di Salvatore Romeo (’85)
Questi sono giorni in cui si decide il futuro di milioni di lavoratori in Italia. Da poche ore infatti, il governo Monti ha reso pubbliche le bozze dei decreti-legge della “fase due” del decreto cosiddetto “salva Italia”. In questi documenti si esprime con forza la necessità di riformare il mercato del lavoro: uno dei passaggi che il governo ritiene necessario per imprimere una spinta propulsiva all’economia italiana. Punti cardine dei documenti presentati sono:
- sostituzione con un unico contratto degli attuali 48 censiti dall’Istat; nascerà il contratto “unico d’ingresso” (CUI), che suddivide la carriera del lavoratore in due fasi: una di ingresso, che potrà durare, a seconda dei tipi di lavoro, fino a tre anni. E una seconda fase di stabilità, in cui il lavoratore godrà di tutte le tutele che oggi sono riservate ai contratti a tempo indeterminato. Durante la fase d’ingresso, il datore di lavoro potrà deliberatamente licenziare (a fronte di una minima indennità economica) per ragioni di carattere economico.
- L’introduzione del reddito minimo di disoccupazione. Una misura che esiste in molti Paesi occidentali ma che è costosa, soprattutto considerando l’attuale congiuntura economica Italia. Sarà difficile trovare i finanziamenti per garantire il salario minimo al copioso numeri di disoccupati italiani, specie nel meridione.
Per valutare l’efficacia delle misure poste in atto dal governo, chiediamo aiuto al magistrato Luigi Cavallaro, giudice del lavoro presso il tribunale di Palermo, che in passato ha contrastato apertamente le proposte in tema di lavoro sostenute dal senatore Pietro Ichino (Liberazione 13/05/2010). oggetto del contendere la razionalizzazione e conseguente legittimazione del precariato, auspicata dal senatore del PD.
Incontro Cavallaro a Pisa, in un freddo pomeriggio invernale. L’occasione si manifesta ai margini di un’iniziativa organizzata dal “laboratorio delle disobbedienze Rebeldia” dal tema davvero dissonante rispetto al via vai di gente che si affanna a caccia del saldo più conveniente: “Il capitalismo finanziario e la crisi”. Giunto il mio momento, mi avvicino con timore reverenziale. Ciò che mi sorprende subito è la sua gentilezza e totale disponibilità.
Dott. Cavallaro, sembra che il governo si sia deciso a intervenire sul mercato del lavoro. L’obbiettivo dichiarato è quello di superare la precarietà. A questo scopo si propone il CUI. Lei crede che si tratti di uno strumento adeguato?
Intanto un paio di precisazioni: la prima è che stiamo parlando di bozze, in quanto proposte di legge ancora non ne sono state presentate da questo governo. L’unico disegno di legge – che ricalca sostanzialmente una proposta fatta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi – è quello esteso alcuni anni addietro dai senatori del PD Paolo Nerozzi, Ignazio Marino e Gianrico Carofiglio. Questo prevede che per i primi tre anni il lavoratore non sia soggetto alla tutela reale dell’articolo 18, per quanto concerne il licenziamento intimato per motivi economici; inoltre è previsto che (ciò è valido per coloro che vengono assunti in imprese con un numero di dipendenti maggiori di 15), per i primi 3 anni, il licenziamento per motivi discriminatori, per giusta causa o per “giustificato motivo soggettivo” ovvero per inadempimento della propria prestazione lavorativa, venga sanzionato con la reintegrazione del posto di lavoro, mentre la reintegrazione non si applicherebbe soltanto quando il licenziamento venga intimato per “giustificato motivo oggettivo”, cioè per motivi economici legati per esempio alla ristrutturazione dell’azienda o alla soppressione del posto di lavoro o, come accade oggi, per una crisi economica; in questo caso non si applicherebbe l’articolo 18, ma il lavoratore avrebbe diritto ad una indennità puramente monetaria.
Questo può combattere la precarietà? No! Ovviamente no. Si tratta semplicemente di “universalizzare il precariato” e, per rovesciare una parola d’ordine che andava forte negli anni 70 – allora si diceva “lavorare poco, lavorare tutti” –, lo slogan che ci vuol passare il governo Monti è: “precariare poco, precariare tutti”, come se questa universalizzazione del precariato possa essere di per sé una panacea rispetto all’attuale situazione. Non mi pare affatto.
Insomma: il numero dei disoccupati forse diminuirebbe, ma avremmo molti più precari…
Ma l’obiettivo del governo è certamente questo. Il problema è semplice: se non si incide sul volume di disoccupazione – che dipende dall’ampiezza della domanda globale e non, come pensano certi economisti “mainstream”, da altro – l’unica cosa che può portare a una riduzione di quest’ultima è una estensione della precarietà. Faccio un esempio: se lo Stato ha un volume di disoccupazione pari ad un milione di persone o quel milione di persone restano disoccupate mentre tutte le altre sono occupate stabilmente, oppure si distribuisce un po’ di disoccupazione fra tutti i lavoratori sotto forma di precarietà. L’obiettivo del governo, attraverso le misure di flessibilizzazione della prestazione lavorativa, è esattamente quello di proseguire nella ripartizione della disoccupazione, che è molto diverso da un aumento dell’occupazione.
Però dovrebbe essere introdotto un “reddito minimo di disoccupazione” per impedire gli effetti più catastrofici della precarietà…
E’ una cosa di cui si parla da almeno 20 anni ma non la si è mai fatta, principalmente perché non ci sono soldi. Ed io dubito che i soldi possano essere trovati per attuare una cosa del genere. Tenga presente che in Danimarca il reddito erogato al disoccupato è pari al 90% dell’ultima mensilità ricevuta, per una durata di tre anni. E’ difficile immaginare che uno Stato che sta tagliando di tutto e di più possa trovare le risorse affinché, poniamo, circa il 20% della popolazione meridionale possa ricevere il suddetto sussidio. Potrebbe farlo soltanto ad un patto: considerato che, soprattutto i giovani, sono disoccupati a lungo corso, il valore della loro ultima mensilità sarebbe pari a zero, dunque anche il 90% di zero sarebbe zero. [ride, ndr]
La nostra generazione è cresciuta con l’idea che la precarietà sia in qualche modo un elemento necessario per la competitività del nostro sistema economico. Eppure negli ultimi dieci anni, nonostante l’ampia liberalizzazione del mercato del lavoro, la produttività delle nostre imprese è rimasta al palo. Come si spiega questa contraddizione?
Si spiega col fatto che il nostro sistema produttivo – che non dimentichiamolo è composto al 95% di imprese che hanno una soglia di dipendenti ben inferiore a 15 – è un sistema orientato alla produzione di beni di consumo, che hanno una posizione di “svantaggio comparato” nell’ambito del commercio internazionale. Mi spiego meglio. In Italia produciamo principalmente le così dette “4A”: agroalimentare, abbigliamento, arredo casa ed un po’ di automazione meccanica, dopodiché siamo costretti ad importare tutto ciò che è elettronica, chimica, ottica, nanotecnologie, ICT (information and comunication tecnologies). Basta cercare nelle proprie case tutti i componenti hi-tech e vedere se c’è ne sia almeno uno “made in Italy”. Per contro abbiamo le acque, i vestiti, l’arredo casa, le piastrelle da bagno, tutte cose che possono anche rappresentare punti di eccellenza del così detto “made in Italy”, ma che nel commercio internazionale generano uno squilibrio sistematico nella bilancia dei pagamenti. Noi, detto in sintesi, esportiamo, in termini di valore, molto meno di quanto importiamo. Questo genera una pressione deflattiva all’interno della nostra economia e a farne le spese sono i nostri salari.
A questo proposito sembra che proprio la diffusione di contratti atipici abbia provocato la contrazione dei salari reali. Perché?
La precarietà della situazione lavorativa è una cosa che induce il lavoratore a rinunciare al conflitto, perché la scelta di confliggere può essere ripagata dal licenziamento. Conseguentemente, non c’è modo migliore per avere dei salari bassi.
Il debito pubblico è considerato dalle forze politiche ed economiche italiane ed europee come il principale fattore di crisi nella fase attuale. Lei in una recente intervista ha sostenuto invece che, abbattendo il debito pubblico, si provocherebbe la contrazione dei salari. Può spiegarci il nesso che collega questi due fattori?
Il nesso è una elementare concatenazione: se voglio abbattere il debito pubblico, devo ridurre quelle che sono le spese pubbliche o devo aumentare le tasse, dunque contrarre le spese private. Keynes, però, ci ha insegnato che “quello che per uno è spesa, per un altro è reddito”, quindi se io riduco le spese, pubbliche o private che siano, significa che riduco il reddito di qualcuno che, a sua volta, avrà meno da spendere e dunque ridurrà il credito di qualcun altro e così via a catena. Questo meccanismo provocherà essenzialmente che gran parte delle merci prodotte rimarranno invendute; ciò indurrà gli imprenditori a contrarre la produzione, ma nel momento in cui l’imprenditore deve contrarre la produzione, si troverà con una quantità di lavoratori salariati eccedenti rispetto a ciò che sono i suoi bisogni e quindi questo provocherà un processo di espulsione di occupati dalle imprese. Aumentando la disoccupazione, i salari tenderanno a scendere verso il basso, perché è noto che la presenza di un’ampia disoccupazione è ciò che tende a favorire la discesa verso il basso dei salari.
Illuminante per semplicità e concretezza. Grande intervista al Dott. Cavallaro, che credo fosse a Pisa per presentare la traduzione del “Capitale finanziario” di Hilferding.
Mi sembra ormai chiaro che lo scopo di questi governi tecnici sia quello di velocizzare il processo di deflazione salariale come dimostra il caso Grecia….non lasciamoci abbacinare dall’abbassamento degli spreads.
Roberto Polidori
E’ una delle analisi più serie, lucide e veritiere che leggo da molto tempo a questa parte.
Ciò che stupisce, è il senso di “realtà” che traspare dalle parole del magistrato Cavallaro. E’ un’alisi che sarebbe da far leggere ai cosidetti “pseudo-liberisti” Italiani.
[…] Disco Pax) Fornero, non possono essere accettati. Al grido di “precariare tutti”, citando un articolo del numero precedente, Monti and co cercano di mettere tutti contro tutti. I dipendenti pubblici contro quelli privati, […]