di Remo Pezzuto
La condanna in primo grado a 16 anni di reclusione dei proprietari dell’Eternit rappresenta la più alta espressione di una giustizia che fa di fatto prevalere l’interesse generale della collettività per la difesa e la dignità della salute di chi lavora. Ponendo questo al di sopra di ogni possibile condizionamento esercitato da chi occupa posti di poteri economici importanti, non soltanto in Italia, ma anche nel mondo. Una sentenza monito, una lezione di civiltà, che ci permetterà di non rivivere drammi futuri simili negli anni futuri. Non possiamo però affermare che il pericolo dell’amianto sia superato o che le bonifiche siano state compiute. C’è ancora molto da fare contro l’amianto. Ma anche contro altri materiali e sostanze cancerogene, spesso molto più nocive e inquinanti. Importante ed essenziale per la sicurezza e la tutela della salute delle lavoratrici e lavoratori negli stabilimenti o aziende è la diffusione e l’informazione dei rischi nell’uso o esposizione a determinate sostanze. Il diritto alla salute deve essere esteso e riconosciuto all’intera cittadinanza.
Così come a Torino, la realtà industriale tarantina è stata quanto mai vessata da moltissime morti sul lavoro, per infortuni e malattie professionali. Coesistono sul nostro territorio, accanto alla città, da più di cinquant’anni, uno dei più grandi stabilimenti siderurgici d’Europa, una raffineria di idrocarburi, un cementificio e cantieri navali dai cui impianti si sprigionano notevoli quantità di agenti patogeni. L’incidente probatorio che si è concluso il 30 Marzo, del processo “tuomori” ha accertato l’esistenza di un disastro ambientale provocato dallo stabilimento siderurgico. Accanto a questo c’è un secondo processo “tumori” che prevede tra i capi d’imputazione reati ben più gravi del disastro ambientale, contemplando il reato di omicidio plurimo e aggravato per la morte di 15 dipendenti per mesoteliomi e carcinomi polmonari per esposizione ad amianto. Del “processo Eternit” e del “caso Taranto”, ne discutiamo con Massimiliano del Vecchio, avvocato della FIOM e INCA CGIL di Taranto e consulente giuridico della FIOM e dell’INCA CGIL nazionale per il settore.
Cosa rappresenta sul piano giuridico e di “Giustizia Sociale” la storica sentenza del Tribunale di Torino sul caso Eternit?
Rappresenta innanzitutto un essenziale momento di coinvolgimento della cittadinanza nella tutela del diritto alla salute a fronte di un disastro ambientale conclamato. E’ la prima volta in Italia che si instaura un processo per un danno di una portata così vasta. L’esperienza dei processi ha conosciuto anche prima del “processo Eternit” fattispecie di ipotesi di reato limitate al decesso e alla lesione provocate in danno ai lavoratori dipendente. Il “processo Eternit” invece si estende, con l’ammissione degli enti, alla costituzione di parte civile del Comune, della CGIL, delle varie organizzazione sindacali e delle associazioni che hanno ritenuto di partecipare. Quindi non rimane il processo Eternit, un fenomeno circoscritto allo stabilimento o all’azienda, ma assume dimensioni più vaste. Mentre da un lato è questo il carattere della novità, dall’altro invece si conferma ancora una volta, che non esime da colpa la circostanza che l’utilizzazione dell’amianto fosse consentita addirittura a livello legislativo fino ad una determinata epoca. Se questo è vero, è vero anche che questi sistemi di produzione – o, se ci spingiamo più avanti, di manutenzione – dei manufatti dovevano essere eseguiti tutelando la salute del lavoratore. Fino ad un certo periodo l’amianto era utilizzato anche come indumento protettivo, ma ciò non significa che il lavoratore innanzitutto non avrebbe dovuto essere informato dei rischi. C’è un dovere di informazione da parte del datore di lavoro. Ed ancora non significa che la stessa manomissione del materiale non avrebbe dovuto essere effettuata attraverso sistemi non pericolosi per la salute dell’uomo. Il senso della “sentenza Eternit” quindi, conferma ancora una volta che sussiste colpa nell”agente professionale” per non aver previsto l’adozione di queste cautele e aver utilizzato in modo inappropriato e imprudente tale materiale. Ci conferma inoltre che è possibile individuare il soggetto, la persona fisica colpevole di questi reati. Non vale l’esimente che le patologie da amianto possano essere determinate anche dall’inalazione di una singola fibra – la cd. dottrina della “single hit” –, in quanto in quella stessa sentenza, anche a seguito delle perizie disposte dalla CGIL, si afferma che nel mesotelioma la produzione della lesione cancerosa può essere favorita o accelerata anche dalla progressiva esposizione all’agente cancerogeno. Si afferma cioè la teoria del “multistadio”. A più esposizioni corrisponde una accelerazione dei tempi di latenza oppure una maggiore probabilità della verificazione della patologia; ad esempio, nel carcinoma polmonare nessuno ha mai dubitato che la colpa consista anche nell’aver provocato ripetutamente l’esposizione e tutti concordano nel determinare ipotesi di reato anche per gli amministratori che si sono succeduti nel tempo.
Dopo la sentenza del Tribunale di Torino, si può dire vinta la battaglia contro l’amianto, oppure è una battaglia ancora aperta? E qual è la situazione delle bonifiche sul piano nazionale a quasi vent’anni dall’emanazione della legge che ha bandito il materiale-killer?
La battaglia contro l’amianto è ancora una battaglia aperta. Ne abbiamo avuto conferma a Taranto, in sede di discussione del processo, dove i difensori degli imputati continuano a sostenere le tesi che si sono rivelate infondate nel processo Eternit, oltre che nei processi qui a Taranto, dove da circa venti anni vengono eseguite sentenze di condanna per i datori di lavoro o per l’INAIL per il riconoscimento delle malattie. C’è ancora chi propone e sostiene le dottrine che non consentirebbero la individuazione del responsabile del reato. C’è ancora chi sostiene che sia costosa la rimozione del materiale. Se immaginiamo che le bonifiche dall’amianto sono iniziate nel 2003, dopo che la legislazione vietava l’utilizzo dell’amianto e anche la stessa presenza dell’amianto negli impianti dal 1992, a distanza quindi di vent’anni, vuol dire che la battaglia è ancora aperta e non si sa ancora come andrà a finire. Perché eliminare tutto l’amianto da complessi produttivi di una tale vastità è quasi impossibile. Perché l’amianto si continuerà a trovarlo per i prossimi decenni, nascosto tra le flange di un qualsivoglia macchinario. Quindi l’idea sarebbe quella di una bonifica sistematica e generalizzata. Invece adesso le bonifiche sono mirate. Dove si sospetta che vi sia dell’amianto, si interviene con le ditte specializzate. Prima ancora intervenivano direttamente i lavoratori a rimuovere questo materiale senza l’adozione di alcuna cautela, a ripristinarli, riutilizzarli. Quindi l’intervento delle autorità sanitarie dovrebbe essere molto più penetrante.
L’amianto non è l’unico materiale cancerogeno o inquinante negli ambienti di lavoro. Quali sono gli altri materiali che sono ancora oggi utilizzati e che fanno ammalare allo stesso modo le lavoratrici e lavoratori?
Ci sono centinaia di sostanza che, da un punto di vista tecnico, possono essere definite veleni, utilizzati ad esempio nel ciclo della siderurgia o della raffinazione. I più nocivi sono pacificamente individuati dalla perizia chimica di recente disposta nell’incidente probatorio del processo “tumori”, ma anche dagli stessi registri INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti) e APAT (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici) istituiti dal Ministero dell’Ambiente per Taranto. Sono il cadmio, il benzo(a)pirene, le ammine aromatiche, il benzene, il catrame, il mercurio, i metalli pesanti e tanti altri. Le matrici rivelano che è il mix di agenti cancerogeni che produce questo aumento ed incremento di Tumori nella città di Taranto. Non è solo l’amianto, non è solo la diossina o il benzo(a)pirene, ma sono centinaia di agenti cancerogeni che si uniscono con un sistema sinergico, per cui ognuno moltiplica gli effetti nocivi dell’altro, e ne consegue che il livello di esposizione sia veramente preoccupante ancora oggi. Dal punto di vista produttivo, l’amianto non si produce più in Italia e forse anche in Europa. Prodotto solo dalla “Eternit”, ci sono state forse piccole azienda, a Taranto ad esempio c’era la Depo, che trattavano i manufatti in amianto. Ma direi che dal 1992 l’Amianto non si estrae più. Il problema è nelle aziende che l’hanno utilizzato come rivestimento, guarnizione o coibent – e sono tuttora grandi aziende che hanno questo problema. L’ILVA è il fenomeno più grave perché è un azienda che è grande tre volte la città di Taranto ed è piena di tonnellate di amianto ancora oggi.
In che modo si possono bilanciare gli interessi occupazionali con quelli della tutela della salute?
Occupazione e tutela della salute sono due fenomeni che possono certamente coesistere. Nessuno può pensare ragionevolmente di chiudere l’ILVA o l’Eni e mettere sul lastrico 15.000 famiglie. La scelta tra occupazione e diritto alla salute deve essere legata ad una ecocompatibilità della grande industria. La dimostrazione è stata data dall’adozione di semplicissimi rimedi, anche non molto costosi rispetto ai bilanci e agli attivi di bilancio dello stabilimento siderurgico, che hanno prodotto un abbattimento notevole dell’emissione di diossina, quando in realtà sino a due anni fa l’Ilva produceva il 90% della diossina d’Europa. Con l’adozione dell’impianto UREA e la legge “Antidiossina” della Regione Puglia, si sono fortemente abbattute e quasi azzerate le emissioni di questo inquinante. In Germania, ad esempio nella zona della Ruhr, convivono pacificamente nel verde gli abitanti e gli stabilimenti siderurgici più grandi d’Europa. Si tratta di rimodulare le autorizzazioni ambientali. L’unica strada è quella che si apra un tavolo permanente per Taranto presso il Ministero dell’Ambiente; che le autorizzazioni ambientali siano di durata più limitata e che siano tarati di volta in volta rispetto alle problematiche che fossero individuate dai rilievi ambientali. Una autorizzazione ambientale più rigorosa consentirebbe quindi la coesistenza della necessaria aspettativa di stabile occupazione con quella di doverosa tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori.
In che modo il Sindacato può promuovere l’interesse collettivo alla sicurezza e la prevenzione degli infortuni e malattie professionali negli ambienti di lavoro?
Il Sindacato è proprio l’organo deputato a svolgere questo compito. Nello Statuto della FIOM- CGIL, l’articolo 2 è tutto incentrato sulla salute dei lavoratori. Noi qui a Taranto siamo stati i primi a promuovere il ruolo processuale del Sindacato, nella partecipazione ai processi che riguardano omicidi o lesioni gravi per i lavoratori. Abbiamo voluto un confronto con le autorità giudiziarie. Ci siamo proclamati sempre persona offesa del reato, quando è morto un lavoratore. Sempre insieme ed affianco dei lavoratori. Ci è consentito dall’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori e dell’art. 2 dello Statuto della FIOM-CGIL, un ruolo istituzionale di rappresentanza degli interessi collettivi. Quindi il Sindacato è e vuole essere interlocutore dei lavoratori, del datore di lavoro e anche dei cittadini, proprio per affermare questa possibilità di coesistenza della realtà del lavoro con la realtà della salute. Si conferma tuttavia che il sindacato non difende solo i lavoratori iscritti. Questa è l’idea che è partita da Taranto. Ci siamo sempre costituiti evitando di dire se il lavoratore fosse o non fosse un nostro iscritto. Difendiamo tutti i lavoratori: è un ruolo che ci è ormai riconosciuto a livello nazionale, dove abbiamo acquisito grande credibilità. Siamo il Sindacato che dovunque si costituisce parte civile quando c’è un problema dei lavoratori e lavoriamo al fianco della procura per l’accertamento di ipotesi di reato.
Quale può essere il ruolo dei comitati di cittadini, inteso come partecipazione attiva al processo, per chiedere giustizia riguardo al “caso Taranto”?
I comitati di cittadini fanno molto bene il ruolo di stimolo dell’instaurazione e prosecuzione dei processi. La forma di controllo popolare è sempre qualcosa di opportuno. Per quanto riguarda la partecipazione alle iniziative giudiziarie, c’è solo un ostacolo tecnico. Il comitato non può costituirsi per partecipare a quel processo, ma è legittimato a parteciparvi se dimostra di avere un peso e una credibilità diffusa sul territorio nazionale o in ambito più ristretto, che preesista al processo. Il comitato partecipa come persona danneggiata dal reato. Quindi se è nato dopo il processo o in vista di questo, certamente non ha ancora patito il danno. Ben vengano quindi i comitati dei cittadini, è un segnale che la città ci crede in questi processi ed è di conforto per gli inquirenti. Il sostegno dei cittadini nelle loro battaglie giudiziarie.
“La scelta tra occupazione e diritto alla salute deve essere legata ad una ecocompatibilità della grande industria.”?????? Remo non sono daccordo dimentichi che quegli impianti sono obsoleti e a ridosso di Taranto. Dimentichi pecore abbattute, registro tumori, studio SENTIERI, le ultime perizie chimiche ed epidemiologiche… “La dimostrazione è stata data dall’adozione di semplicissimi rimedi…che hanno prodotto un abbattimento notevole dell’emissione di diossina, quando in realtà sino a due anni fa l’Ilva produceva il 90% della diossina d’Europa. Con l’adozione dell’impianto UREA e la legge “Antidiossina” della Regione Puglia, si sono fortemente abbattute e quasi azzerate le emissioni di questo inquinante.” Assolutamente falso!!! l’abbattimento di cui parli è relativo, ed è cmq ottenuto dalla media di 4 campionamenti diciamo “strambi”, al solo camino E312!!! A RHur gli impianti sono nuovi e non rappezzati!!! e nn credo a 100mt da un quartiere popoloso!!
Poi credo che i Sindacati debbano prima di tutto difendere e tutelare i lavoratori dentro la fabbrica per primi, denunciando essi stessi, e portando fuori da essa la verità!Non solo a processo avviato.