di Salvatore Romeo (’84)
Da tempo a Taranto si discute attorno alla prospettiva di chiudere il siderurgico. Nel frattempo però è come se un’ILVA si fosse già fermata. Dal 2008, anno di inizio della crisi che stiamo ancora attraversando, nella nostra provincia l’occupazione è calata di 13 mila unità: da 179 mila occupati si è passati, nel 2010, a 166 mila. Le cifre, già di per sé terribili, rivelano tendenze di fondo allarmanti.(V. Allegato statistico, grafico 1)
La perdita più consistente di posti di lavoro la si è avuta nell’industria: all’interno di questo settore la contrazione più sensibile l’ha fatta registrare il comparto delle costruzioni, dove l’occupazione è diminuita del 25% in tre anni; mentre l’industria “in senso stretto” registra un calo delle unità lavorative del 13%. Poco meno intensa la perdita nei comparti agricoli (- 10%); mentre, fra i servizi, il comparto commerciale-alberghiero fa segnare persino un incremento degli occupati (+ 10%) e raggiunge così l’industria in senso stretto come unità lavorative impiegate.(V. All. stat., Tab. 1).
Ma la domanda che ci si dovrebbe porre è: che fine hanno fatto queste 13 mila persone che hanno perso il lavoro? I dati sono espliciti al riguardo: è aumentata di 7 mila unità la categoria degli inattivi. Secondo la definizione ISTAT questi sono soggetti che né lavorano, né cercano lavoro. Nell’anno di crisi più intensa finora attraversato, il 2009, sono confluiti in questo gruppo non solo tutti i lavoratori espulsi dalle rispettive aziende, ma anche una parte dei soggetti che fino a quel momento erano in cerca di lavoro (i “disoccupati” in senso proprio). L’andamento della congiuntura ha provocato, in breve, uno scoraggiamento generale circa la possibilità di trovare un posto. Nel 2010, il flebile miglioramento delle prospettive, ha spinto i lavoratori licenziati nel corso dell’anno a rimettersi subito in cerca di una nuova occupazione, ma nel frattempo il numero complessivo degli inattivi è rimasto inalterato – il che rivela che i segnali lanciati dal mercato del lavoro sono stati estremamente deboli.
Ora, si potrebbe pensare che l’aumento degli inattivi derivi da un contestuale incremento della popolazione studentesca e del numero dei pensionati. Ma un’analisi disaggregata per fasce d’età dimostra che non è così. In assoluto l’accesso al limbo dell’inattività ha riguardato soprattutto i cittadini fra i 25 e i 44 anni: presso questa parte della popolazione quelli che non lavorano né cercano lavoro sono aumentati del 16% fra 2008 e 2010 (un ritmo ben più rapido del 2% fatto segnare dal dato generale).
Tale dinamica rivela che l’allarme occupazionale esploso nella nostra Provincia riguarda in primo luogo le leve più giovani della forza lavoro. In assoluto la fascia d’età maggiormente colpita dalla perdita d’occupazione è quella dai 25 ai 34 anni. Solo presso tale componente nell’ultimo triennio sono andati bruciati qualcosa come circa 12 mila posti di lavoro, con una flessione del numero degli occupati pari al 24% circa rispetto al dato del 2008. A seguito di questo stillicidio il tasso di occupazione relativo a questa fascia d’età è crollato dal 61 al 49%: in definitiva, oltre la metà dei tarantini fra i 25 e i 34 anni non lavora. Meno consistenti sono state le perdite nella categoria immediatamente più anziana, quella dai 35 ai 44 anni, dove si registra una riduzione degli occupati di circa 6 mila unità, pari a una diminuzione del 10% rispetto al 2008.(V. All. stat., Tab. 2)
Nonostante il notevole aumento dei disoccupati verificatosi nel 2010 (+ 39% rispetto al 2008), una buona parte dei venti-trentenni della nostra provincia resta inattivo: in quello stesso anno ammontava al 38% circa la quota di quelli che non lavorano né cercano lavoro all’interno di quella fascia d’età – a fronte del 25% nel 2008. Quasi lo stesso dato si riscontra fra i trenta-quarantenni (37% nel 2010, contro il 31 del 2008).(V. All. stat., Tabb. 3 e 4)
Viene così a delinearsi anche a Taranto quel fenomeno descritto dall’ultimo rapporto SVIMEZ¹: la comparsa dei cosiddetti NEETs (Not in education, employment or training), cioè di una categoria di popolazione relativamente giovane che ha ormai ultimato il percorso di formazione e si trova non solo senza lavoro, ma fortemente scoraggiata a cercarne uno. Tale fenomeno pone in essere una conseguenza estremamente grave, che gli stessi ricercatori SVIMEZ hanno definito “brain dust”, letteralmente “spreco dei cervelli”. Infatti i soggetti collocati in quella fascia d’età generalmente hanno un elevato livello di formazione e di qualificazione professionale, per cui il loro mancato impiego implica danni gravi per il sistema economico e incentiva un atteggiamento negativo nei confronti della formazione, percepita come un momento sostanzialmente inutile. Tali esiti costituiscono la migliore via verso il declino economico: personale meno formato spinge le aziende a investire ancora meno in innovazione, perdendo così competitività.
D’altra parte, il sistema industriale della nostra provincia pare abbia iniziato a percorrere tale strada ben prima che la crisi manifestasse le sue nefaste conseguenze. Analizzando l’andamento del valore aggiunto – un indice rivelatore della produttività totale dei fattori di una singola unità aziendale come di un sistema produttivo – si nota che a Taranto, a partire dalla metà del decennio scorso, le attività manifatturiere hanno iniziato a declinare progressivamente, facendo registrare nel 2009 un valore aggiunto pari al 23% del 2005. In termini assoluti, attestandosi a 1,2 miliardi di Euro circa, tale fattore è tornato al livello precedente il 2000: praticamente le performance dell’industria jonica sono regredite di dieci anni. Tale tendenza sembra ribadire quanto già detto a proposito della ripartizione per settori del calo dell’occupazione. In definitiva, la congiuntura negativa che investe l’economia italiana e mondiale pare aver accentuato una crisi industriale che matura da ben prima nel nostro territorio.(V. All. stat., Tab. 5)
In attesa di avere maggiori dettagli circa i comparti in cui si sono registrate le perdite più significative di valore aggiunto, occorre tuttavia segnalare che gli anni 2005-2007 sono stati per le grandi industrie che insistono nella nostra provincia estremamente favorevoli (in particolare la produzione siderurgica ha fatto segnare record mai prima d’allora conseguiti). Questo dovrebbe suggerire che la gran parte della contrazione si sia concentrata in comparti merceologici fortemente esposti alla concorrenza dei paesi emergenti sia extra-comunitari che dell’UE a 27 (tessile, industria del mobile e delle confezioni ecc.), presso i quali opera la gran parte della piccola e media impresa locale (ma non esclusivamente questa, si veda i casi di Miroglio e Natuzzi, per es.).
La crisi dunque rischia di aggravare il dualismo economico della nostra provincia. Da una parte, i grandi gruppi sono i soli al momento ad avere risorse finanziarie e potere di mercato tali da potersi permettere più o meno ampie campagne di investimento volte a innalzare la produttività dei loro stabilimenti (i “raddoppi” di ENI e Cementir vanno in questo senso, come i piani già annunciati dall’ILVA, mentre spicca la decisione di Marcegaglia di avviare una produzione di pannelli fotovoltaici in luogo di quella di caldaie per inceneritori); dall’altra, le manifatture “tradizionali” sembrano destinate a perire sotto i colpi della contrazione generale dei consumi – sospinta dalla diminuzione dell’occupazione – e dell’irresistibile concorrenza straniera, deboli come sono sia sul piano finanziario che su quello tecnologico. E non ci si illuda che l’espansione del settore dei servizi possa compensare queste perdite: la tendenza depressiva che riguarda i consumi colpisce anche commercio e turismo², mentre i dati allarmanti sulle sofferenze finanziarie prospettano una prossima instabilità dello stesso settore bancario³.
Se questo è il quadro socio-economico generale della nostra Provincia, bisogna chiarire che certe opzioni di politica economica messe in campo dalle autorità locali rischiano di accelerare il declino. La decisione sciagurata del Comune di Taranto di dar luogo alla realizzazione di interi nuovi quartieri (piano Salinella, variante Fintecna, variante Cimino-Auchan) a fronte della progressiva riduzione della popolazione residente e del suo contestuale impoverimento prospetta l’esplosione di una bolla edilizia che aggraverebbe ulteriormente il dato – già di per sé allarmante – dell’occupazione nel settore delle costruzioni.
D’altra parte l’impegno profuso dall’intera classe dirigente locale in funzione dell’ampliamento del porto rischia di dar luogo ad esiti drammaticamente controproducenti. Nel discorso pubblico si tende infatti ad omettere la circostanza per cui le grandi infrastrutture di comunicazione rappresentano significative agevolazioni agli scambi internazionali. Ora, la domanda è d’obbligo: una nuova grande piastra logistica andrebbe a vantaggio dei produttori locali, che già negli ultimi anni – con infrastrutture ben più limitate – hanno subito l’offensiva commerciale dei paesi emergenti o piuttosto favorirebbe l’ulteriore penetrazione da parte di questi ultimi? Al lettore intelligente l’ardua sentenza.
A questo punto bene farebbero sia i rappresentanti politici che le organizzazioni sindacali e datoriali a elaborare proposte coerenti con il particolare stato di crisi che stiamo attraversando. Se i nodi da risolvere sono l’impiego della parte di popolazione più giovane e preparata e la profonda ristrutturazione del sistema industriale locale, si pensi a iniziative in grado di promuovere produzioni ad elevato contenuto tecnologico, in settori il cui mercato si muove in controtendenza rispetto all’andamento generale del sistema economico e in cui vi sia ampio margine d’innovazione. E non ci si limiti, come troppo spesso accade, a difendere l’esistente o a riproporre pigramente le vecchie soluzioni del mattone e della grande opera.
¹ V. SVIMEZ, Rapporto SVIMEZ 2011 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna 2011, pp. 187-214. o anche Id. INDAGINE CONOSCITIVA SUL MERCATO DEL LAVORO TRA DINAMICHE DI ACCESSO E FATTORI DI SVILUPPO. Nota per l’Audizione della SVIMEZ presso la Commissione XI Lavoro della Camera dei Deputati, Roma , 18 ottobre 2011, in http://web.mclink.it/MN8456/iniziative/18_10_2011_audizione/18_10_2011_audizione_testo.pdf.
² Considerando i dati messi a disposizione dall’ISTAT, la dinamica del valore aggiunto del settore Servizi è stata l’effetto di un costante incremento dei comparti “Intermediazione finanziaria” e “Altri servizi”, mentre il segmento relativo a “Commercio, alberghi, comunicazioni” ha avuto un andamento molto più discontinuo: dopo un’impennata fra 1999 e 2001, si è registrata una sostanziale stabilizzazione fra 2002 e 2007 (in realtà una crescita del 3,8%, ma a fronte del + 20,5% fatto registrare dall’intero settore).
Ottima seppur drammatica analisi, ringrazio l’autore.
Taranto è la città per eccellenza del declino industrial – economico. La sua crisi è iniziata ai tempi in cui non si seppe traformare l’indotto in aziende innovative competitive nel mercato globale. Il peggio del peggio, però, si è avuto con la privatizzazione, fatta come se fossimo in suk e, per giunta, senza una politica industriale. Eppure a Taranto c’è concentrato il meglio dell’industria di Stato e privata.
La gocci che ha fatto traboccare il vaso è stato il default dell’ammnistrazione comunale Di Bella che l’attuale sindaco Stefano ci ha messo una pezza non da politico ma da prestigiatore delle tre carte. Molte aspettative, sorte quando fu candidato, perse per colpa di una gestione umorale. Mentre le stelle stanno a guardare, l’amministrazione provinciale è in tutt’altre faccende affacendata.