di Gaetano De Monte
E’ ormai notizia di qualche settimana fa: la Regione Puglia ha sospeso il bando di gara per la realizzazione dell’ospedale San Raffaele del Mediterraneo. In un numero precedente del nostro web-magazine avevamo ampiamente documentato l’affaire della costruzione del nuovo nosocomio a gestione privatistica, che sarebbe costato alla città di Taranto la chiusura dei due ospedali pubblici, il Santissima Annunziata ed il Moscati e la contestuale riduzione dei posti letto di ottanta unità. La sospensione del bando si deve all’inutilizzabilità dei suoli sui quali si sarebbe dovuta costruire la megastruttura, finanziata complessivamente con 214 milioni di euro, di cui la metà provenienti dalla nostra Regione.
Uno stop causato dai dieci divieti a costruire che pendono sulle aree interessate, in passato pervase da incendi e pertanto a rischio idrogeologico, quindi non utilizzabili per edificazioni di alcun genere. E’ saltata così, insieme alla costruzione dell’ospedale di Don Verzè, anche la più grande operazione di speculazione immobiliare che la Taranto del dopoguerra ricordi.
Sono naufragati soprattutto i sogni speculativi di Fintecna immobiliare Srl, una società partecipata al 100% da Fintecna Spa (Finanziaria per i settori industriale e dei servizi) la quale a sua volta è interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle finanze. Una società interamente pubblica, dunque, nata in teoria con il compito di “fare cassa” a favore dello Stato, con una “mission” originale tutta orientata alla vendita e alla gestione del patrimonio immobiliare statale costituito da palazzi, caserme, stabilimenti siderurgici ed ex manifatture in parte ereditati dalla dismissione dell’Iri (da cui è nata la stessa Fintecna) e in parte acquisiti su mandato del ministero del Tesoro. Ma in realtà di soldi agli enti pubblici (nel caso di specie il Comune di Taranto) Fintecna ne avrebbe fatti solamente perdere.
Questa dinamica si ripropone anche con riferimento alle aree in questione, situate nel quartiere Paolo VI. In base alla suddetta operazione immobiliare, Fintecna avrebbe ceduto “gratuitamente” al Comune di Taranto suoli di sua proprietà per 32 ettari (di cui venti adiacenti la Cittadella della Carità) localizzati nel Quartiere Paolo VI, la stessa zona nella quale sarebbe dovuto sorgere l’ospedale, ottenendo però come contropartita la variante a costruire a beneficio di altre proprietà della stessa Fintecna, poste a Nord e ad Ovest del Quartiere, di circa quindici ettari. Una variante che avrebbe consentito che suoli sino ad oggi abbandonati e inutilizzabili fossero trasformati “magicamente” in un quartiere di lusso con ville e palazzine basse. Ma non solo: avrebbe anche consentito di moltiplicare di circa il 50 % il valore dei suoli adiacenti, arricchendo le tasche dei rispettivi proprietari, di quelli vecchi e anche di coloro che in quelle aree hanno investito di recente. Come Mario De Sarlo, un imprenditore edile che negli ultimi tempi ha investito anche nel fotovoltaico, che ha comprato a marzo 2,8 ettari di quelle aree; o come Paolo Ruta, noto costruttore tarantino che agli inizi di novembre ha acquistato dalla stessa Fintecna poco più di tre ettari ad un prezzo di venti euro al metro quadro, a fronte di un prezzo di mercato che si aggirerebbe attorno ai cinquanta.
Ma sono soprattutto i vecchi proprietari delle aree adiacenti a quelle di Fintecna che avrebbero potuto fare affari d’oro, in quanto la gran parte dei suoli nella zona (parliamo di oltre 60 ettari) sono già da decenni destinati ad ospitare abitazioni. Solo che non è mai stato abbastanza conveniente costruirci. Per chi? Per l’Iclis, una cooperativa che fa capo al gruppo Riva, che ha comprato nel 1995, insieme all’ILVA, quasi la metà delle aree del quartiere Paolo VI di proprietà dello Stato, quando anche l’acciaio lo era. Un tempo erano terreni destinati a ospitare le case popolari per gli operai, delle quali risulta realizzata solo una piccolissima parte. Se l’operazione San Raffaele fosse andata in porto, invece, probabilmente si sarebbe ampiamente costruito, ne siamo certi. Ne sarebbe nato un business di circa 30 milioni di euro. Ma questa è un’altra storia: quella della subalternità di una Città a un gruppo industriale. Quella del ricatto occupazionale di Taranto e della sua provincia. Storia di morte e di ricatti, quella dell’Ilva, sulla quale la nostra curiosità si manterrà sempre attenta e vigile.
Oggi invece il nostro desiderio di sapere, conoscere e di raccontare, lascia Taranto e si dirige nel cuore di Roma, nella lussuosa Via Veneto, dove Fintecna ha sede nello stesso palazzo che, negli anni d’oro in cui crollava la prima Repubblica, appartenne all’IRI di Romano Prodi. Una volta, infatti oltre ai paparazzi e alla “dolce vita” descritta da Federico Fellini, in via Veneto c’era l’istituto per la Ricostruzione Industriale, creato da Alberto Beneduce durante il fascismo con capitali pubblici.
Quando poi lo Stato imprenditore è passato di moda l’Iri ha perso fascino, potere e aziende, le imprese pubbliche sono state privatizzate e i soldi sono finiti a tappare i buchi di bilancio. Un po’ di questi soldi (tanti in verità) sono finiti in Fintecna, una società controllata al 100% dal Ministero dell’Economia. Nell’ultimo bilancio di Fintecna figura un attivo patrimoniale totale di 8,2 miliardi di euro. Di questi, 5 miliardi e 400 milioni sono liquidi, con appena 636 milioni di debiti. E di questi soldi, ben 7 milioni di euro all’anno sono destinati a pagare l’affitto del lussuoso palazzone dove ha sede la società, somma versata al fondo immobiliare chiuso Cloe, cui partecipa anche Pirelli Real. Affitto per di più quasi raddoppiato in pochi anni. Lo Stato (cioè noi) così paga per un’azienda che è di sua proprietà, uno stabile che per giunta fino a pochi anni fa gli apparteneva.
Infatti nel grande pancione di Fintecna è finito sino ad ora ogni grana e spreco di denaro pubblico. Dalla Fincantieri, passando per la Tirrenia, fino alla ricostruzione post terremoto dell’Aquila. Una grande cassaforte, quella di Fintecna, usata come una mucca da mungere per ardite operazioni in campo immobiliare ed infrastrutturale. La società infatti è anche l’azionista principale della “Stretto di Messina”, la società per azioni incaricata di realizzare l’opera. Gli altri azionisti sono le Ferrovie dello Stato, l’Anas, e le due regioni interessate, Sicilia e Calabria. Ma sarà Fintecna a pagare il 40 per cento delle opere che spettano alla parte pubblica. Come dire che una società nata per gestire al meglio i ricavi delle privatizzazioni, realizzate in teoria per migliorare i conti pubblici, userà i ricavi per finanziare un’opera inutile e pericolosa, che indebiterà lo stesso Stato. Una specialista nel fare perdere i soldi all’erario, Fintecna, e gli esempi in questo senso di certo non mancano. Come il palazzo, costruito nell’800, di proprietà del demanio dello Stato, che ospitava l’ex istituto geologico di Roma e che è stato ristrutturato nel 1995 per ospitare gli uffici dello stesso istituto, che ora risulta invece al centro di una grande operazione speculativa.
Tutto ha inizio quando Fintecna Immobiliare, rileva dal Demanio l’ex Zecca di piazza Verdi, e l’ex sede dell’Istituto Geologico, e lancia un bando di gara per trovare costruttori privati che concorrano per il 50% alla realizzazione dell’affare. Un’alleanza pubblico-privato sulla carta, ma che in realtà è un grosso affare per i soliti speculatori e palazzinari. I quali si aggiudicano una maxi-asta immobiliare che comprende anche l’acquisto, per una quota del 50%, oltre che della ex Zecca dello Stato e dell’ex Istituto geologico nazionale, dell’intera area dello scalo di San Lorenzo, e dell’area di Val Cannuta, per un costo totale di 368 milioni di euro, circa la metà del valore effettivo. Ma la cosa più grave è la destinazione di tale opere: al posto dell’ex Zecca sarà realizzato un albergo di lusso, e a Scalo di San Lorenzo e Val Cannuta sorgeranno edifici residenziali e commerciali per 16000 metri quadri. Fate un po’ voi i conti dei loro guadagni – e dei nostri costi – per questa speculazione, tenendo presente che in quelle zone di Roma una casa può costare anche quattro-cinque mila euro a metro quadro. Guadagni tutti interni al mercato privato, naturalmente. E nonostante si tratti di un patrimonio pubblico, con una gestione che rimane per almeno il 50% pubblica, nulla è previsto invece per le esigenze dei cittadini, anzitutto alloggi pubblici e servizi. L’unico intervento che non aveva il solo obiettivo speculativo pareva essere quello previsto per l’Istituto Geologico, dove era prevista la nascita di un una “Casa delle nuove Tecnologie”. Ma, guarda caso, questo progetto è saltato e verrà realizzato un altro centro commerciale.
Quasi inutile aggiungere che a trarne beneficio e ad aggiudicarsi l’asta è una cordata composta in massima parte da Pirelli Real Estate affiancata da Fingen e dal gruppo Maire. Una società, Fintecna, che la stessa Eurostat ha definito fuori dal perimetro pubblico, e che però ha stretto alleanze paritetiche con privati e big del mattone come Ligresti, Pirelli re, Toti, Maire e numerose cooperative, per attuare un piano di dismissioni del patrimonio immobiliare statale per circa 7 miliardi (entro il 2013).
Fintecna, in verità, comunque sa anche quando guadagnare, come nell’affare San Raffaele, o come all’indomani del sisma che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile 2009. Infatti il decreto Abruzzo convertito in legge 22/2009 prevede che lo Stato possa, a richiesta degli interessati, subentrare nel mutuo dei cittadini che hanno una casa non più agibile. Lo Stato subentra per un importo massimo di 150mila euro, a condizione che l’edificio sia adibito a prima casa e che il mutuo sia in regola con i pagamenti. Il pagamento è effettuato direttamente alla banca creditrice, purché contestualmente la proprietà passi allo Stato che la trasferisce a Fintecna Spa «ovvero alla società controllata e da essa indicata». Sul sito di Fintecna Spa si legge che “Fintecna Immobiliare Srl è stata designata dalla Fintecna S.p.A. per lo svolgimento delle attività connesse a quanto sopra indicato, con specifico riferimento alla ricezione delle domande presentate dai singoli interessati, per il subentro dello Stato nel finanziamento preesistente con contestuale cessione in favore della Fintecna Immobiliare Srl dei diritti di proprietà sugli immobili adibiti ad abitazione principale distrutti”.
Sostanzialmente, un cittadino abruzzese invece di continuare a pagare un mutuo su una casa inagibile e senza la certezza di una ricostruzione, che nel centro storico non è mai partita, preferisce vendere a Fintecna Immobiliare e magari acquistare altrove. Questi cittadini a volte si trovano costretti alla cessione, perché contestualmente al mutuo si trovano a dover pagare un affitto. Ma il cittadino cedendo il mutuo a Fintecna ne cede anche la proprietà. Insomma la società acquista immobili per un importo massimo di 150.000 euro, esattamente la cifra rimborsata dallo Stato. Qualora il governo stanzi i fondi per il restauro e la ricostruzione, Fintecna immobiliare potrebbe accedere agli stanziamenti, per poi in futuro immettere gli immobili sul libero mercato.
Quella che abbiamo raccontato in realtà è l’ennesima storia di comitati e filiere d’affari, sorte e risorte in Italia, all’ombra del berlusconismo rampante, e che si sono consolidate nelle cricche, nelle residue grandi aziende di Stato, con il fine ultimo di sfamare ex fascisti continuamente affamati di potere e denaro, faccendieri e truffatori cresciuti parassiti all’ombra del potere socialista e democristiano, e che nella sentina putrida del berlusconismo hanno guadagnato una cospicua pensione.
Ci spiace soltanto che di queste storie, come di quella della Fondazione del San Raffaele, di cui vi abbiamo raccontato nelle scorse settimane, sembra che non se ne siano accorti, o che abbiano preferito non volersene accorgersene, gli uomini politici più direttamente chiamati in causa in queste vicende, il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, ed il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano.
Storie queste che parlano tutte di socializzazione delle perdite e di privatizzazioni dei profitti, e fin anche dei diritti. Uomini, loro, che consideravamo “diversi” e a cui avevamo dato fiducia. Ma forse gli uomini in questione sono fatti così: impermeabili alla verità, tetragoni all’evidenza dei fatti.