di Gaetano De Monte
E’ il racconto di una tragedia del mare, è la cronaca di una strage rimossa, ma in fondo mai raccontata, “Il naufragio”, l’ultimo libro di Alessandro Leogrande, giornalista, scrittore, da pochi giorni in libreria, edito da Feltrinelli.
Era il 28 marzo 1997. Al governo c’era il centrosinistra guidato da Romano Prodi. Ministro degli Esteri era Lamberto Dini. Alla Difesa lo scomparso Beniamino Andreatta. Quel giorno, quel maledetto Venerdì Santo di oramai quattordici anni fa, la piccola motovedetta albanese «Kater I Rades», con un ponte lungo appena venti metri e con tre piccole cabine ricavate sottocoperta, un imbarcazione che non avrebbe potuto contenere più di dieci unità, ma che era partita alle 15.00 dallo “sgarrupato” porto di Valona, carica invece di circa centoventi, tra uomini, donne ed anche molti bambini, affondava nel Canale d’Otranto. Nello specchio di acque antistanti il porto di Brindisi. Al largo del Mar Adriatico. Di questi, alla fine saranno 81 le persone a mancare all’appello. Solo trentadue sopravvissuti. Uomini e donne che fuggivano da una guerra civile provocata dal fallimento della maggior parte delle società finanziarie nazionali, le cosiddette società piramidali, che aveva condotto il Paese alla miseria, alla bancarotta, costringendo molti alla fuga, all’esodo, nel tentativo di mettersi in salvo, e costruirsi una nuova vita in un altro Stato. Che scappavano da quella terra, l’Albania, uno stato “fallito”, che politici, economisti, ed imprenditori occidentali fino al 1996, sull’onda dell’entusiasmo per le speculazioni immobiliari e degli affari che la caduta del regime comunista aveva prodotto per molti di loro, dipingevano e presentavano come la ‘Taiwan dell’Adriatico’, una ‘piccola Svizzera nel cuore dei Balcani’.
In un quadro politico in cui l’autoritarismo del Presidente Sali Berisha doveva servire a contenere l’esasperazione della popolazione fino a quando la situazione economica delle famiglie non fosse significativamente migliorata, con il Fondo Monetario Internazionale che premeva per l’approvazione di politiche liberiste selvagge pensando forse che la popolazione albanese fosse troppo arretrata per comprendere i sacrifici e le truffe delle finanziarie a cui sarebbe stata esposta, e in quadro socioeconomico drammatico di morte, miseria e fallimento.
In questo contesto storico, alle 18.57 del 28 marzo 1997, una “carretta del mare”, la Kater i Rades, stracarica di uomini, donne e bambini di nazionalità albanese che fuggono da fame, guerra e disperazione, subisce uno speronamento da parte della nave Sibilla, una corvetta della Marina Italiana, che colpisce il piccolo natante due volte: una prima, sbalzando molte persone in acqua e una seconda capovolgendolo, prima di farlo definitivamente affondare alle 19.03. Solo pochi, e soprattutto uomini, riescono a nuotare al buio, nelle acque gelide, fino a raggiungere la Sibilla. Una tragedia del mare. Ottantuno morti. Trentadue sopravvissuti. Un massacro.
Quel giorno a svolgere operazioni di pattugliamento nel canale d’Otranto c’erano cinque navi della Marina Italiana: le fregate Zeffiro, Aliseo, Sagittario, il pattugliatore Artigliere e la corvetta Sibilla. Le prime quattro sotto il controllo del comando in capo della squadra navale, a Roma, agli ordini dell’ammiraglio di squadra Umberto Guarnieri. La Sibilla, invece, sotto il controllo del Maridipart di Taranto, e quindi alle strette dipendenze dell’allora ammiraglio di squadra Alfeo Battelli. Comandi e compiti diversi, ma in realtà, stesso obiettivo, quello di impedire cioè l’arrivo in acque italiane del natante albanese. Le prime quattro hanno il compito infatti di perlustrare le acque internazionali a ridosso delle coste albanesi. La corvetta Sibilla, invece, agli ordini del Comando In Capo del Dipartimento Marittimo in Terra d’Otranto, Maridipart, con sede a Taranto, nella palazzina rossa dell’ammiragliato in corso Due Mari, e con compiti e funzioni difensive diversa: quello cioè di collocarsi al confine tra le acque italiane e quelle internazionali, controllando in una sorta di seconda linea le acque italiane. Indipendentemente comunque dalla catena di comando della Marina e della Difesa italiana esistente quel Venerdi Santo, la posizione del Governo Italiano di centrosinistra di fronte a questa nuova ondata migratoria proveniente dai Balcani si era già palesata in uno scambio di lettere tra Lamberto Dini, nostro Ministro degli Esteri e il suo omologo albanese, il 25 marzo del 1997, tre giorni prima. In quella lettera ad un certo punto il ministro italiano afferma che «a seguito della situazione venutasi a creare in Albania caratterizzata da gravi violazioni dell’ordine giuridico e da un massiccio flusso di cittadini verso altri paesi, si sarebbe resa necessaria una collaborazione più stretta tra i due paesi. Il Governo Italiano, pertanto “offriva la propria assistenza per il controllo ed il contenimento in mare degli espatri clandestini da parte dei cittadini albanesi”». Un’assistenza che si sarebbe dovuta esplicare «mediante il fermo in acque internazionali ed il dirottamento in porti albanesi da parte di unità delle Forze navali italiane di naviglio battente bandiera albanese o comunque riconducibile allo stato albanese». Il debole governo di Berisha, che intanto non controlla più il Sud del Paese, da parte sua non può che accettare formalmente la lettera d’intenti del nostro ministero, dando vita così una sorta di blocco navale. Si stabilisce così, che per un albanese è assolutamente vietato dirigersi in Italia. E chi lo fa è automaticamente un “clandestino”o un delinquente intenzionato a sottrarsi al controllo della giustizia.
Tornando a ciò che accadde alle 18.57 di quel Venerdì 28 marzo del 1997, questa data costituisce uno spartiacque nella storia dei viaggi della speranza di migranti e profughi verso l’Italia. Perché per la prima volta si attuerà un blocco navale in alto mare contro i “clandestini”, che altro non sono che nostri fratelli e sorelle che vivono al di là dell’Adriatico. Perché si mette in atto per la prima volta un operazione di respingimento da parte della nostra Marina. Perché quelle politiche d’ora in avanti produrranno negli anni solo tragedie del mare, come quella della Kaiten I Rides. Perché costituisce il paradigma di quelle che sono state tante storie, tanti misteri italiani. Perché quel che accadde davvero quella sera all’interno della catena di comando della Marina Italiana nessuno lo avrebbe dovuto sapere: le manovre azzardate della nave Sibilla nelle operazioni di “harrasment”, quel che successe in mare, quello che accadde in terra, gli ordini impartiti da Roma e quelli da Taranto, quelle parole ascoltate per caso dal capitano Fusco provenienti dal Comando romano delle unità navali e dirette all’ammiraglio Battelli: «Abbiamo detto a nave Zeffiro di fare un’azione più precisa finanche quasi a toccare il bersaglio». “Che razza di ordine fosse mai questo”, si chiese subito il capitano Fusco. Così come se lo chiede Alessandro Leogrande nel libro. Come se lo sono chiesto i parenti delle vittime. I superstiti e i loro avvocati. Ed un pubblico ministero coraggioso e liberale, Leone De Castris, già noto per aver condotto varie inchieste sulla mafia in Puglia, che indagò a lungo sul comandante della “Sibilla”, Fabrizio Laudadio, e quello della “Kater”, Namik Xhafer. Oltre che su Umberto Guarnieri, che sarebbe poi diventato capo di Stato maggiore della Marina militare, ed Alfeo Battelli, all’epoca comandante di quell’ importante spicchio di mare stretto tra il golfo di Taranto ed il canale d’ Otranto, tra il mar Ionio ed il mar Adriatico. Quel mare Mediterraneo che è stato storicamente di scambio e di accoglienza, talvolta nella storia invece, si tinge di tragedia, come quella sera di oramai quattordici anni fa, quando accadde “la strage del Venerdi’ Santo”, il naufragio, in cui persero la vita – hanno sostenuto fin dal primo momento i 32 superstiti – ben 81 albanesi. O come è accaduto più volte durante il 2011, quando dall’inizio dell’anno, con lo scoppio delle rivolte in Maghreb e l’esplosione del conflitto libico riprendono gli sbarchi nel mediterraneo, e da gennaio alla fine di Giugno trovano la morte ben 1820 persone nel Mediterraneo. Negli stessi giorni in cui si chiude il processo di secondo grado per l’affondamento della Kater I Rades che vedrà condannati a pene lievi solo i comandanti delle due imbarcazioni, l’albanese Namik Xhaferi e l’italiano Fabrizio Laudadio, mentre usciranno indenni dalla vicenda i presunti veri responsabili della sciagurata operazione, gli ammiragli Alfeo Battelli e Umberto Guarnieri, che da terra erano in stretto collegamento con le navi al largo dell’Albania.
Un massacro di donne, uomini e bambini che sarà sostanzialmente archiviata come una fatalità, come una tragedia del mare causata dall’imperizia di chi era al timore di un piccolo naviglio stracarico di albanesi che cercava di raggiungere le coste pugliesi. Un “muro di gomma”, come quello costruito dall’Aeronautica attorno alla strage di Ustica, si alzerà questa volta anche per la Marina militare. Sarà lo stesso, identico, fitto cordone di coperture e complicità creato attorno ad alti ufficiali delle forze armate e a spioni di stato, coinvolti anni fa nelle inchieste sulle stragi. Ed anche questo accadimento sarà un mistero d’Italia, l’ennesimo, la cui risoluzione si stringe attorno a poche parole:“Finanche quasi a toccare”. Sarà attorno a queste flebili parole che in molti, magistrati, avvocati, e giornalisti come Alessandro Leogrande che sin dall’inizio ha seguito la vicenda della Kater I Rades, si chiederanno i perché di una tragedia del mare. I motivi di un naufragio.
In una coltre di silenzio cadrà invece il governo di Romano Prodi. In profonda difficoltà affiderà le uniche dichiarazioni sull’accaduto a Beniamino Andretta, allora ministro della Difesa, il quale dirà «i nostri marinai hanno mantenuto un comportamento corretto». Perchè le operazioni navali che si svolgevano allo scopo di bloccare l’immigrazione clandestina prevedevano anche un “legittimo uso della forza da parte di unità’ impiegate in compiti di polizia nei mari”. Una tesi, quella del Governo, ed esposta da Andreatta che anticipa quella che sarà la stessa giustificazione dei due alti ufficiali accusati, quando verranno ascoltati dal magistrato. Un’ argomentazione che si basa sugli accordi fra Roma e Tirana che stabilirono le “regole di ingaggio” per i marinai chiamati a perlustrare lo specchio d’acqua fra le coste italiane e quelle albanesi. Ed una strategia difensiva in base alla quale l’incidente del marzo ’97, in cui persero la vita un centinaio di profughi, fu tutta colpa del comandante della “carretta” albanese”. Oltre queste parole nulla. Il governo dell’Ulivo calò in un silenzio assordante. Fu il momento più basso di quella pagina politica. Un momento dimenticato, e mai raccontato.
Alessandro Leogrande con “Il naufragio”, ha invece il merito di aver indagato a fondo e con coraggio la vicenda della Kater I Rades, e di averla raccontata con grande acutezza d’analisi. Con uno stile asciutto, sobrio, essenziale. In un libro che è da leggere tutto di un fiato. Con uno sguardo a ciò che nel 2011 è accaduto al largo delle coste libiche.