di Gaetano De Monte
La tragedia giapponese, uno degli eventi sismici catastrofici più devastanti mai registrati, rimbalzando sui media di tutto il mondo ha avuto un effetto paradossalmente “positivo”, o meglio propositivo, nel nostro paese. Le immagini delle esplosioni dei reattori nucleari della centrale nipponica di Fukushima hanno scatenato infatti un dibattito decisamente aspro sul nucleare, facendo ripiombare sull’Italia l’incubo atomico – in nome anche di una genuina consapevolezza nazionalpopolare che fa dire “se esplodono quelle dei giapponesi, figurati cosa succederebbe da noi”.
Già agli inizi degli anni ’80, l’ipotesi nucleare era stata vissuta con forte contrarietà dalla popolazione italiana; un forte movimento di opposizione alle centrali nacque e crebbe in ogni parte del paese sin dagli inizi del 1980: fu una grande e vittoriosa battaglia che culminò, sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro di Chernobyl del 1987, nello storico “No” al nucleare espresso dal referendum abrogativo dello stesso anno. In attuazione di detto referendum, infatti, nel 1988 il Governo italiano, in sede di approvazione del nuovo «Piano energetico nazionale», deliberò la moratoria sull’utilizzo del nucleare da fissione quale fonte energetica; oltre a ciò si pose con urgenza la questione dello smantellamento delle centrali nucleari esistenti e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi derivanti dal funzionamento delle stesse.
La situazione odierna sembra per certi versi simile a quella di allora: anche oggi, infatti, sono forti le pressioni delle lobby del nucleare sul potere politico per la costruzione di centrali nel nostro paese; quegli stessi gruppi di pressione che di fronte alla minaccia di un disastro atomico, paventato dal terremoto in Giappone, ora minimizzano; e basta ascoltare le dichiarazioni di Chicco Testa – Presidente del forum nucleare e paradossalmente ex presidente di Legambiente( stranezze tutte nostrane) – per rendersene conto. Cosi anche l’incubo che sta vivendo il Giappone in queste ore, con il danneggiamento di un reattore, in Italia viene declinato come mero strumento di propaganda politica e ideologica; e, come negli anni ’80, maggioranza ed opposizione, lautamente finanziate dalle lobby dell’atomo, spingono per il suo ritorno. Come allora, però, c’è una forte mobilitazione della popolazione italiana: è nato un “Comitato Vota SI per fermare il nucleare”, formato da oltre 60 associazioni, nell’ambito del più ampio movimento per la difesa dei beni comuni. Così il 12 giugno si andrà a votare per un referendum che, fra le altre cose, chiede l’abrogazione del ritorno dell’Italia al nucleare.
Il rimando a quanto successe a Chernobyl nel 1987, alle grandi mobilitazioni antinucleariste fino al referendum che sancì l’abbandono dell’energia nucleare è quasi d’obbligo.
Il riferimento a quanto avvenne quasi trent’anni fa è importante anche per ciò che riguarda la Puglia, la quale figura nell’elenco dei siti in cui potranno sorgere le centrali nucleari, nonché in quello dei possibili siti del deposito nazionale delle scorie radioattive. La mappa relativa alle centrali che il governo vorrebbe installare in Puglia ricalca quella fatta nel 1979 dal Cnen (Comitato nazionale per l’energia nucleare), poi andata in soffitta dopo il referendum del 1987, e comprende in tutta Italia 52 siti.
Tra questi figurano alcune tra le tante meraviglie naturalistiche pugliesi; per dirne qualcuna: la zona costiera al confine con la Basilicata, che lambisce la provincia di Taranto, la zona costiera a nord del promontorio del Gargano in prossimità di Lesina, in provincia di Foggia, la zona costiera del Golfo di Manfredonia (Foggia), la zona costiera ionica a nord di Porto Cesareo (Lecce), la zona costiera ionica a sud di Gallipoli (Lecce), oltre a tante altre aree sottoposte a vincolo paesaggistico e naturalistico – ad esempio la zona costiera in corrispondenza di Ostuni. Ma se oggi il presidente Vendola può dichiarare che “devono comperare una nuova generazione di carri armati per poter pensare di raggiungere la Puglia per mettere qualche cantiere nucleare”, c’è da ricordare che l’illusione della scelta nucleare in Puglia durò meno di tre anni, dal 1980 al 20 marzo dell’82, quando circa 15mila persone scesero in piazza ad Avetrana, cambiando il corso degli eventi.
E così qualsiasi riflessione seria, informata, critica sul problema dell’insediamento delle centrali nucleari in Puglia così come altrove non può che partire dal ricordo di quelle giornate di lotta, da quella manifestazione promossa dai sindaci e dagli amministratori comunali pugliesi, dai Gruppi parlamentari radicali, da Italia Nostra, da Nuova Ecologia, da Democrazia Proletaria, dai Comitati antinucleari delle province pugliesi, e che vide anche la presenza di gruppi ecologisti e antinucleari giunti da tutta Italia,
Quella mobilitazione costituì infatti un momento decisivo dell’impegno antinucleare, divenendo anche l’occasione per il lancio della proposta di un referendum consultivo comunale, preludio a quello abrogativo nazionale del 8 e 9 Novembre 1987. «Meglio attivi che radioattivi», si leggeva sullo striscione che apriva il corteo di Avetrana. La mobilitazione che si manifestò in questo piccolo centro – e che coinvolse anche altri paesi come Manduria, Sava, Maruggio ed altri comuni di questo territorio ai confini tra Taranto, Brindisi e Lecce – esplose ben prima della catastrofe di Chernobyl e diventò quasi un anteprima del referendum del 1987, riuscendo a mettere alla berlina la classe politica locale, e divenendo cosi la cartina di tornasole delle tensioni esplose in tutt’Italia qualche anno dopo.
Al vertice della regione allora c’era Nicola Quarta, patron del caffè salentino, un democristiano deciso a perseguire la modernizzazione della Puglia. A guidare il Pci regionale c’era Massimo D’Alema, favorevole all’opzione nucleare e già impegnato nel dialogo con i democristiani. Il vice di Quarta era un socialista foggiano, Domenico Romano, favorevole anche lui. E come oggi, la Puglia si candidava alla guida del processo di modernizzazione del Mezzogiorno. Punto centrale di questa strategia era il no alla centrale a carbone, l’opzione nucleare e un piano del governo tutto imperniato sulla sostituzione delle industrie di vecchia generazione con iniziative a più alto contenuto tecnologico. Ma la struttura sociale e culturale non e’ mai stata in linea con le scelte tecniche e industriali nella “terra del rimorso”.
Ma è solo questo quello che ci resta di quelle giornate di orgoglio civile che la Puglia visse nei primi anni’80? Oggi, a prescindere dal nucleare, la situazione ambientale della nostra regione resta comunque problematica e numerose sono le mobilitazioni in salvaguardia del primo bene comune di cui dispongano i cittadini pugliesi: i luoghi dove vivono. Viene così da chiedersi: potranno un giorno i paesaggi pugliesi restituirci quello splendore e quell’autenticità che il prezzo del progresso e della subalternità ha negato? Quella bellezza cantata nei secoli da Virgilio, da Orazio, da Livio Andronico, sino a Carmelo Bene e Caparezza?
O dovremmo per sempre pagare le scelte di amministratori miopi e governicchi scellerati?