di Serena Mancini
Già da qualche settimana “Le idi di marzo”, ultima prova da regista di George Clooney, è uscito dalle sale italiane, dopo esservi rimasto a lungo. Eppure meriterebbe di essere riproiettato almeno fino alla prossima primavera, quando si terrà un’importante tornata di elezioni amministrative in diverse città d’Italia. Fra queste Taranto. Cos’altro è infatti il film del regista statunitense se non un campanello d’allarme rispetto all’ingenuità con cui ci si è soliti approcciare a certi stereotipi della “democrazia”? Oggetto della critica di Clooney è in particolare un rito consolidato della politica statunitense: le elezioni primarie. A nostro modo di vedere la scelta non è stata affatto casuale: quelle elezioni rappresentano infatti un momento di confronto all’interno dei partiti; ci si aspetterebbe, di conseguenza, una competizione basata sulla condivisione di alcune visoni fondamentali e soprattutto su un rispetto di fondo fra i concorrenti. Tanto più poi se questa sfida si svolge in un partito “di sinistra” (nel film il Partito Democratico USA), da cui ci si aspetterebbe una condotta ispirata a principi di giustizia. E invece quel che conta per i protagonisti è la rincorsa del potere, costi quel che costi. Il tarlo che mina le democrazie contemporanee – sembra voler dire Clooney – non è lo scontro spesso feroce fra parti contrapposte, ma qualcosa di ben più profondo, che annida nel cuore di tutte le forze politiche: l’ambizione personale. Un acido talmente potente da corrodere i rapporti più saldi.
Nel film ciò che colpisce è la presenza di una sorta di “doppio fondo”. Attraverso gli occhi di Stephen Meyers, addetto alla campagna elettorale del candidato Mike Morris (impersonato dallo stesso Clooney), possiamo osservare la scena e il “dietro le quinte” della competizione. Sul palco Clooney è il più popolare: alter ego di Obama (ma, in generale, di qualsiasi politico che faccia sua la retorica del “nuovo”), egli estende proposte quanto mai avanzate, riesce a mobilitare l’immaginario delle folle attraverso messaggi che promettono trasformazioni radicali. Lo stesso Stephen ne è affascinato e crede sinceramente in ciò che il suo leader esprime. Certo non gli sfuggono i “doppi giochi”: il suo collega Tom cerca di convincere il senatore Thompson – su posizioni conservatrici – ad appoggiare Morris promettendogli consistenti tornaconti politici. Ma è un prezzo che si può pagare, a patto di non concedere troppo a Thompson. Tutto sembra andar bene, fin quando Stephen non si innamora di Molly, giovanissima componente della staff di Morris. Allora ecco che il doppio fondo si dilata fino a diventare una voragine: Molly ha un rapporto con il capo, del quale rimane incinta. Stephen riesce a farla abortire senza che nessuno sappia niente, per salvare la faccia di Morris, ma Molly non riesce a reggere la tensione e si suicida. E Stephen cade con tutto se stesso nell’abisso che gli si era spalancato davanti: strumentalizza la morte di Molly per ricattare Morris e ottenere il controllo su tutta la sua campagna elettorale – dopo che ne era stato allontanato per un incontro avuto con il capo staff del rivale. Alla fine sarà lui stesso ad offrire a Thompson niente meno che la vice-presidenza in cambio del suo sostegno. Lo Stephen che appare nell’ultimissima scena è radicalmente diverso da quello dei momenti iniziali: è gelido, impassibile. Una macchina funzionale per un solo obbiettivo: la vittoria.
Ora, mettendo da parte un certo moralismo di tipica marca USA (l’inizio della fine coincide con la scoperta di uno scandalo sessuale) gli elementi di critica che emergono dal film riguardano almeno due aspetti: a) il già ricordato “doppio fondo” e b) il personalismo.
Il doppio fondo non è una semplice trasposizione in ambito politico della dinamica tipica del teatro; esso allude allo svuotamento della politica medesima. Questo processo ruota attorno al principio di “partecipazione”, che nelle democrazie rappresentative viene declinato in un modo abbastanza peculiare: partecipano le folle che accorrono a raduni politici e che infilano la scheda nell’urna elettorale, che applaudono ai leader di turno e che vestono i colori del partito o del candidato preferito. Ma in questa accezione la partecipazione non prevede la decisione. O meglio, quest’ultima è limitata al solo momento del voto, quando ormai i “giochi sono stati fatti” e dunque le possibilità ristrette a poche opzioni. Ben diverso è il senso della decisione nella sua accezione più piena, come atto di volontà che contribuisce a realizzare i diversi passaggi di un processo. In questo senso “decidono” solo quelli che operano nel backstage. Si crea così una separazione sostanziale fra “politici” ed “elettori” e il discorso sulla partecipazione rimane un mero strumento retorico che può agitare chiunque voglia conquistare la simpatia del maggior numero possibile di persone.
Ma anche dietro le quinte le cose non vanno nel migliore dei modi. Gli scontri che avvengono hanno il sapore delle lotte fra signori feudali – per citare il protagonista di un altro grande film di critica politica, “Il portaborse” – e le conseguenze che questa torsione della dinamica politica subisce non mancano di farsi sentire. Venuti meno gli argini che in passato erano rappresentati dai riti e da codici della vita di partito, il potere deborda e si presenta nella sua forma bruta e brutale di “potere sulla vita”. A farne le spese nel film è la povera Molly, finita stritolata da un gioco più grande di lei. Dunque non solo la partecipazione è un falso, ma anche la politica degli “addetti ai lavori” è qualcosa di molto diverso da come vorrebbe apparire. Lungi dall’essere un’attività ordinata nelle mani di professionisti in grado di gestirla, essa si risolve in un caos dove i confini fra privato e pubblico scompaiono: è il preludio di uno stato di “guerra di tutti contro tutti”.
La rappresentazione della democrazia che dà Clooney assume quindi tratti inquietanti: la separazione fra “elettori” e “politici” e la trasformazione di questi ultimi in signori alla ricerca ossessiva di ulteriori margini di potere lascia poco spazio alla speranza. Si tratta anzi del clima migliore per la nascita e il prosperare di soluzioni autoritarie, che promettano di irregimentare la confusione in cui è caduta la politica. Un’alternativa ci sarebbe: l’invasione di campo delle donne e degli uomini che vogliano vivere la partecipazione come impegno costante e costruttivo. A ben guardare, anche nella nostra città sono proprio questi i termini del problema.