di Salvatore Romeo (’84)
Martedì 29 maggio si è tenuta presso la Camera del Lavoro CGIL di Taranto la conferenza stampa attraverso la quale la Confederazione e la FIOM hanno presentato all’opinione pubblica le loro proposte sulla riapertura della procedura di concessione dell’AIA all’ILVA. Assieme al segretario generale, Gino D’Isabella, e a quello di categoria, il neo insediato Donato Stefanelli, da rilevare la presenza del coordinatore nazionale del settore siderurgico del sindacato metalmeccanici, Vittorio Bardi, e dell’ing. Domenico Capodilupo, tecnico con una lunga esperienza al CSM (Centro Sviluppo Materiali, già Centro di Sperimentazione Metallurgica: in sostanza la società di ricerca e sviluppo della vecchia Finsider, privatizzata come tutto il gruppo nei primi anni ‘90). La discesa di Bardi e Capodilupo è tutt’altro che casuale e segnala la volontà di CGIL e FIOM di giocare sul tavolo Taranto carte pesanti, mobilitando nella vertenza che sta per aprirsi i livelli nazionali delle rispettive organizzazioni e alcune fra le migliori competenze del settore. Gli interventi più interessanti d’altra parte sono stati proprio i loro.
Capodilupo ha esposto nel dettaglio la proposta tecnica che i sindacati hanno intenzione di inoltrare alle autorità che parteciperanno alla procedura di concessione dell’AIA. Le riprendiamo dal documento di sintesi che la Camera del Lavoro ha inoltrato nel corso dell’incontro.
“1) Sulla questione delle polveri emesse dai nastri trasportatori delle materie prime e dai parchi minerali e dei fossili. Nel primo caso è in corso l’opera di chiusura e contenimento già prevista dall’attuale AIA, di cui va verificata la tempistica. Per quando riguarda i parchi, oltre ai previsti barrieramenti, la possibilità di una loro copertura è tecnicamente possibile, anche se coprire una superficie di diverse decine di ettari comporta problemi di fattibilità e di tempi. In ogni caso, anche con le coperture, nei punti dove avviene la movimentazione dei materiali in entrata e in uscita continuano a svilupparsi e a fuoriuscire polveri. Un accorgimento potrebbe essere l’utilizzazione di sistemi “Dry Fog”, che riescono ad abbattere anche le polveri sottili (PM10) e anche a limitare la dispersione di polveri “inalabili” (PM5), con un sistema che utilizza acqua nebulizzata con aria iniettata a velocità supersonica. Questi sistemi potrebbero essere usati da subito, ancor prima della realizzazione delle coperture, nei punti di movimentazione dei materiali all’interno di portali mobili, resta inteso che nel frattempo le altre parti dei cumoli devono essere accuratamente trattate con sostanze “filmanti”.
2) Oltre alle Cokerie, l’altro punto critico di emissioni di polveri, fumi e altre emissioni inquinati (diossine, ecc.) è l’impianto di sinterizzazione dei minerali. Una prima misura potrebbe essere quella di valutare la sostituzione o l’integrazione degli attuali filtri elettrostatici con filtri in tessuto (a manica), notoriamente più efficienti, tanto che le relative Bat prevedono rispettivamente <20-40 mg/Nm3 contro <1-15 mg/Nm3. Inoltre, si potrebbe valutare la riduzione della produzione interna di questo impianto, acquistando agglomerato sul mercato esterno, o sostituendolo eventualmente con minerale preridotto (DRI), analogamente a quanto già viene fatto nell’impianto siderurgico di Piombino.”
Bardi si è soffermato invece sulla delicata congiuntura che la siderurgia italiana ed europea attraversano in questo momento. Se da una parte il presidente uscente di Federacciai, Luigi Pasini, chiede con forza al governo di rivedere gli incentivi ai comparti della green economy per dedicare piuttosto maggiore attenzione alle difficoltà dei produttori d’acciaio – minacciati anche dal dumping ambientale dei concorrenti cinesi e indiani –, dall’altra grandissimi produttori, come il leader mondiale Arcelor Mittal, vanno perseguendo strategie sempre più chiare di delocalizzazione degli investimenti dall’Unione Europea a vantaggio degli stessi paesi emergenti. In questa situazione la produzione d’acciaio italiana ha mostrato segnali incoraggianti negli ultimi mesi, crescendo più rapidamente della media degli altri paesi europei, ma per le aziende le difficoltà restano comunque gravi.
Indubbiamente i contributi portati da Capodilupo e Bardi al dibattito locale sono quanto mai preziosi: essi hanno soprattutto il merito di riportare la questione della siderurgia e del suo impatto ambientale sul terreno della realtà, della tecnica e della fase economica corrente. In questa sede mi permetto solo di integrarli con semplici osservazioni, con la speranza di stimolare ulteriormente la discussione.
A proposito della proposta tecnica illustrata da Capodilupo c’è un punto che viene eluso: quello delle cokerie. Pare si tratti in realtà di una lacuna provvisoria, dal momento che in conferenza stampa lo stesso ingegnere ha annunciato che nel gruppo di lavoro che si riunirà attorno a lui vi sarà anche chi preparerà una soluzione specifica per quel segmento di produzione. La questione non è secondaria, poiché una parte significativa delle diossine e del benzo(a)pirene sprigionato dallo stabilimento si generano proprio in quella fase. A questo proposito si potrebbe prendere a modello lo stabilimento Thyssen Krupp di Duisburg (d’altra parte lo stesso segretario Stefanelli in conferenza stampa ha ribadito l’intenzione di CGIL e FIOM di invitare in un convegno a Taranto sindacalisti e tecnici provenienti proprio dalla Ruhr). Si tratta di un centro dalla potenza produttiva di poco inferiore a quella di Taranto (9 milioni ton./anno di acciaio grezzo contro 11,5 mln.), presso il quale le cokerie sono state integralmente sostituite nel 2003 (pressappoco nello stesso periodo in cui da noi, a seguito di una celeberrima ordinanza sindacale queste venivano semplicemente “rivampate”). La potenza produttiva del nuovo impianto è pari a 2,5 mln. di ton./anno di carbon coke, circa un milione in meno rispetto a quello in funzione a Taranto. La sostituzione, nel caso del centro tedesco, ha prodotto performance ambientali quanto mai significative: presso il modulo produttivo di Bruckhausen – quello presso il quale sono entrate in funzione le nuove batterie – il benzo(a)pirene è crollato da 9,7 a 0,4 ng./m3 dal 2002 al 2006 (v. qui, tab. 4). Si badi che la posizione degli impianti anche a Duisburg è molto vicina all’abitato. Certo, la sostituzione delle cokerie implicherebbe una spesa notevole e comporterebbe una marcia rallentata degli impianti, ma alla fine si potrebbe avere uno stabilimento non solo più pulito, ma anche più efficiente.
Veniamo così al secondo punto, che chiama in causa quanto detto da Bardi. A ben vedere i lavori di trasformazione del centro di Duisburg sono stati condotti da una società della stessa Thyssen Krupp, la Uhde, specializzata nella realizzazione di impianti industriali. Questo particolare introduce un tema di carattere economico di una certa importanza: chi dispone al suo interno di tecnologie che gli consentano di perseguire le sue finalità industriali risulta indubbiamente avvantaggiato rispetto a chi quel contributo deve acquistarlo dall’esterno. Detto altrimenti, una grande multinazionale diversificata come Thyssen Krupp è in grado di realizzare più agevolmente investimenti che puntino anche a migliorare l’impatto ambientale delle proprie produzioni rispetto a un gruppo Riva che resta concentrato nell’hard core della produzione siderurgica. Oltre tutto, una multinazionale che conta anche su centri produttivi che operano su mercati al momento più dinamici di quello europeo – Thyssen Krupp di recente ha ultimato un laminatoio della potenza di 4,3 mln. di ton./anno negli USA (Alabama), che viene alimentato dalle bramme provenienti dallo stabilimento inaugurato nel 2010 nello stato di Rio de Janeiro (e in parte indirizzate anche agli stabilimenti europei del gruppo) – può affrontare la turbolenta fase che la siderurgia sta attraversando con margini d’azione industriale ed economica più ampi rispetto a chi conserva la gran parte della sua produzione in Italia o, al più, in Europa – il gruppo Riva è presente anche in Francia, Belgio e Germania, ma esclusivamente con produzioni di laminati lunghi, che al momento risentono di una concorrenza fortissima soprattutto da parte dei concorrenti turchi. In un quadro del genere, più che la tanto deprecata concorrenza cinese, caratterizzata da bassi prezzi e scarsa qualità, ILVA ha forse da temere soprattutto i prodotti di alta qualità (e bassi prezzi) immessi sul mercato dal gigante tedesco del settore. E se la recessione in Europa dovesse aggravarsi ulteriormente, presto o tardi questa pressione diventerebbe fatale.
A questo punto ci sarebbe da porsi una questione fondamentale: l’Italia può permettersi di perdere la siderurgia – poiché di questo si tratterebbe se capitolasse Taranto e con quello stabilimento l’ILVA? Al momento non vi è paese manifatturiero al mondo che non produca ampi volumi d’acciaio: la Germania è il primo produttore siderurgico d’Europa – e questo non è un caso. D’altra parte le analisi più lucide fin qui prodotte sulla crisi europea dimostrano ampiamente che l’origine e il decorso di quest’ultima risiedono negli squilibri commerciali fra i diversi paesi dell’Unione, cioè nella capacità di alcuni (Germania su tutti) di penetrare i mercati altrui con le proprie merci (in gran parte manufatti). E la bilancia siderurgica italiana è cronicamente in passivo da diverso tempo. Di più, se davvero dovesse materializzarsi lo spettro della fuoriuscita dall’Euro – eventualità che diviene di giorno in giorno più probabile, dal momento che a livello europeo persiste l’opposizione del governo tedesco nei confronti di qualsiasi misura che possa derogare dall’austerità – trovarsi a dipendere dall’estero per un bene essenziale come l’acciaio equivarrebbe a una strozzatura asfissiante: per comprare quel materiale saremmo infatti costretti a indebitarci con l’estero a tassi d’interesse che a quel punto sarebbero diventati vertiginosi. Certo, la svalutazione potrebbe dare una boccata d’ossigeno ai siderurgici italiani “sull’orlo di una crisi di nervi” – e magari ai Riva sarà piaciuta la “battuta” di Berlusconi dell’altro giorno –, ma non dimentichiamo l’esperienza degli anni ’70, quando la concorrenza tedesca riuscì a penetrare il mercato italiano dei laminati piani nonostante la “liretta”, stabilendo rapporti di forza che mai più sarebbero mutati.
Tutto è perduto allora? Non ancora, perché per fortuna l’Italia non è a un livello industriale prossimo allo zero – come purtroppo accade a Grecia, Portogallo e, in parte, anche Spagna. La siderurgia italiana in particolare ha conosciuto di recente un’esperienza più unica che rara: quella dell’Arvedi di Cremona. L’azienda dell’omonimo cavaliere ha sperimentato negli ultimi vent’anni quello che è universalmente considerato l’ultimo salto di qualità della tecnologia siderurgica: la connessione diretta di colata continua e laminazione. L’innovazione consente di ottenere un risparmio dei costi nell’ordine del 60% rispetto ai processi di colata e laminazione tradizionali e di ottenere prodotti di gamma medio-alta, dotati soprattutto di straordinaria omogeneità. Nel 2010 l’Acciaierie Arvedi ha realizzato il 30% dei coils prodotti in Italia, seconda dopo l’ILVA; fra 2008 e 2010, per via dell’entrata in funzione del nuovo rivoluzionario impianto ESP (letteralmente: “produzione di nastri senza fine”), l’occupazione è raddoppiata (al pari dei ricavi) e, a tutt’oggi, i lavoratori Arvedi non hanno fatto un’ora di cassa integrazione.
La vicenda di Arvedi ci dice che l’innovazione deve diventare elemento strategico per la siderurgia italiana, a cominciare dal suo principale gruppo. Ma per fare innovazione occorre, a monte, organizzare in maniera più efficiente i capitali presenti nel settore. A questo proposito sarebbe bene recuperare dal dimenticatoio l’espressione “politica industriale”.
Leggendo il tuo articolo era impossibile non pensare alla querelle di pochi mesi fa. I nostri amici “ambientalisti” se si fossero impegnati di più nella ricerca di competenti sinergie, probabilmente, sarebbero risultati più credili; le loro battaglie sarebbero risultate meno fumose (Pittsburgh) e non avrebbero creato, nell’immaginario di molti tarantini, “l’inconciliabilità” tra diritto al lavoro e il diritto alla salute. Insomma una posizione che ha giovato all’ILVA e al neo Sindaco.
Il tuo articolo l’ho trovato molto interessante.
Interessanti le argomentazioni di Romeo sulla siderurgia nello stato attuale, il dibattito necessario va tenuto, a mio avviso, però,legando gli interessi della città a quelli dei lavoratori. Il problema è politico e la vecchia giunta comunale ha grandi responsabilità per la sua inefficienza in tale direzione. D’altronde la storia insegna che senza una vertenza sindacale (non un semplice convegno di studi) se supportata da lotte che coniughino il diritto alla salute dei lavoratori con quello del lavoro, il problema non può essere risolto. La Fiom ha avuto coraggio ma non avendo ne lei come gli altri sindacati tra i propri iscritti e militanti tecnici ed ingegneri (sono tanti) impegnati direttamente nel ciclo produttivo, la iniziativa rischia di avere solo delle buone intenzioni. Faccio un esempio, quello degli impianti di agglomerazione e sinterizzazione. Lì, una legge conquistata dal movimento ambientalista nostrano ha imposto dei limiti nelle emissioni di diossina, una battaglia attualmente e parzialmente vinta sul principio del bene pubblico rappresentato dall’aria che noi tutti respiriamo, ma che anche ottenendo il controllo in continuo resterebbe vana qualora non venga imposto anche quello del “tenore d’ossigeno” presente nei fumi. Il tecnico di quell’impianto, se sensibile solo agli interessi di immagine della proprietà aziendale e non a quelli generali, avrebbe modo di intervenire confutando i dati. La battaglia per “ambientalizzare” un grande processo inquinante come quello nostro andava imposto e fatto subito dopo l’acquisto dei Riva per pochi spiccioli di questa grande acciaieria. Nei primi tredici anni invece si sono prodotti immensi guadagni per questa proprietà serviti per l’acquisizione di altri impianti nel mondo. Come recuperare tanto tempo perso? In modo drastico, sostituendo le batterie attuali ed acquistando l’occorrente nel mercato globale per consentire la continuità della produzione. Non è in discussione l’acciaio ma il modo come esso viene prodotto. Oggi non può essere più permesso di farlo come lo si faceva nella prima metà del secolo scorso. (Giancarlo Girardi)
All’anonimo di cui sopra: non so a quali ambientalisti si riferisca, io parlo x me e per i comitati e cittadini che dai tempi di “Taranto libera” si sgolano nel dire: che quella fabbrica così come è non sarà mai ecocompatibile e quindi x salvare capre e cavoli ( vita e lavoro) o si chiude l’area a caldo o si abbatte e ricostruisce ex novo e non a 100mt dalla città. Fermo restando che i Riva pagano risarcimento danni e bonifiche successive alla certezza che le fonti inquinanti siano dismesse.Rosa D’Amato