di Serena Mancini
Sono trascorsi più di 140 anni dalla costruzione del carcere Le Nuove di Torino, una struttura penitenziaria unica e innovativa voluta dal Re Vittorio Emanuele II nel 1857 attraverso l’emanazione di un decreto regio del 21 giugno dello stesso anno. Come spesso accade per i luoghi che oggi raccontano uno spaccato di storia italiana triste e vergognosa lo scenario e gli spazi che lo caratterizzano rivelano una “terribile bellezza”. Un fascino tutto raccapricciante che però suscita interesse e stimola domande sulla natura umana e sulla sua efferatezza. La struttura principale è circondata da un muro e da quattro torrette laterali e si estende su di una superficie di circa 37000 metri quadrati. Venne costruita in tempi record: nonostante alcuni mesi di interruzione il carcere fu realizzato in soli nove anni e divenne operativo il 1 gennaio del 1860. Nella II metà dell’800 Torino aveva già altri penitenziari all’interno del tessuto cittadino ma iniziavano ad emergere nuove tendenze sociali: da una parte la necessità di costruire un luogo in cui i detenuti potessero vivere in totale isolamento per intraprendere un nuovo percorso di riscatto morale, dall’altra la volontà di costruire un edificio fuori dalle mura urbane e lontano dagli occhi indiscreti dei cittadini. In definitiva dunque un luogo di emarginazione. La gara d’appalto per la costruzione del penitenziario venne vinta dall’architetto Giuseppe Polani che per l’occasione aveva presentato un progetto modernissimo dalla forma cellulare. Le novità erano molte: innanzitutto nell’edificio veniva assicurato un sistema di isolamento totale per i detenuti ciascuno dei quali era rinchiuso in una singola cella (per un totale di 648); in secondo luogo attraverso l’innovativo sistema panottico che permetteva ad un’unica guardia carceraria di controllare tutti i corridoi, si incuteva nel detenuto la terribile sensazione di essere continuamente sorvegliato. Un’altra novità era invece di natura strutturale: pur non essendoci ancora nelle abitazioni cittadine né acqua corrente né riscaldamento, il progetto de “Le Nuove” prevedeva un sistema di riscaldamento e di acqua corrente (nonché adeguati servizi igienici) per ogni cella. In realtà questo programma non venne mai realizzato per mancanza di fondi e le condizioni igieniche della struttura rimasero pessime per diversi anni. Ancora oggi la pianta del carcere si presenta a doppia croce con una struttura centrale dalla quale si dipartono tredici bracci. Dell’intera struttura è visitabile solo una parte costituita essenzialmente dal famigerato “I braccio”, ossia quello interamente gestito dalle SS tedesche, dal braccio femminile e dal braccio dei condannati a morte, al quale si accede attraverso una scala a chiocciola posta nella rotonda centrale. La seconda parte dell’edificio invece, nonostante le sollecitazioni dell’Associazione “Nessun Uomo è un’isola” perchè venisse annessa al Museo, viene oggi ristrutturata per ospitare gli uffici del tribunale di Torino. In più di un secolo il carcere Le Nuove ha assistito ai periodi più bui della storia italiana, divenendo luogo di transito per veri criminali, ma soprattutto per presunti tali. Utilizzato sino al 2003 il penitenziario torinese, inizialmente destinato ai condannati con pene inferiori ad un anno, ha visto rinchiusi al suo interno disertori della I Guerra Mondiale, operai arrestati nel “biennio rosso”, antifascisti, ebrei, partigiani, ma in seguito anche fascisti, terroristi e mafiosi. Una commistione di individui considerati nemici della società in base ai valori applicati via via dallo Stato. Un paradosso storico che ha visto imprigionati all’interno delle stesse celle i grandi martiri della libertà e i banali assassini o tangentisti. Appena superato il grande cancello d’ingresso al cortile, si accede ad un lungo corridoio in cui sono disposte diverse fotografie delle vittime della II Guerra Mondiale di cui è stato possibile avviare il riconoscimento: si tratta soprattutto di partigiani impegnati nella lotta antifascista, arrestati e imprigionati nel penitenziario in attesa di essere deportati o, nel migliore dei casi, fucilati. Di alcune vittime viene indicata la data di nascita e di morte, di altre invece solo il nome…tutti hanno visi visibilmente giovani, tutti manifestano un’espressione fiera. Diverse sono le storie che i volontari dell’Associazione che si occupa della struttura raccontano nelle visite guidate organizzate nell’edificio e molte di queste risalgono alle testimonianze di superstiti o familiari delle vittime. Alcuni detenuti vennero persino utilizzati per gli pseudo-studi sulla criminologia avviati da Cesare Lombroso. Una volta all’interno dell’edificio la sensazione è subito quella di essere in gabbia: nel braccio femminile le grate ai piani alti sono immediatamente visibili e le dimensioni ridotte delle celle permettono di capire davvero come lì dentro si potesse perdere la cognizione dello spazio e del tempo reali. Qui tutto appare bianco, ad eccezione dei mattoncini rossi dei muri che tanto richiamano i colori austeri di Auschwitz. Da questa prima sala si accede al “braccio tedesco” cioè quello interamente controllato dai nazisti. Qui le tonalità sono più cupe: tutto è grigio dal pavimento, alle porte delle celle sino al soffitto. Sui muri ci sono piccole finestrelle da cui le SS potevano osservare i detenuti nell’atto di espletare i propri bisogni. I prigionieri dovevano essere privati totalmente della propria dignità e questo controllo di un atto privato mirava a umiliarli ulteriormente. Nella prigione si trovano poi due cappelle, di cui solo quella maschile è visitabile. La messa poteva essere ascoltata da piccoli loculi disposti in alto attorno alla sala principale: sembra di percorrere un alveare in cui le piccole celle accolgono gli insetti fastidiosi. Lungo le pareti alcune fotografie di scritte dei detenuti, danno l’idea della loro svariata provenienza geografica e culturale. Ci sono parole in siciliano, in veneto e alcune in italiano perfetto tra cui quella che recita: “Se la giustizia fosse umana io non sarei in questa tana”. E poi c’è una sedia in legno, lo strumento che vanta il primato di aver assistito all’ultima esecuzione capitale in Italia. Tra tutti questi orrori però le storie di suor Giuseppina De Mauro e di padre Ruggero Cipolla riescono a restituire al luogo un po’ di umanità. Si tratta di due figure religiose il cui triste compito era quello di accompagnare i detenuti alla morte, cercando di alleviarne le sofferenze e di restituire loro la dignità e il coraggio necessari per affrontare l’esecuzione. Ma dietro al loro compito istituzionale, si nascondeva anche un universo di azioni clandestine volte a salvare la vita ad alcuni prigionieri e una grande umiltà che le parole di padre Ruggero con l’espressione “Chiedo perdono a Dio per il male fatto, per il male fatto fare e per il bene fatto male” ci testimoniano ancora oggi. Dopo aver ascoltato alcuni aneddoti la breve boccata d’aria svanisce improvvisamente nell’umidità e nelle temperature bassissime dell’ultimo braccio: quello dei condannati a morte. Qui sotto, nel “buco”, nonostante i neon, l’area appare ancora più scura del braccio precedente e la temperatura scende di 5 gradi rispetto alle altre sale: uno spazio buio e freddo tanto da far comprimere i muscoli di tutto il corpo. All’interno delle celle sono collocati alcuni pannelli luminosi che riportano le ultime volontà dei detenuti: si tratta perlopiù di invocazioni alla libertà e dichiarazioni di innocenza nei confronti del proprio Paese. La dimensione umana qui scompare completamente per lasciare spazio a quella bestiale. Le cimici in queste celle divoravano la carne dei prigionieri costretti a tapparsi le narici del naso e i fori delle orecchie con briciole di pane per evitare di essere completamente invasi dai piccoli parassiti. Da qui si usciva solo per andare incontro alla morte, ma in realtà se sopravvissuti ad un luogo simile “la fine” non poteva più spaventare allo stesso modo. Nel pomeriggio del 27 aprile, nella prigione Le Nuove arrivò l’ordine di scarcerazione e la sospirata liberazione giunse nei vari bracci. Anche i tedeschi furono costretti a rilasciare i prigionieri e il I braccio venne definitivamente svuotato. Al termine della visita si immaginano quelle celle aperte, spalancate e quei corridoi invasi da uomini ai quali finalmente viene restituita la propria dignità. Di questa immagine non esistono fotografie o filmati in grado di dare testimonianza: è compito di ciascuno di noi poterla conservare nella proprie memoria come emblema di libertà e riscatto di una generazione di eroi.