di Salvatore Romeo (’85)
In questi giorni la maggior parte della cittadinanza attiva ha appreso attraverso un comunicato, della fine dell’avventura del centro sociale “Cloro Rosso”. I più, purtroppo, nell’apprendere questa notizia, sono rimasti totalmente indifferenti. Saranno le prossime elezioni ed i loro isterico commiato di richieste per la candidature di parenti ed affini, sarà il silenzio (vero) dei politici locali (finti), incapaci di portare avanti un dialogo costruttivo con una delle più belle realtà tarantine degli ultimi anni; ciò che rimane è che la città perde il suo unico centro sociale. In realtà non si tratta di una mero stop all’esperienza critica nella città, ma di “un momento di ampia e profonda discussione sull’attualità della questione spazi sociali nella nostra città ”. Tra i motivi, tutti molto validi, emerge a gran voce l’esigenza, ancora irrisolta, di un luogo fisico, reale, riconosciuto, legale. Ma, complice anche l’assoluta irriverenza e pochezza intellettuale di chi ha trattato con gli attivisti del Cloro Rosso come si tratta con i “bambini capricciosi”, l’esigenza vitale di uno spazio è ancora in alto mare. Sembra sia finalmente partita la ristrutturazione della ex Martellotta, ma di qui a intravederne la fine – e la trasformazione di quello spazio in un luogo d socialità e cultura – ce ne corre.
Ma il problema degli spazi sociali di aggregazione non riguarda la sola città di Taranto: è un fenomeno molto diffuso in chiave nazionale. Qui viene presentata un’intervista con uno dei responsabili del “progetto Rebeldia!”, federazione di sigle che è attiva nella città di Pisa dal 2003 e che, in questi anni, si è contraddistinta per un attivismo ed uno spirito d’aggregazione fuori dal comune. Un’esperienza che ha arricchito molto una città, spesso troppo schiava degli interessi dei due “soli”: l’Università e il comune.
Come nasce Rebeldia?
Rebeldia nasce nel 2003 da un gruppo di studenti, in segno di dissenso alla guerra in Iraq, dissenso manifestato attraverso il meccanismo del “train stopping ”con il quale si cercava di fermare – o quantomeno rallentare – l’afflusso di armi, provenienti dalla vicina base statunitense di “Camp Derby”, verso il Golfo Persico. Dunque Rebeldia nasce da studenti non per questioni studentesche, ma per questioni più generali.
Dalla sua fondazione ad oggi, Rebeldia ha già cambiato tre sedi. In tutti i casi, le trattative tra voi e le amministrazioni pubbliche che si sono susseguite alla guida della città di Pisa sono state molto “movimentate”. Quale è attualmente il vostro rapporto con la classe politica cittadina?
Le occupazioni delle tre sedi hanno storie differenti. La prima è stata una vera e propria occupazione di uno stabile dell’università, ma a causa di uno sgombero è durata poco più di un mese. Nel secondo caso si è trattato di una concessione di un altro stabile di proprietà dell’università di Pisa. Le vicende riguardanti la terza sede (via Battisti, abbandonata nel febbraio 2011, ndr), sono molto più complesse e vedono protagonisti sia il comune di Pisa che l’università. Inizialmente le sinergie erano positive: l’università aveva l’interesse a liberare uno stabile di sua proprietà (sarebbe poi diventato un polo didattico, ndr) ; per questo motivo ha attuato delle pressioni sulla giunta comunale, affinché fosse trovata una location consona agli scopi di Rebeldia. La location individuata era temporaneamente utilizzata come deposito delle macchine sequestrate dai vigili urbani; per questo motivo l’università ha concesso un terreno fuori città, sbloccando di fatto la trattativa. La tipologia di contratto pattuita è stata il comodato d’uso gratuito della durata di un anno. In realtà già dal 2006 (anno dell’insediamento del Rebeldia in via Battisti) eravamo a conoscenza che quello spazio era al centro di un grande progetto (denominato “Sesta Porta”) che avrebbe previsto la costruzione di uffici, fondi commerciali, parcheggi e la nuova stazione degli autobus.
La questione più spinosa ancor oggi rimane il rapporto conflittuale con le varie amministrazioni pubbliche cittadine. Dopo lo sgombero eseguito nel febbraio 2011, il comune vi aveva promesso l’assegnazione di uno stabile che avrebbe soddisfatto le vostre esigenze. Da ciò che è trapelato, sembra che il comune vi abbia chiesto il pagamento di un canone d’affitto a prescindere da quale stabile vi sarebbe stato assegnato. Ci puoi spiegare meglio come è si è svolta la vicenda?
In realtà gli avvenimenti che hanno contrassegnato l’ultimo anno di trattative tra Rebeldia ed il Comune sono molto più complessi. Venuti a conoscenza del progetto Sesta Porta, come ci aspettavamo, la società “Sviluppo Pisa” appartenente alla “Pisamo” (azienda locale di proprietà del comune che si occupa di mobilità e parcheggi, ndr) ha emanato una richiesta di sfratto. In questo arco di tempo però non siamo rimasti inermi: sin dal 2006 abbiamo formulato, anche grazie all’aiuto di un pool di tecnici, una serie di possibili proposte per trovare una soluzione. La nostra prima proposta è stata di rimanere li ed integrarci con il progetto della Sesta Porta, ma il comune l’ha bocciata senza neanche prenderla in considerazione. La cosa che ci rattrista è che anche lo studio di progettazione ha ammesso che ci fosse il margine per l’affidamento di spazi ad attività culturali. Il comune ha effettuato una sua controproposta: aveva trovato come location ideale uno spazio appartenete alle ferrovie, dunque privato, per il quale avrebbe provveduto temporaneamente (cinque anni) al canone di locazione. Abbiamo rifiutato per due motivi: l’inadeguatezza del posto – troppo piccolo per le nostre esigenze – e soprattutto non volevamo che fosse sperperato del denaro pubblico, in quanto il denaro necessario sarebbe stato garantito dal comune, dalla provincia e dal DSU (l’azienda per il diritto allo studio): non potevamo accettare. Da quel momento in poi è partita dal comune una campagna furibonda sui giornali per dipingerci come “i brutti e cattivi” della situazione, come componenti dell’area “insurrezionalista” della città. “Memorabile” ciò che è emerso da un incontro privato con il sindaco Fontanelli, nel quale quest’ultimo affermò che, se avessimo continuato con il nostro atteggiamento negativo, avrebbe usato tutti gli strumenti in suo possesso per ostacolarci. Ma non tutta la politica ci è stata contraria: infatti l’assessore alle politiche giovanili in un documento affermò che il percorso intrapreso da Rebeldia era da considerare positivo per tutta la cittadinanza ed in linea con le politiche della Regione Toscana. Ciò destabilizzò la giunta cittadina. L’immagine che abbiamo sempre avuto è quella dell’imbuto: il comune voleva ridurci a qualcosa di piccolo per farci cadere nell’imbuto della criminalizzazione, ma noi siamo sempre riusciti ad essere più grandi di come il comune voleva dipingerci.
Ma come ha fatto il “progetto Rebeldia” a trasformarsi in questi anni da “semplice” centro sociale in una federazione di sigle, anche molto eterogenee tra loro, che collaborano attivamente alla vita cittadina?
La condizione necessaria è stata il poter contare legalmente su uno stabile congruo alle nostre necessità. La condizione di legalità dell’accordo tra il comune ed il Rebeldia ha permesso l’allargamento del nostro progetto a numerose altre realtà, che in una condizione di occupazione non avrebbero avuto la sufficiente autonomia e tranquillità. Mi riferisco ad associazioni nazionali quali Emergency, Lipu, “Un ponte per”, Greenpace che, data la condizione di “stabilità” della location, hanno potuto collaborare in totale sintonia e sinergia. Il Rebeldia, con l’ingresso di queste associazioni, non ha modificato la natura politica del suo progetto; le decisioni inerenti gli aspetti principali del “progetto” vengono prese “orizzontalmente”, dunque la discussione prende il sopravvento rispetto ai meri concetti di votazione e maggioranza: l’obiettivo è arrivare ad un punto di vista comune. Ed è proprio questo sistema che permette di continuare ad avere una partecipazione massiccia alle assemblee e alle iniziative. Inoltre la questione spazi è fondamentale. Se c’è un posto fisso e riconosciuto, la gente trova soddisfazione nel fare concretamente le cose, se non lo hai diventa molto più difficile creare rapporti e legami interpersonali e tra associazioni.
Voi nascete e operate in un contesto cittadino che possiamo definire medio-alto borghese. Il tessuto connettivo cittadino è infatti composto principalmente da professionisti e commercianti, che, insieme all’apporto derivante dagli studenti fuori sede, fanno di Pisa una città “agiata”. L’etichetta di “centro sociale” ha in qualche modo interferito nel rapporto tra Rebeldia e la “Pisa bene”?
E’ bene specificare che il rapporto con la classe alto borghese cittadina è totalmente conflittuale (ride, ndr). Se da un lato Pisa è una città che vive sulle spalle degli studenti, quindi aperta all’integrazione culturale, dall’altro a preoccupare è la deriva inquietante della sua classe politica. Infatti quest’ultima molte volte si erge a difensore degli interessi dei pochi, elargendo favori ed attenzioni in cambio di voti. Esemplari sono le azioni intraprese dall’amministrazione comunale, a seguito di scarne raccolte firme, contro i centri sociali, gli zingari ed gli studenti “chiassosi”. Il problema è essere capaci di lavorare all’integrazione tra le due facce di Pisa, quella chiusa dei residenti e quella viva e vivace di studenti e organizzazioni. Quello che fa più pensare è la qualità delle opposizioni in consiglio comunale; per chiunque abbia seguito un consiglio comunale, sembra che i due schieramenti contrapposti parlino la stessa lingua e facciano dell’opposizione solo di facciata. Inoltre le associazioni che fanno parte del progetto Rebeldia – e credo anche altre che sono sparse nel territorio pisano – faticano ad avere un interlocutore in consiglio; le poche volte che le tematiche sociali arrivano tra i banchi del palazzo del comune, sono frutto di input provenienti dall’esterno e mai dall’interno. In realtà, il maggior aiuto l’abbiamo avuto dai singoli consiglieri; ma ogni volta dura poco perché arrivano ordini di scuderia a bloccare il tutto.