di Serena Mancini
I camper televisivi hanno trovato alloggio, le telecamere sono disposte in punti strategici, il pubblico è in attesa: si alzi il sipario! È il 10 gennaio 2012 e a Taranto le principali strade intorno al tribunale sono intasate. Tutti in città sanno che i disordini in questa giornata sono dovuti al processo Scazzi, tutti sono indignati per il morboso interesse che il caso della quindicenne uccisa continua a destare, ma sono pochi quelli che riescono ad evitare di fermarsi in Corso Italia o in Via Abruzzo per dare anche solo una “sbirciatina”. Gli italiani si sentono particolarmente coinvolti nelle vicende di cronaca nera, sarà perché bombardati dai media o forse perché eccitati all’idea di indossare i panni di brillanti investigatori almeno per una volta nella vita. Così si scopre un popolo stanco di assistere a continui processi mediatici, ma allo stesso tempo incapace di rinunciarvi perché abituato a questo tipo di giornalismo. Un giornalismo che merita di essere denigrato perché spesso colpevole di eccessivo allontanamento dalla vera notizia. Del caso Sarah Scazzi tutto è stato già detto, mostrato e, in assenza di informazioni certe, persino supposto. Sì, perché nell’arena dei grandi protagonisti si possono annoverare gli opinionisti, nuove figure nate – sembra -proprio per confutare l’idea che il diritto di parola debba essere concesso a tutti. Inutile dunque parlare del risultato della prima udienza, delle sbarre e delle lacrime versate; meglio soffermarsi sui veri protagonisti della vicenda inevitabilmente legati dalla comune capacità di onniscienza. Da una parte i media, impegnati nell’arduo compito di informare costantemente il loro pubblico e di avanzare ipotesi sulla triste vicenda , dall’altra il pubblico stesso che continua ad aggiornarsi per avere conferma di un’idea che ha già impressa nella mente sin dall’inizio. Il processo di spettacolarizzazione del dolore è ormai stato consumato dai palinsesti televisivi, così come i commenti degli psicologi, dei giornalisti e dei criminologi. A distanza di mesi dal ritrovamento del corpo si continua a parlare del caso Scazzi con la stessa intensità di un tempo, cambia solo la prospettiva.
Non ci sono più le esclusive televisive o le rivelazioni in diretta sulle dinamiche dell’omicidio, perciò bisogna pescare altrove. Che sia morta una ragazzina non interessa più – o forse non ha mai interessato davvero- perché siamo alla nuova fase: la caccia all’assassino. L’attenzione viene rivolta ora alle dichiarazioni rilasciate dai familiari circa le novità sul caso e sul processo e le domande si concentrano sull’analisi delle tecnologie utilizzate nelle indagini. Il morto è scomparso definitivamente, ora conta solo la scoperta della verità. Anche Avetrana viene abbandonata e l’unica occasione per provare ad avvicinarsi ai presunti assassini è il processo di Taranto. Da una parte ci sono i volti noti di zio Michele, Sabrina, Cosima e Concetta, dall’altra alcuni posti riservati in aula ai primi 70 fortunati che riusciranno a raggiungere incolumi l’ingresso del tribunale. A questi viene data la possibilità di vivere il prima persona un momento di celebrità rivedendosi magari nelle inquadrature di “un giorno in pretura”. Ma gran parte di questo pubblico ha già la sua verità. C’è chi dice: « Io sapevo sin dall’inizio che erano state la zia e la cugina!» o chi si dice certo che Michele sia solo vittima della sua famiglia; chi ha aperto i gruppi facebook in memoria della quindicenne senza mai averla conosciuta e chi si proclama suo fiero giustiziere scrivendo: « 706 fans per giustiziarti, Sara…706 persone che sono contro le persone che ti hanno fatto del male[…] E anche se non ti abbiamo ancora giustiziato non preoccuparti perchè noi lo faremo presto ». Dunque tutti conoscono la dinamica dei fatti, tutti si ergono a giudici indiscussi.
Tante opinioni, tante verità ma ancora nessun colpevole reale.
Così il « circo mediatico » alimenta l’ansia per la scoperta del mostro e finisce per cancellare la lucidità di pensiero di ognuno. Il messaggio che i media devono trasmettere è sempre che in un modo o nell’altro siamo tutti coinvolti, nessuno può tirarsi fuori dalla triste vicenda e proclamarsi disinteressato, perchè altrimenti verrebbe tacciato di apatia.
Bene, si continui allora a discutere, a mostrare immagini di madri dal volto scavato e a intervistare persone prive di qualsiasi competenza giuridica. Di una cosa si può essere certi : tanto più si continua a parlarne, tanto più si perde fiducia nella giustizia. Qualora alla fine del processo dovesse essere assolto un presunto assassino la delusione sarebbe certamente più forte di qualsiasi verità rivelata.