Una storia di Sud. Quando la scuola è l’unica istituzione presente nel quartiere

di Gaetano De Monte

Periferia industriale a nord di Taranto, Paolo VI. Un quartiere frutto della cementificazione dei primi anni 70. Costruito per soddisfare le esigenze abitative della classe operaia tarantina, che in quegli anni, con la costruzione del siderurgico, vedeva realizzato il sogno di un posto in fabbrica e la speranza di un futuro migliore. Un rione, che  deve il suo nome al Papa Paolo VI, che nella notte di Natale del 1969, celebrò la santa messa dal centro siderurgico di proprietà statale, l’allora Italsider. E che a distanza di quarant’anni dalla sua costruzione, aspetta ancora, per i suoi abitanti, servizi pubblici locali, piazze, parco giochi, teatri, cinema. Insomma, che istituzioni degne di questo nome si occupino di quella gente che vive in quei palazzoni asfissianti che separano il Mar Piccolo dall’Ilva, il siderurgico più grande d’Europa.

Una scuola media modello. La Giuseppe Ungaretti. Con un progetto educativo e sociale in grado di confrontarsi concretamente con il territorio e i problemi di chi lo abita. Una scuola di periferia come tante, ma con un progetto formativo come poche. Ed  un professore, Stefano Leogrande, che in quella scuola dove è vicario del preside, ha trascorso ventinove, dei suoi sessant’anni. In  quello stesso istituto scolastico che negli ultimi anni, ha subito decine di atti vandalici, incendi, provocati allagamenti e furti di ogni genere, svolge una funzione sociale, quasi istituzionale, oltre che educativa. Ma in quello che è quasi un quartiere nel quartiere, nelle cosiddette case bianche, dove la scuola è ubicata, – un complesso di case Iacp tutte uguali e tutte oramai fatiscenti, assegnate nei primi anni ’70 ai poveri e ai disoccupati del quartiere –  Stefano Leogrande, è soprattutto l’idolo delle mamme. Che sono le stesse che hanno recitato nel film Mar Piccolo di Alessandro Di Robilant,  un giovane regista che ha fortemente voluto lavorare nel quartiere Paolo VI, in quella che è forse la periferia più povera di Taranto, coinvolgendo gli abitanti sia come attori e comparse, sia usando le loro case, e i loro spazi come scenografia naturale. In quel film, prodotto dalla Fandango, protagoniste, forse un po’ nascoste, sono proprio loro, le donne di Paolo Sesto, le cui voci raccontano, attraverso un continuo altalenare tra la finzione filmica e la realtà, la vita nel quartiere, il rapporto con l’ILVA, l’industria più inquinante d’Italia, e quello con la Città, che appare così lontana al di là del Ponte,  il Punta Penna, da cui è separata. Troppo distante dalle sue istituzioni e dai suoi servizi, e non solo in senso geografico. Un film, quello, che descrive, comunque, anche quel senso di solidarietà, della condivisione, della festa, che luoghi e gente come questi ti sanno  dare.

E’ proprio durante una festa di fine anno organizzata nella scuola, dal prof. Leogrande, con il sapiente aiuto delle donne di PaoloVI, che hanno preparato per l’occasione ogni sorta di prelibatezza culinaria, che ho l’occasione di conoscere dall’interno la vicenda della media Ungaretti. Ci vado con Angelo, che in quella scuola vi ha insegnato musica per un anno, e con Carla, che invece vi ha lavorato per un progetto del servizio civile nazionale. Entrambi conservano un ottimo ricordo del tempo trascorso lì, delle mamme, dei bambini, che da queste parti è come se crescessero più in fretta degli altri, imparando, tra le difficoltà, i pericoli, e spesso il degrado che li circonda, a cavarsela nella vita. Altre volte magari no. Ma in realtà, questi, sono solo sedimenti di storia che è possibile incontrare in qualsiasi altra metropoli europea, sia Napoli o Marsiglia, laddove ad una politica urbanistica disastrosa, si è affiancata l’assenza di istituzioni degne.

“Per fortuna che c’è invece quella scuola”, mi dicono quasi in coro, Maria, – che dopo aver recitato in Mar Piccolo e in “il paese delle spose infelici”, è diventata la referente della Fandango ogni volta che c’è da girare un film da queste parti-  e le altre mamme.

Non ci sono posti dove i bambini possono giocare. Piazze, centri sportivi scevri dalle logiche del profitto, dove i bambini possano semplicemente stare insieme. Di  autobus di linea ne partono davvero pochi. Siamo come abbandonati a noi stessi. Come se non fossimo un quartiere tra i più popolosi della Città. La disoccupazione, poi, è una manna bestiale, specie per i giù giovani. Ed il lavoro quando c’è, per i nostri mariti,  riesce a malapena a garantire la giornata. Resta il fatto che tra di noi ci aiutiamo, c’è solidarietà, fratellanza. E che quella scuola, è l’unica istituzione di riferimento. E quel professore, poi, è come se fosse il nostro sindaco, è lui che risolve i nostri problemi, a volte anche quelli coniugali! E’ forse anche un po’ il nostro prete!

E’ un umanità semplice, spesso però dolente, quella che incontri in questo quartiere stretto tra il siderurgico, il mare, e quel che resta della macchia mediterranea. Basata su pochi valori condivisi, che la scuola Ungaretti ha contribuito in massima parte a tramandare. Rifuggendo dai pregiudizi, figli della paura e dell’ignoranza, che spesso i condizionamenti, o addirittura, il  bombardamento, dei media locali, hanno restituito negli anni. Da quell’idea del quartiere Paolo Sesto, legata per forza alla cronaca, alla malavita, all’eroina. Da quella logica che ha inevitabilmente colpevolizzato senza pietà i suoi abitanti, etichettandoli come la feccia della città. Dimenticando, o facendo finta, forse, che, dietro una notizia di cronaca, spesso, quasi sempre, si nasconde un disagio sociale. La scuola Ungaretti, ed in particolare il vice-preside, Stefano Leogrande, cercano, ogni giorno, invece, attraverso il dialogo,  con le mamme e con i bambini, in primo luogo, di rimuoverne le cause.

“Per fortuna che ci sono loro invece”, continua il Prof, riferendosi alle “mamme attrici”, in un simpatico siparietto, tra un tubettino alle cozze, e una seppia alla griglia, che solo certi “squarci”ed “angoli” di Taranto, ti sanno dare.

E’ grazie a loro, ed al loro profondo senso di appartenenza verso l’istituzione scuola, verso questa piccola famiglia che conta 170 allievi, 34 insegnanti e 7 classi, se ventinove anni dopo sono ancora qui, a lavorare con l’ entusiasmo del primo giorno, nonostante le difficoltà ed i tanti momenti difficili attraversati. I primi anni ’90, quelli della Guerra di mala, quando la stessa convivenza tra i ragazzi era impossibile. Quando gli stessi cognomi degli alunni rimandavano alla geografia dei clan, che in quegli anni si contendevano a suon di proiettili e di morti ammazzati, il controllo della Città.

Come quando, tredici anni dopo, volevano chiuderla a causa dell’esiguo numero di frequentanti. E io mi sono battuto, perché qui tra le case bianche, dove vi sono solo palazzoni tutti uguali, l’uno affianco all’altro, come a Scampia, come a Tor Bella Monaca, come nelle periferie di Napoli, Roma, almeno rimanesse la scuola. Dove tuttora non ci sono piazze, parchi. E qui vicino c’è solo un bellissimo cine-teatro, il Mignon, che però non è mai decollato. E’ dal 1998, dal giorno in cui vennero a trovarmi un gruppo di mamme del quartiere che si opponevano alla chiusura della scuola, e con cui da allora si è instaurato un rapporto bellissimo, che sto bene ad insegnare qui. Da quando è nato il comitato delle mamme con cui ci incontriamo ogni lunedì.  Vista la mia anzianità di servizio, avrei potuto fare il preside incaricato in un’altra scuola, magari alla Colombo, vicino casa. Ma io  sono rimasto qui, e questa mia scelta la devo proprio a quelle mamme che un tempo sono state anche mie alunne e che oggi mi aiutano nell’ascolto e nel dialogo con i ragazzi, con i loro figli. Il loro aiuto è stato prezioso quando la scuola ha subito diversi atti di vandalismo. Cercando di risolvere i problemi con la prevenzione piuttosto che con la repressione.

La scuola media Giuseppe Ungaretti, ha infatti subito negli anni decine di attentati, ed addirittura qualche anno fa, questo professore, – che potrebbe essere uscito da un romanzo di Sciascia –  dopo un rogo notturno nei corridoi, alimentato con banchi e registri di classe, per due notti ha dormito in aula, pur di difendere ciò che restava della sua scuola.

Sfondarono i vetri e rubarono i computer. Allagarono le aule per impedire di fare lezione.  Portarono via tutto quello che si poteva trasportare. Distrussero tutto il resto. Dietro quelle incursioni, fa capire il Prof Leogrande, sembra esserci stata una regia. Forse la volontà di alcuni di vedere chiusa  la scuola per potersi insediare nelle aule. O addirittura è girata anche la voce che “qualcuno”, all’interno di quell’edificio avrebbe voluto farci un centro-benessere!

Un po’come la storia del cinema- teatro Mignon, che si trova a poca distanza dall’ Ungaretti, assegnato temporaneamente da un protocollo di intesa, sottoscritto il 5 Gennaio del 2011, ai ragazzi dell’allora Centro Sociale Cloro Rosso, in attesa dei lavori di ristrutturazione della ex scuola media Martellotta, perché vi svolgessero all’interno attività socio-culturali, e a cui invece sarà poi detto di non andarci, perché  “ avreste disturbato il quartiere”.   Pochi mesi dopo, quel teatro sarà derubato di qualsiasi cosa avesse all’interno. E questa non è un’altra storia….

Per fortuna che invece, nel desolante spaccato sociale e culturale, di quello che è oggi l’istituzione scolastica al sud Italia, c’è una scuola di periferia che resiste, si confronta e si scontra con i sogni, i problemi e le difficoltà di ragazzi e genitori. Per fortuna c’è chi, come il Professor Leogrande anche di fronte allo sconquasso provocato dalla riforma Gelmini continua a fare scuola pubblica. Di qualità. D’eccellenza. Anche attraverso i corsi e le numerose attività pomeridiane che si tengono qui.

I ragazzi sono contenti di venire a scuola, di pomeriggio. Anzi, a volte succede anche che i bambini non vogliano più tornare a casa. Perchè senza strutture sportive pubbliche, senza un parco giochi. Dove vanno? Cosa fanno? I nostri bambini non hanno mai visto nulla di tutto questo dice Marianna, un’altra delle mamme, che con il dirigente scolastico Stefano Leogrande, ha instaurato un rapporto oramai decennale. Oramai sedimentato nel tempo. Tanto che, nonostante molte di quelle donne,  hanno i figli ormai grandi, che non frequentano più da un pezzo la scuola,  loro continuano ad esserci, strette tra la voglia di contaminarsi e il desiderio di riscatto per i  figli di quel quartiere, la cui unica colpa, è l’essere nati e cresciuti in dei palazzoni tutti bianchi, tutti attaccati l’uno all’altro,simili a quelli di qualsiasi altra metropoli del Sud Europa. Quella della scuola Ungaretti, infatti è una storia di sud, di sud dell’Europa, che dimostra però, come davvero a volte basti poco per capovolgere la realtà. Per fuggire dai pregiudizi e dai sospetti. Bastano vicende come queste. Basta crearle, viverle. Magari anche raccontarle, ogni tanto.

Per fortuna che invece ci sono scuole come questa,  che è “un’istituzione”, nel quartiere, mi dice Carla, – che in quella scuola ha fatto la volontaria, e che i bambini appena l’hanno vista l’hanno abbracciata e chiamato ” professorè”- mentre andiamo via. Mentre ci lasciamo alle spalle quei palazzoni bianchi, il mare, e le ciminiere. Mentre, in macchina, siamo diretti all’Archeo Tower, un’altra piccola istituzione del “Comune”, un laboratorio di cooperazione produttiva, un centro sociale, ma qualsiasi cosa essa sia, un luogo che si sforza ogni giorno di essere  istituzione, in un quartiere, il Solito Corvisea, dove i palazzoni sono di varia tonalità e più belli, ma tutti ugualmente asfissianti.