di Salvatore Romeo (’84)
Natalino Balasso mi accoglie nel suo camerino poco prima dell’inizio del suo spettacolo. Mancherebbe solo mezz’ora al sipario (in scena vanno I Rusteghi di Carlo Goldoni), ma lui non si nega e, anzi, è un fiume di parole. Noto al grande pubblico per gli sketch andati in onda su Mai dire goal e Zelig, ma anche per i video proposti di recente su youtube – in cui si mettono a nudo i meccanismi perversi della nostra società –, Balasso ha interpretato Sheakspeare e i testi del conterraneo Luigi Meneghello, è autore di diverse piéce teatrali e di quattro romanzi. Ma soprattutto è un artista che non si tira indietro quando si tratta di dire la propria, che l’argomento sia la “lotta di classe” o i “furbetti” del suo Nord Est.
Finché c’erano Berlusconi e la sua banda di ministri fare satira era relativamente facile perché già di loro sembravano maschere della commedia dell’arte. In tempi di governo tecnico invece quali spazi ci sono per la satira?
Io credo che non ci sia nessuno spazio per la satira. Viviamo in tempi abbastanza bui, che però – dispiace dirlo – ci siamo scelti noi. Oggi non c’è un dittatore, non c’è qualcuno da mettere alla berlina. La satira politica è un potere che si scaglia contro un altro potere. Se noi vediamo le Iene sulla tv di Berlusconi come facciamo a dire che stanno facendo satira?
E’ una satira quasi funzionale al potere stesso…
In qualche modo è sempre stato così. Non dimentichiamo che il Carnevale ed altre feste analoghe nascono come inversione dei ruoli sociali: al popolo viene concesso di comandare per periodi circoscritti dell’anno – e anche in momenti di tirannia non si negava questo capovolgimento. Era un modo per esorcizzare quella che probabilmente a molti doveva apparire come una piaga.
Oggi però questo finto ribaltamento dei ruoli sembra costante: le trasmissioni di satira vanno in onda quasi ogni giorno…
Il problema oggi è che c’è quasi confusione fra il potere e chi sta criticando il potere, come quando Crozza imita Bersani con accanto il Bersani vero. In questo caso dov’è la satira? Forse chi fa satira oggi dovrebbe iniziare a pensare a far satira su noi stessi. E cioè sul perché abbiamo scelto di mandare al potere quella gente.
Questo discorso che fai sembra rimandare alla tua produzione artistica più recente. Nei tuoi video infatti dividi la realtà in due categorie estreme: i “magnasghei” e i “poveracci”. E’ venuto il momento anche per l’arte di tornare a occuparsi della società e dei suoi conflitti… di quella che un tempo si sarebbe definita “lotta di classe”?
Anzitutto ti correggo su una cosa: chiunque non sia Veneto dice “sghei”… non so chi abbia fatto partire questa cosa tanti anni fa, ma la parola è “schei” – che deriva dagli scellini, gli skelling austriaci. In ogni caso dovrebbe essere sempre il momento di occuparsi della società e forse è importante che qualcuno lo faccia. Oggi il discorso della lotta di classe si sta un po’ riproponendo perché siamo passati sopra a talmente tante cose – in termini di diritti di tutti – che abbiamo cominciato a creare nuove classi subalterne. C’è di nuovo la servitù: noi facciamo finta di niente, ma una badante pagata in nero 200 Euro è una forma di schiavitù.
Quindi in questa fase è importante spostare il punto di vista della stessa arte dalla politica alla società…
Io credo che sia indispensabile, perché allora si comincerebbe a capire quello che Calamandrei diceva già nel ’49… e cioè che i politici non sono che impiegati dei partiti. Se poi si riflette su questo ci si rende conto che la guerra è stata solo un’interruzione: ha dato una forma di speranza perché ha livellato molte situazioni. Però è stata una cosa casuale, non un movimento della società. Tutto quello che c’era prima piano piano ha ripreso piede. E al giorno d’oggi, nonostante la crisi atroce che stiamo vivendo, guardati in giro… anche nelle pubblicità più stupide l’idea di privilegio c’è sempre. Ogni cosa è come se fosse stata fatta solo per te, che perciò sei un privilegiato – mentre invece ignori che la stessa cosa è stata fatta per altri milioni di esseri umani.
Questo è un elemento che tu sottolinei molto: il poveraccio, per quanto sia un poveraccio, sogna a sua volta di essere un magnaschei… ne invidia lo stile di vita, vorrebbe imitarlo…
Io credo che il problema fondamentale sia nella poca conoscenza. Quasi sempre questa invidia sociale matura quasi sempre in classi a bassa scolarizzazione. Il problema è che noi dovevamo assicurare la scuola per tutti, in modo che la gente conoscesse le cose. Invece abbiamo fatto in modo che la scuola fosse per tutti, ma che a scuola si insegnasse l’analfabetismo… Delle volte vado in certe scuole del Veneto in cui i professori parlano dialetto con gli studenti e si vantano di non sapere l’italiano. Fino a vent’anni fa non ho mai sentito nessuno vantarsi di un’ignoranza: si è riusciti invece a far sì che la gente fosse fiera della propria condizione subalterna. E questo ha creato tutti gli equivoci che tu ricordavi… perché in realtà quello che noi invidiamo dei magnaschei non è il loro stile di vita – perché noi non lo conosciamo –, ma l’apparenza del loro stile di vita.
E’ una questione di immagine…
Qualche tempo fa girò un’inchiesta che segnalava che il 65% degli ultra-milionari (non ricordo se la cosa fosse riferita solo all’Italia) non aveva la terza media. Questo dimostra un’altra cosa. Sto leggendo Notre Dame de Paris e Hugo dice che l’architettura era la scrittura fino a prima di Guttenberg. E l’architettura ha modificato sia il territorio che gli uomini che lo vivono. Adesso chi può modificare la realtà visiva? Quelli che hanno tantissimi soldi… Ma se il 65% di questi non ha la terza media che ne esce fuori? Qual è il loro immaginario e la loro idea di bellezza?
Tu dici che c’è stata una sorta di “proletarizzazione” della cultura – la cultura cioè si è livellata sulle classi più basse?
Sì. Basta leggere i giornali e ci si può rendere conto del tasso di analfabetismo dilagante. Il giornalista dovrebbe riportare la realtà e invece spesso la ricrea, commettendo però degli errori madornali. Allora quella visione si diffonde e si ha una percezione completamente distorta delle cose.
Però le classi subalterne non hanno subito anche un impoverimento della loro cultura originaria?
Certo! Fino a prima della guerra le classi molto povere avevano l’arte popolare vera – non quella figa che si fa adesso. Mio padre per esempio mi racconta che durante la guerra lui e altri si mettevano in un’aia e suonavano e ballavano. In questo modo si divertivano e trasmettevano un tipo di cultura semplicemente tramandata. E questa cultura era molto potente. Ora quel tipo di cultura non esiste più perché è stata soppiantata dai mezzi di comunicazione. Ma nel frattempo abbiamo perso anche la cultura che va in profondità. Oggi quindi abbiamo, da un lato, una cultura che si rinchiude nelle sue torri d’avorio e non ama condividere e, dall’altro, abbiamo i “barbari” – come li definisce Baricco. Che poi sarebbero la maggior parte delle persone, che sono mediamente più informate dei loro antenati, ma con scarsissime conoscenze specifiche – che una volta derivavano dalla necessità di doversi fare le cose per la vita quotidiana. Oggi le cose le compriamo e di certe conoscenze non abbiamo più bisogno, ma proprio questo ci ha impoverito. Ora siamo molto più dipendenti da chi detiene i mezzi di produzione.
Per far ridestare le classi subalterne oggi sarebbe possibile e utile secondo te un’operazione “Ruzante”, cioè una rappresentazione quanto più realistica della condizione delle stesse classi subalterne?
Intanto ci vorrebbe un grande artista come Ruzante per farlo… Oggi sarebbe difficile fare un’operazione come quella che lui proponeva nel ‘500 anche perché le categorie sociali sono quasi blindate. E’ chiaro però che sarebbe molto utile riuscire a rappresentare quella realtà. E’ chiaro però che riuscire a rappresentarla in modo accattivante è una cosa estremamente difficile. Anche un reality in qualche modo una forma di realtà, che però non è la realtà; quando si prova a rappresentare televisivamente la realtà si cade spesso in stereotipi. C’è da dire a questo proposito che questa tendenza è stata portata a termine da Berlusconi, ma è iniziata quando gli intellettuali di sinistra hanno cominciato a voler creare una “cultura popolare”, confondendo però il “popolare” col “basso”. Prendo i film di Franco e Ciccio e li faccio diventare popolari. Eppure fino a qualche anno prima i film dei grandi registi italiani riscuotevano successi davvero popolari! Questo tipo di mentalità forse è stata alla base dell’idea che il commercio che si faceva nelle tv private potesse avere qualche dignità culturale. E di lì a considerare le pubblicità forme d’arte il passo è breve. Quello successivo è il calendario Pirelli, dove delle donne nude vengono spacciate per opere d’arte. Così la cultura oggi è diventata un veicolare messaggi bassi attraverso un’alta cornice.
Veniamo al tuo Nord Est, fino a poco tempo fa una delle aree più ricche e opulente d’Italia. L’area in cui si è avuta una delle prime rappresentazioni della nascente borghesia italiana (d’altra parte stai portando in teatro proprio uno spettacolo di Goldoni). Se tu oggi dovessi fare un’operazione goldoniana, come rappresenteresti la borghesia nordestina e italiana dei giorni nostri?
I Rusteghi ci vanno molto vicino… Nell’anima della borghesia è rimasta una certa grettezza. Il Nord Est in definitiva è diventato ricco evadendo le tasse. E questa cosa diventa sempre più evidente. Forse il fatto di essere stati dominati a lungo da stranieri ha portato – come in altre parti d’Italia – alla formazione di idee parallele di società – e, in particolare, dell’idea che allo Stato puoi rubare perché lo Stato non sei tu. Questa cultura preesistente negli anni ’60 ha favorito le attività economiche del Nord Est. Oggi probabilmente si pagherà lo scotto di tutto questo. La disonestà prende tutto e se tu rubi allo Stato e chi dovrebbe rappresentare lo Stato incarna la tua stessa cultura a sua volta verrà meno ai propri doveri, alla fine della fiera i contraccolpi torni a subirli tu: dovrai accettare che un medico ti sbagli l’operazione se questo è stato selezionato per uno scambio di favori. Se la logica è quella, la conseguenza è inevitabile. Comunque il Nord Est si divide in due facce, che sono espressione della stessa matrice cattolica: quella davvero cristiana – fortemente impegnata nel sociale – e quella che interpreta l’ipocrisia morale sempre sostenuta dalla Chiesa (e dalla Democrazia Cristiana). Un esempio caratteristico di questo atteggiamento è quello mostrato da alcuni in questi giorni in cui si parla del presunto riscatto che dovrebbe essere pagato per la liberazione di Rossella Urru, pare di due o tre milioni di Euro. C’è stato chi ha detto che quei soldi sarebbe meglio darli ai bambini di cui la cooperante si occupava… nel frattempo ad Arzignano la più importante conceria d’Italia ha risolto un contenzioso col fisco per circa 26 milioni di Euro (ma la cifra contestata all’inizio era di 100 milioni)!
Un’ultimissima domanda sul dialetto. Come si fa a comunicare messaggi universali utilizzando il linguaggio del proprio territorio?
E’ un’operazione difficilissima, perché oggi è molto più difficile rispetto a un tempo portare il proprio dialetto al di fuori dei confini del paese in cui lo si parla. Io per esempio adoro Camilleri perché usa il dialetto come fosse italiano. E forse l’italiano è proprio questo: una cosa che ha bisogno di essere arricchita dai dialetti perché questi sono la lingua materna, esprimono le parole dell’affettività. Fare questa operazione è molto difficile, ma necessaria.