di Gaetano De Monte
Una piazza San Giovanni pulsante e foderata di rosso, colore della Fiom, fa da sfondo all’aria di primavera che si respira a Roma oggi. Non solo quella climatica, ma quella dei Beni Comuni, dei diritti, della democrazia; la stessa di chi si pone l’obiettivo ambizioso di modificare il modello politico-economico esistente, che costringe a condizioni materiali di vita infernali sempre agli stessi attori sociali, a causa di un meccanismo terribile, prodotto direttamente da un’idea di sviluppo sbagliata, che non riconosce vincoli né sociali, né ambientali: quella del neoliberismo e della teoria economica in cui essa si esprime.
C’era l’unica opposizione politico-sociale che il nostro Paese esprime, in piazza San Giovanni. C’erano tutti coloro che quotidianamente portano avanti le battaglie per la democrazia nei luoghi di lavoro, e quelli che conducono le lotte per i diritti nella società. Il principale sindacato metalmeccanico italiano, la Fiom; gli studenti che da anni si battono contro lo smantellamento dell’università pubblica; le mamme della Val Susa, de l’Aquila e di Chiaiano, resistenti alla devastazione idrogeologica ed ambientale del loro territorio. I precari senza futuro, quella generazione che per la prima volta nella storia starà peggio di quella che l’ha preceduta. I lavoratori romani dello spettacolo, che hanno sfilato nel ricordo di Matteo Armellini, morto nei giorni scorsi per il crollo del palco del concerto di Laura Pausini, denunciando ciò che avviene in quel settore: paghe che non sono adeguate alle mansioni svolte, che arrivano dopo mesi, e turni di lavoro che superano anche le dodici ore. Grandi eventi costati milioni di euro con palchi dalle dimensioni sempre più gigantesche, e show sempre più spettacolari, dove si risparmiano pochi spiccioli sulla sicurezza dei lavoratori. Anzi sulla loro stessa dignità. C’erano le voci e i volti di chi “la crisi non la vuole e non la deve pagare, attraverso l’attacco ai salari, al reddito, ai diritti”. Di chi la crisi sistemica che ci avvolge la combatte portando avanti quotidianamente pratiche di autogoverno politico dal basso, attraverso le “Istituzioni del Comune”.
E’ stata una straordinaria manifestazione di popolo quella che si è snodata – come un lungo serpentone di uomini, donne e bandiere rosse – tra piazza Esedra e piazza San Giovanni, passando per via Cavour, piazza dell’Esquilino, Santa Maria Maggiore, via Merulana, Viale Manzoni, via Emanuele Filiberto. Meritevole è stata senza ombra di dubbio la capacità della Fiom di aggregare attorno alla propria iniziativa uno spettro di forze vastissimo, non solo soggettività legate alla condizione operaia. Un sindacato, quello dei metalmeccanici che, grazie alla sapiente guida di Maurizio Landini, ha saputo negli ultimi due anni unire tante persone, tanti soggetti diversi, e proporre una «strada diversa» per uscire da questa crisi. Dalla vicenda di Pomigliano in poi, infatti, la Fiom ha cercato di denunciare le disuguaglianze sociali di questo paese – nel mondo del lavoro e non solo – indicando al contempo la possibilità di perseguire un diverso modello sociale di sviluppo. Parlando con gli studenti, con i movimenti per l’acqua pubblica, con le associazioni che si battono per la tutela del territorio, per un modello produttivo sostenibile tanto da un punto di vista sociale, quanto da un punto di vista ambientale. Una straordinaria capacità di ricomposizione attorno ai temi dei diritti e della democrazia, cui non si assisteva da tantissimi anni.
Tutto questo accade mentre il governo Monti, osannato a destra e sinistra per aver portato al centro della scena politica uno stile sobrio e “professorale”, sta attuando i dispositivi anticrisi sotto dettatura delle tecnocrazie europee, misure politiche che ci parlano di austerità e di inevitabilità del pagamento del debito. Le stesse che stanno conducendo la Grecia in una fase di enorme povertà e di vera e propria colonizzazione da parte delle grandi banche e dei fondi sovrani. Mentre si è nella perenne e sempre viva transizione italiana, che ci sta portando verso un autoritarismo di tipo nuovo e una sovranità perduta; di cui prova ne è, certamente, la criminalizzazione di ogni dissenso politico o sociale, come dimostrano l’esclusione degli stessi delegati Fiom dalle fabbriche, o l’uso indiscriminato delle misure cautelari e della polizia contro la comunità della Val Susa, in lotta contro un’opera non solo inutile, ma dannosa, segnata da interessi mafiosi e dai costi spropositati.
In piazza con la Fiom, significa invece, rifiutare la logica dell’austerity e del pareggio di bilancio che ci sta conducendo in una spirale recessiva senza fondo, che gioca tutta a favore della rendita e delle grandi corporazioni; vuol dire non permettere che si continui a saccheggiare il welfare, i beni comuni, le nostre città, le nostre terre, esprimendo un rifiuto netto ad un modello politico- sociale, quello neoliberale, che attacca la stessa composizione del lavoro, attraverso l’estensione della precarietà selvaggia a tutti, tagliando allo stesso tempo salari e pensioni, sacrificando competenze e saperi qualificati. Essere in piazza con la Fiom significa scegliere da che parte stare: sapere che l’articolo 18, uno dei punti più importanti, non dico il pilastro ma quasi, dello Statuto dei lavoratori, è inteso a proteggere l’integrità, la dignità, la persona del lavoratore. E che se si permette la caduta di quel pilastro, è facile che si smonti anche tutto il resto: la rappresentanza sindacale, la libertà sindacale, la stessa libertà di associazione sancita dalla nostra Costituzione. Fuori dalla retorica per cui l’articolo 18 “impedisce a qualsiasi azienda di assumere”; stare con la Fiom significa difendere un elemento cardine della civiltà del lavoro nel nostro paese, perchè non esiste alcuna prova che l’eliminazione dell’articolo 18 serva ad aumentare l’occupazione.
In piazza con la Fiom significa affermare, così come previsto dai nostri padri costituenti, che un aspetto centrale nella costruzione della democrazia italiana, è stato il riconoscimento che i lavoratori avessero diritto ad una loro rappresentanza in tutti i luoghi di lavoro, il diritto che essa potesse essere liberamente votata e che la propria preferenza potesse essere liberamente espressa, oltre alla garanzia di non subire alcun tipo di discriminazione per il fatto di votare o affiliarsi a un sindacato piuttosto che a un altro. Perché non esistono strumenti legislativi di impiego immediato, per impedire che un sindacato molto rappresentativo, come la Fiom nel settore della meccanica, venga estromesso fisicamente dagli stabilimenti del settore. Non vi sono norme nel nostro ordinamento che impediscano di far fuori tutti gli aderenti a un certo sindacato da un’azienda solo perché quel sindacato non ha firmato un certo accordo. Qui la questione è da intendersi come una grave ferita alla democrazia, intesa concretamente come possibilità di partecipazione, di dire la propria, di veder rispettati nella vita quotidiana i propri diritti.
Essere in piazza con la Fiom significa pertanto difendere la democrazia sia nei luoghi di lavoro, che nella società, contro il modello Marchionne, che non è un accordo su un singolo stabilimento, ma un vero e proprio paradigma che ha aperto la strada ai governi Berlusconi e Monti per distruggere il contratto collettivo nazionale e aprire la guerra contro le forme di sindacalizzazione dei lavoratori. Quella contrattazione collettiva nazionale che invece dovrebbe essere ancora, uno strumento importantissimo per una più equa distribuzione dei redditi tra lavoro, capitale, rendite. Perché man mano che viene meno la contrattazione collettiva, viene meno anche il principale strumento che i sindacati possono adottare per evitare che la quota salariale – cioè la parte di reddito nazionale che va al lavoro – continui a diminuire. In un Italia, in cui, le statistiche elaborate dall’Ocse, raccontano di una quota salariale che ha perso in venti anni oltre 10 punti, scendendo più o meno da oltre il 60% a poco più del 50%.
Essere in piazza insieme al più grande sindacato metalmeccanico italiano significa essere dalla parte di quel 99% che subisce il modello Marchionne, le politiche di sacrifici del governo Monti e la macelleria sociale generata dalle politiche economiche sovranazionali dettate dalla Bce e dal Fmi. Contro quel 1% che esiste nella minaccia concreta portata avanti quotidianamente alla sopravvivenza delle nostre stesse vite. Un cataclisma! Economico, sicuramente, di cui l’altra faccia della stessa medaglia è la catastrofe ambientale.
I partiti, intanto continuano a manifestare un’incredibile ottusità dinanzi a movimenti che rappresentano istanze concrete, reali, che andrebbero tradotte in domande politiche da sottoporre a tutti gli elettori. Sta a loro, o almeno a quelli che si richiamano ad una diversa idea di società, al di là dei tatticismi, scegliere da che parte stare. Da quella della democrazia, dei diritti, dei beni comuni, o da quella della rendita e della speculazione.