fonte cui ci si riferisce per la stima del corpo elettorale e dei votanti di ciascuna sezione è:

http://elezioni.csttaranto.it/referendum2011/20110612/index.html

L’analisi prende in considerazione soltanto il primo quesito (servizi pubblici), dal momento che non vi sono significative differenze fra i quattro in relazione all’affluenza complessiva.  Nella stima dei votanti di ogni sezione non è stato possibile includere le schede bianche e nulle, perché non riportate nei dati dei singoli seggi. In ogni caso queste ultime hanno un peso assolutamente marginale: 471 le bianche e 264 le nulle (fonte: http://referendum.interno.it/refe110612/RFI1607802701.htm). Sommate alle sezioni dell’ospedale civile – i cui risultati (64 voti) sono stati a loro volta esclusi dal calcolo -, si ottiene un quorum di pochissimo inferiore a quello effettivo: 49,45% contro 49,92%. Pertanto le stime esposte nell’articolo sono approssimate per difetto, ma di un margine che può ritenersi ininfluente.

1 comment

  1. Pino Mellone Giugno 20, 2011 10:40 am 

    Faccio i miei complimenti a Salvatore Romeo per la puntuale e estremamente dettagliata analisi del voto referendario. Tanti parlano senza cognizione di causa e sulla base ti tesi precostituite. E’ davvero utile riflettere, invece, sulla base di dati concreti. Vi ho inviato alcune mie riflessioni fatte sull’andamento dell’affluenza al voto a Taranto negli ultimi anni. E’ un contributo a capire le ragioni del malessere di questa nostra città. Cordiali saluti. Pino Mellone

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