Taranto – Lo sviluppo e la felicità

di Francesco Ferri

Il tema della trasversalità e della convergenze delle idee politiche di sistema è un utile criterio col quale leggere la vita amministrativa tarantina negli ultimi dieci anni. Il cambio di colore politico delle giunte comunali non ha prodotto discontinuità strutturali, capaci di invertire la storia e la vita della città ionica. Questo non vuol dire che tutti siano uguali, o che le responsabilità politiche e morali della giunta Di Bello siano paragonabili a quelle dell’attuale amministrazione uscente. L’elemento sul quale è interessante riflettere ci suggerisce invece che le scelte delle classi dirigenti risultano espressione del clima culturale nel quale sorgono. Questa circostanza ovviamente avviene ad ogni latitudine: si pensi per esempio alle politiche in materia di diritti civili attuate in nord Europa, cosi radicate nel senso comune da non essere messe in discussione tendenzialmente neanche dai partiti conservatori.

In questa prospettiva risiede probabilmente la funzione più utile al momento svolta dalle amministrazione locali nel paradigma mondiale della governace: mettono in evidenza gli indici culturali che, in maniera più o meno latente, governano la comunità tarantina.

Uno di questi indici culturali, utilizzato anche in questa campagna elettorale dalla pressoché totalità dei contendenti, ruota intorno all’onnipresente richiamo alla necessità che si produca sviluppo, spesso accompagnato dall’aggettivo sostenibile.

I motivi per i quali quasi tutte le compagini impegnate nella campagna elettorale (da destra, al centro, alla sinistra) richiamino questa prospettiva sono molteplici. C’è un chiaro motivo di tendenza globale: per esempio i grandi leader mondiali, da Obama a Sarkozy, ne parlano con crescente frequenza, influenzando di fatto il linguaggio di ogni politico del globo. Ciò che manca è un programma dettagliato, numericamente verificabile, che illustri in maniera dettagliata come sia possibile a Taranto chiudere la grande industria e contemporaneamente accrescere il livello del prodotto interno lordo cittadino.

I generici richiami, anche questi trasversali, alla riscoperta della (non meglio identificata) cultura, dei frutti di mare, del mito spartano, dell’agricoltura, del turismo, del porto, e cosi via, non sembrano al momento indicare un piano pratico convincente, che possa descrivere come Taranto possa crescere economicamente, una volta liberatasi dell’inferno della grande industria.

Il Suv e la felicità. Questo tipo di ragionamento istituzionale è prodotto per metabolizzazione del clima culturale che si respira in città: basti per esempio pensare al numero abnorme di Suv che attraversano le nostre strade. Le forze politiche (di qualunque colore esse siano) anche quando mettono in conto di proporre alternative diversa rispetto alle fabbriche inquinanti, affermano sempre che sia realizzabile in riva allo Ionio un modello economico che, seppur in maniera sostenibile, garantisca il mantenimento, e possibilmente l’aumento, dei livelli di consumo.

Il punto sembra essere centrale: nei ragionamenti politici ed economici prodotti a Taranto manca un’analisi critica, scientifica e politica, del concetto stesso di sviluppo, e latitano valutazioni in merito alla reale utilità al Pil come indice del benessere di un territorio (basti pensare, per esempio, che anche un incidente stradale provoca un aumento di Pil).

Cercando una prospettiva di studio che sappia immaginare altro rispetto ai criteri di funzionamento attuali sarebbe utile cominciare ad indagare il concetto di decrescita (meglio, come suggerisce Latouche,  acrescita) intesa come selettiva riduzione dei livelli di produzione e consumi nell’ottica di una distribuzione equa delle ricchezze del mondo ed una condivisione ecologica delle risorse naturali, e di metterlo a sistema con le esigenze del nostro territorio.

La decrescita (intesa come mera crescita negativa) è la prospettiva nella quale, in ogni caso, probabilmente sarà immersa Taranto appena le grandi industrie saranno chiuse o comunque ridimensionate. Sembra abbastanza improbabile che, nel cuore di una crisi globale sistemica e nel pieno di una complessiva recessione di tutti i paesi occidentali, la città ionica sia in grado di aumentare produzione e consumi successivamente alla chiusura degli impianti.

Chi continua a parlare di sviluppo sostenibile dovrebbe probabilmente scegliere uno dei due termini, in quanto come suggerisce Latouche (per altro curiosamente ospite, un paio d’anni fa, di un dibattito organizzato dall’attuale amministrazione comunale) l’accostamento di queste due parole costituisce un ossimoro. O si continua ad assumere la prospettiva dello sviluppo, provando ad individuare modalità per le quali accrescere la produzione e la vendita di beni di consumo (prospettiva per altro difficilmente realizzabile, e comunque per niente equa nei confronti di chi, a partire dal sud del mondo, sta tremendamente peggio di noi); o si decide che l’unico orizzonte possibile per Taranto è la sostenibilità, e che il Pil indichi qualcosa non c’entra nulla con il reale benessere delle persone.

Cosa c’è oltre la crescita? Il bivio difronte al quale, in ogni caso, si troverà la nostra città nei prossimi anni sembra rilevante. Una volta assunto che l’utopia della crescita infinità è distante dalla prospettive della città ionica, bisogna capire cosa fare della comunità tarantina dopo che il periodo della grande industria (come auspicato quasi trasversalmente dal mondo politico, con differenze ormai solo temporali) sarà un’esperienza superata.

La prospettiva degli investimenti pubblici per le bonifiche del territorio è ovviamente auspicabile,  da rilanciare con decisione. Contemporaneamente però bisogna individuare alternative strutturali e sistemiche che sappiano immaginare una città con ben altri criteri di funzionamento rispetto agli attuali.

È utile riflettere, a questo punto, provando a capire se e come risultano esserci altri indicatori possibili, una volte che ci si è tirati fuori dalla il cono d’ombra del Pil. Per esempio, tutte le classifiche che provano infatti a misurare la felicità in giro per il mondo, nella pur divergenza dell’ordine dei paesi (divergenze legate ai criteri utilizzati per misurare il tasso di felicità) non coincidono affatto con i risultati in tema di Pil pro capite, e neanche di incremento annuale di Pil.  Ovviamente, però, la sola riduzione del Pil non provoca di per se effetti positivi.

Per decrescere e contemporaneamente produrre benessere (materiale ed immateriale) bisogna invece iniziare una costante opera di critica profonda all’attuale sistema di produzione e di vita, nell’ottica di un netto cambio paradigma: costanti investimenti pubblici (altro che pareggio di bilancio) prodotti da una tassazione radicalmente più equa, capaci di ripristinare il primato della politica sull’economia; abbandono delle forme di vita di tipo individualista/qualitativo (fondamento della modernità); apertura di un discorso ampio intorno ai  consumi individuali e collettivi, alla mobilità sostenibile, alla difesa del territorio, alla gestione partecipata dei beni comuni, e cosi via. Soprattutto rifondare le regole della comunità intorno all’elemento più importante per una vita felice: l’aspetto relazionale dell’esistenza umana, la cooperazione sociale, la condivisione di saperi e di pratiche solidali collettive/qualitative sganciate dalla logica del profitto.

Ovviamente non si tratta di tornare poveri ma belli. La battaglia per la decrescita felice è infatti legata alla distribuzione delle risorse (di per se il Pil prodotto a Taranto, se fosse equamente diviso, sarebbe ampiamente sufficiente per assicurare a tutti una vita piena e dignitosa), all’equità sociale, partendo dalla tassazione dei grandi patrimoni finanziari e dalla distribuzione del reddito sociale (come avviene in buona parte d’Europa)l

La sfida ovviamente è di notevole portata. L’elemento iniziare del ragionamento prodotto – la circostanza per la quale le classi dirigenti si nutrono del clima culturale dominante – spinge a ritenere che non debba esserci più tempo da perdere. Non esistono più Palazzi d’Inverno da espugnare: occorre invece che le agenzie culturali interessate al cambiamento (associazioni, movimenti, comitati, ecc) provino ad immaginare una prospettiva diversa rispetto all’eterno ritorno (sempre auspicato, e mai realizzato) dello sviluppo. Non basta la mera testimonianza: l’ingessato mondo della rappresentanza, senza adeguati e consistenti segnali di alternativa provenienti dalle agenzie di produzione culturale, continuerà a riprodurre, senza soluzione di continuità, se stesso e il suo perdurante grigiore.

4 Comments

  1. Anonimo Aprile 11, 2012 10:36 pm 

    per una decrescita felice..taranto come pittsburgh

  2. Anonimo Aprile 12, 2012 12:32 pm 

    ‘Ciò che manca è un programma dettagliato, numericamente verificabile, che illustri in maniera dettagliata come sia possibile a Taranto chiudere la grande industria e contemporaneamente accrescere il livello del prodotto interno lordo cittadino’ ..è esatto, per presentarsi alle elezioni, e pretendere la poltrona a sindaco, occorre aver lavorato su un programma serio e dettagliato. Questo comporta un impegno che richiede anni di studio…motivo per il quale mi suscitano ironia tutti i ‘grandi capi’ che portano sul piatto la soluzione. Il processo culturale che lo vuole è un conto, cosi come la sensibilizzazione all’argomento, ma la politica, cioè quella che lavora (o dovrebbe farlo) per passare dalla richiesta alla realizzazione, è ben altro…

  3. Anonimo Aprile 14, 2012 3:16 am 

    LA SCELTA DEL “CHI VOTARE” STA METTENDO IN CRISI IN MOLTI…

  4. Anonimo Aprile 14, 2012 10:57 pm 

    Carissimo Ferri,poni riflessioni piuttosto ampi che,indubbiamente,meritano interlocuzione che non possono trovare spazio da una vetrina quale e’ FB. troppo limitata e superficiale per affrontarli con la dovuta seminarielita’ del caso. Soni argomenti che vanno affrontati in ambiti seminari ali che,purtroppo,a Taranto mancano e ,speriamo,che un giorno qualcuno se ne farà carico.Comunque il problema della decrescita,a Taranto,non c’è per il semplice fatto che la sua crescita da tempo immemore e’ scomparsa. L’unica crescita e’ quella dei profitti da parte delle grandi industrie come l’Ilva,ENI ,Cementir e tutte le industrie inquinanti.Cresce anche lo sfruttamento dei lavoratori e cresce l’inquinamento con tutti i drammi sanitari che conosciamo.
    Sarebbe importante che nel concetto di decrescita cominciassimo a pretendere che queste industrie cominciassero a ridurre la quantita’ di produzione.Immaginiamo i benefici apportati al nostro territorio se l’Ilva fosse costretta dalla schiena dritta degli enti locali e dal sindacato a produrre la meta’ dell’acciaio di oggi (10 milioni di tonnellate all’anno). E’ solo un esempio di caratate re non solo politico ma anche pedagogico per capire che,volendo,le alternative al sistema dominante,non solo poi cosi’ difficili o strampalate.Ma ci vuole organizzazione,militanza,passione e coraggio per affar optare una battaglia di cosi’ vasta portata,La mia generazione,quella del 68′ ci ha provato e riprovato.Errori,orrori,tradimenti a vario livello non hanno dato che pochi risultati,oggi messi terribilmente in discussione a negativo.Spetta alle nuove generazioni trovare strade nuove per riaprire la partita e,sopratutto,vincerla. ma questa e’ una altra storia.

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