di Francesco Ferri
La maggioranza dei cortei finisce per riprodurre se stessa e i propri riti in maniera sempre uguale, stanca e trascinata. Macchina organizzativa perfetta ed efficiente, servizio d’ordine puntuale ed inflessibile, posizioni e distanze precostituite, comizio finale con scaletta preimpostata, chiusura immancabile, sicura e rassicurante del segretario di turno. Il risultato finale ci palesa come il manifestare in maniera collettiva le proprie idee e i propri desideri, in dinamiche del genere, venga percepito e autopercepito quasi come un’ennesima forma di conformismo, alla fine non troppo dissimile da tante altre.
Rispetto a rappresentazioni di questo tipo, il corteo che sabato 12 Marzo ha attraversato le vie di Bari affrontando il tema della ripubblicizzazione dell’acquedotto pugliese si pone su posizioni diametralmente opposte. In modo semplice e intuitivo, quasi naturale, la messa in scena della manifestazione ingabbiata in schemi precostituiti, dove la ricchezza dei corpi produttivi di desideri e sogni risulta inevitabilmente schiacciata tra formalismi e retorica, è stata accantonata, tralasciata, deposta. Il dato che emerge e che viene percepito da tutte e tutti lungo le strade di una Bari soleggiata e colorata, è antitetico: al posto del formalismo e della retorica del protocollo si palesa, performante, l’eccedenza partecipativa delle donne e degli uomini.
Resta l’assoluta rilevanza del dato numerico (quattromila persone sono oggettivamente tante). Ma la partecipazione di questo corteo va oltre l’analisi quantitativa, ed è rintracciabile anche a partire da piccole e parziali istantanee.
Al momento della partenza, in testa al corteo di Bari, c’è una macchina un po’ malandata, che diffonde musica scanzonata da precari megafoni installati sul tetto. Richiama suggestioni, anche visive, che sanno più di festa un po’ improvvisata di metà degli anni settanta – magari il carnevale alternativo di Cinisi – che di corteo nazionale. La musica, anche se estemporanea, si pone come sottofondo ideale che accompagna e denota la voglia di stare insieme e di condividere idealmente piazze e strade.
A partire da immagini come queste – frammenti di un corteo lungo e colorato – è possibile ricercare spirito, anima e corpo della manifestazione, e delle sue genti. Qui la piramide risulta invertita: la sostanza – legittimità delle pretese e capacità di creare immaginario – travalica la ricerca di forme stanche e ripetute. Si sceglie magari di improvvisare un po’, di non perdersi dietro protocolli rigidi, e in questo modo la rappresentazione visiva alla propria voglia di partecipare risulta evidente, scalciante, gradevole.
Seguendo questa direttrice, non possiamo che porre lungo questa linea interpretativa l’assemblea che al termine del percorso si tiene davanti alla sede dell’Acquedotto Pugliese. Non un comizio con relatori in alto e manifestanti in basso, con interventi programmati, retorica e stanchi applausi. Qui non c’è palco, non c’è servizio d’ordine. Qui c’è un megafono. E se c’è una scaletta, è partecipata, condivisa, emendabile. Chi ha qualcosa da dire, chi sente il bisogno di condividere con i presenti la propria esperienza, interviene. Si parla, si discute, si analizza. Ci si contamina.
Se le scelte organizzative sono il manifesto del retroterra culturale dal quale sorgono, la scelta di prediligere l’eccedenza della partecipazione al formalismo immobile e immutabile è manifesto di un sentimento che ha accompagnato ogni comitato territoriale durante la straordinaria esperienza della raccolta firme della scorsa primavera-estate. La sostanza delle rivendicazioni e la capacità di costruirci intorno immaginario sono argomenti che, per loro natura, si alimentano a vicenda, autosufficienti rispetto ad altri criteri (forma e ingessatura delle rappresentazione) che, spesso, finisco per essere invocati, più o meno coscientemente, al fine di compensare la mancanza di validità delle rivendicazioni.
In quest’ottica si inserisce, a pieno titolo, l’assedio (che nella pratica è un abbraccio, metaforico e fisico) con il quale i manifestanti circondano la sede dell’Acquedotto Pugliese, simbolo della rivendicazione territoriale. E se i mille colori sono il paradigma delle mille anime che, fin dal suo nascere, animano i movimenti in difesa dell’acqua pubblica, le mille voci intervenute nel momento di riflessione comune sono il racconto (dalla Sicilia alla Lombardia) di quanto la capacità di mescolarsi, narrandosi reciprocamente esperienze e percorsi politici, sia uno degli elementi di assoluta ricchezza che alimenta questo movimento.
Lanciata dal Comitato Pugliese Acqua Bene Comune, dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e dagli Studenti per l’Acqua, la giornata di mobilitazione di sabato si caratterizza per la capacità di riuscire a tenere insieme la portata generale della rivendicazione (in questo senso è tappa intermedia verso il 26 Marzo, altra giornata di mobilitazione nazionale) con il dato immanente ad essa collegata. Ci continua a narrare dello straordinario percorso (due si per l’acqua pubblica) messo in piedi per contrastare le scelte governative di privatizzazione dei servizi idrici, e contemporaneamente ci parla dell’elemento programmatico, collegato alla vertenza generale, elemento di vertenza nei confronti della regione Puglia. Si richiede che, come più volte promesso, il consiglio regionale approvi il disegno di legge che pubblicizzi l’Acquedotto Pugliese (allo stato attuale è si una s.p.a a totale partecipazione pubblica ma che, proprio in quanto s.p.a., risponde alle regole del diritto privato e del profitto).
Ripercorrendo velocemente la vicenda, si coglie l’elevata portata potenziale della sua rivendicazione e forse, proprio per questo, i frequenti tentennamenti. Oggetto di un interessante esperimento di ingegneria amministrativa, intorno al disegno di legge preparato con la partecipazione del Comitato “Acqua bene Comune Puglia” si sono manifestanti intenti e atteggiamenti altalenanti, complice l’intervento di una sentenza della corte Costituzionale in materia e della non univocità degli indirizzi in regione.
Tra frenate ed improvvisi balzi in avanti (recentissima è la definizione del titolo della legge da parte della commissione competente e la ribadita volontà di convocare il Comitato acqua bene Comune per definire la querelle in tema di emendamenti) la sua approvazione appare nodo fondamentale almeno per un paio di considerazioni. Nel disegno di legge stesso si prevedono forme di intervento, nel controllo della gestione del servizio idrico pugliese, da parte delle associazioni competenti in materia; e inoltre l’approvazione del ddl, proprio in questa importantissima fase di rilancio della prospettiva referendaria, confermerebbe che, in ultima analisi, l’unico elemento ostativo rispetto a politiche normative di ripubblicizzazione della gestione dei servizi idrici sia rappresentato dalle volontà politiche, più o meno palesi, delle varie giunte regionali, spesso drammaticamente indirizzate verso prospettive diametralmente opposte.
Oggetto delle rivendicazioni di sabato 12, accanto alla vertenza territoriale – la richiesta di approvazione del ddl che ripubblicizzi l’AQP – c’è la battaglia più ampia, che rilancia l’obiettivo, concreto e praticabile, del raggiungimento del quorum al (ai) referendum. I numeri, anche qui, rendono l’idea della forza costitutiva del fenomeno (oltre un milione e quattrocentomila firme in Italia, centocinquemila in Puglia). Anche qui il dato quantitativo è arricchito, in maniera esponenziale, da elementi emozionali che guardano ben al di là ed oltre, verso la decisiva “campagna” di fine primavera.
La passione e la costanza dell’impegno dei comitati territoriali – anche qui donne e uomini in carne ed ossa – la relazione istintiva e biunivoca instaurata ad ogni banchetto di raccolta firme sono segnali tangibili di quanto l’obbiettivo concreto sia fattivamente percorribile e di quanto il movimento per l’acqua pubblica appaia portatore di decisive elementi di innovazione di codici comunicativi e politici.
Riscontriamo nella teoria e nella prassi del movimento in difesa dell’acqua come bene comune la capacità di darsi parole d’ordine che guardino decisamente più in là. L’oltre, nella manifestazione di Bari, è rappresentato senza dubbio dalla volontà di connettere la propria rivendicazione nei confronti del Governo – e non solo di esso – ad altre vertenze che in questa fase “di transizione” appaiono ugualmente fondamentali: decisiva prospettiva referendaria in tema di nucleare, difesa della scuola pubblica, rivendicazione del diritto alla formazione universitaria, diritto alla casa (a Bari erano presenti diverse realtà autorganizzate che si muovono in questo senso) e molto altro ancora.
Anche la provincia di Taranto coglie la necessità di collegare le proprie vertenze territoriali al corteo in difesa dell’acqua pubblica . Testimonianza ne sono la numerosa presenza delle cittadine e dei cittadini che da mesi si mobilitano contro le pericolosissime discariche presenti nel territorio Ionico e, più in generale, per una politica virtuosa in tema di gestione dei rifiuti, e la presenza del Comitato di Sanità pubblica di Sava.
Logico interrogarsi, a questo punto, sulle ragioni per le quali il movimento in difesa dell’acqua come bene comune, fino a questo momento, ha praticato il tema della vittoria in maniera consapevole, e, per molti aspetti, sorprendente (un dato su tutti: il numero delle firme raccolte rappresenta il dato più elevato rispetto a tutte le altre esperienze referendarie italiane).
Una prima interpretazione, in qualche modo ontologica, evidenzia come, in fin dei conti, siamo inconsciamente e istintivamente legati a tutto ciò che è acqua, in ragione dell’assoluta rilevanza nella costituzione del nostro corpo e dalla circostanza per la quale, in ultima analisi, nell’acqua si è creata la vita.
Poi la battaglia generale in difesa dell’acqua, e più in generale intorno ai beni comuni, è capace di dare cittadinanza ad una percentuale di popolazione, tutt’altro che marginale, che alla retorica della costante delega e del perenne riflusso risponde con la ricerca, costante e metodica, di modalità per dare risposte collettive alle proprie esigenze personali. In tema di beni comuni, certo, ma anche in tema di rapporti personali, del desiderio di condividere e contaminare i propri desideri e i propri bisogni con chiunque ne possegga di simili.
E, in ultimissima analisi, l’acqua risulta essere un paradigma. In questo senso è un modo nuovo di stare insieme, di ritessere rapporti solidali a partire dalle proprie comunità. Indica la volontà di riprendere discussioni e confronti, nei quali il retroterra culturale e politico di ciascuno dei protagonisti ha valenza nella misura in cui risulta capace di essere elemento di ricchezza per tutti, al di fuori di ogni possibile rivendicazione particolare, come singolo o gruppo organizzato.
E la gente dell’acqua, in fin dei conti, diverse vittorie le ha già praticate. Ci insegna come ampiezza, consistenza e radicalità delle rivendicazioni possano essere, in Italia, in Puglia e a Taranto, prassi attraversabili da percentuali elevate e crescenti di cittadine e cittadini.
In questo senso, i vari comitati territoriali, sorti pressoché ovunque, non rivendicano in maniera astratta la necessità che l’acqua torni pubblica, non solo. Avvertono come spesso anche il pubblico, rispetto ai destinatari dei servizi – le cittadine e i cittadini – appaia come qualcosa di distante, lontano, disinteressato. Attento a logiche che appaiono poco concordi con criteri di accessibilità e bassi costi. Provando ad uscire dalla pericolosa dicotomia pubblico-privato, pretendono che ne vengano attuale forme di gestione comune. Aperte, condivise, partecipate. Che vedano le comunità locali al centro dei meccanismi decisionali in materia di progettazione dei servizi, erogazione degli stessi e programmazione dei costi.
E questo elemento di assoluta rottura rispetto alle ipotesi, spesso fallimentari, di perenne e sterile difesa si accompagna e si lascia attraversare da un immaginario che risulta accattivante, intuitivo. Che nella forme appare fresco ed agile, proprio in quanto capace di rappresentarsi in maniera conflittuale sul tema dell’ampiezza delle rivendicazioni, e non su quello dell’apparenza.
Perché, in fin dei conti, l’acqua – e i movimenti ad essa collegati – tracciano una possibile strada, una rotta, un percorso. Ci parlano del nostro rapporto con l’altro, e con gli altri. Di quanto la pratica della reciproca contaminazione sia l’unico modo efficace di stare insieme. Del modo nel quale è possibile ritornare a parlarsi in maniera corale. Ci parla del nostro rapporto con il nostro territorio, con le nostre genti. Ci parla del nostro modo di occuparsi del nostro futuro, della nostra vita. Ci parla di noi.