di Filippo Bovo
Parto subito con una doverosa premessa: questo è un articolo scritto fuori dai denti da una persona che non ritiene d’avere la verità in tasca e basato solo su dei semplici dati di fatto che esistono e di cui dobbiamo prendere atto indipendentemente dal fatto che ci piacciano o meno.
Non ho mai creduto agli interventi umanitari e alle guerre giuste e, d’altronde, anche coloro che tuttora vi credono forse farebbero bene a cominciare ad avvertire qualche dubbio se è vero che in Afghanistan, tanto per fare un esempio, le vittime civili oggi sono il doppio di dieci anni fa e in Kosovo i Serbi, a seguito di una polizia etnica al contrario, sono calati dagli iniziali 360mila a meno di 60mila unità. Non vedo dunque il motivo per cui in Libia, magicamente, tutto dovrebbe andare bene quando fino ad oggi nel resto del mondo le guerre umanitarie hanno solo contraddetto, coi loro infausti esiti, l’aggettivo con cui vengono chiamate.
Sappiamo tutti quanti più o meno bene cos’è successo in Libia nell’ultimo mese, a partire dal 15 febbraio. Dapprima una protesta in Cirenaica soffocata nel sangue; quindi i cecchini del regime che sparano sulla folla presente al funerale, provocando un unanime sdegno popolare che è alla base della sollevazione di tutta la regione orientale contro le autorità della Jamahiriyya [il regime politico in vigore nel paese]. Proprio quest’ultimo fatto ha destato i miei sospetti, portandomi a pensare all’azione di elementi deviati che agissero allo scopo di provocare un’insurrezione contro il regime. In fondo si tratterebbe di un copione già visto con la rivolta di Timisoara del 16 e 17 dicembre 1989, che provocò la caduta di Ceausescu in Romania. All’epoca finti agenti della Securitate spararono contro gli ungheresi e i romeni e si parlò di 4000 morti; salvo poi scoprire che tale bilancio era una bufala perchè i “rivoluzionari” andavano a prelevare i cadaveri dai cimiteri e dagli obitori delle città vicine per spacciarli come vittime della repressione. Si trattò del primo caso di “rivoluzione mediatica” e pare che anche la Libia corra sulla stessa scia, con foto di cimiteri spacciati per fosse comuni e bombardamenti contro i manifestanti in piazza smentiti poi dalle riprese satellitari. Allora come oggi i media, più che da informatori, fanno da agitatori politici con Al Jazeera in testa.
Non importa. Conta solo il fatto che, a partire dal 17 febbraio, in pochi giorni la Cirenaica è finita quasi tutta sotto il controllo dei ribelli, i quali sfoggiavano migliaia di bandiere senussite cucite per l’occasione (da dove venivano tutte quelle bandiere? Chi le aveva cucite? Siamo sicuri che non fossero già pronte da qualche giorno? Il che mi porterebbe a rafforzare l’ipotesi che le sparatorie dei cecchini contro il funerale facessero anche loro parte del “piano insurrezionale”) e armi non soltanto provenienti dai depositi dell’esercito libico ma anche di provenienza americana, giunte attraverso il confine egiziano. Gli esperti di strategia militare americani, inglesi e francesi sapevano benissimo che il livello d’addestramento ed organizzazione dei ribelli non sarebbe stato tale da consentir loro di resistere ad una controffensiva da parte del regime. Hanno dunque aspettato che i ribelli arrivassero fino a Tripoli, a poche centinaia di metri dal quartier generale di Gheddafi a Bab Al Aziziya, ben sapendo che quando il regime avrebbe avuto abbastanza mercenari e volontari per respingerli essi si sarebbero ritrovati letteralmente nella merda. A quel punto i ribelli, che fino ad allora avevano chiesto solo aiuti militari e coperture politico-diplomatiche dall’esterno, sarebbero stati costretti ad accettare l’intervento straniero divenendo così burattini nelle mani di Obama, Cameron e Sarkozy.
Sappiamo benissimo che se Sarkozy appoggia i ribelli di Bengasi non lo fa certamente per umanitarismo, dal momento che il 14 gennaio scorso stava per mandare un contingente in aiuto al traballante Ben Alì (non in aiuto ai tunisini in rivolta, ma al regime in agonia: avete capito benissimo. E questo semplicemente perchè Ben Alì garantiva gli interessi francesi in Tunisia, alla faccia dei diritti umani). Sappiamo benissimo che se gli Stati Uniti lanciano contro Tripoli, Zuwarah, Bengasi e Misurata 112 missili Tomahawk dal valore di 1 milione di dollari ciascuno (112 milioni di dollari bruciati in poche ore) non è di sicuro per beneficenza, e non soltanto perché tra gli obiettivi colpiti c’è pure un ospedale. Alla coalizione franco-anglo-americana la guerra di Libia costa 2 miliardi di dollari al giorno e solo un povero ingenuo potrebbe davvero credere che si spenda tutto quel denaro solo in nome della bontà umana (anche perchè, di bontà e umanitarismo, ne avrebbero molto bisogno anche i cittadini dello Yemen, del Bahrain, della Mauritania, della Costa d’Avorio, del Gabon, ecc). In realtà tale spesa è un investimento in vista di un grande ricavo rappresentato dal petrolio libico e dalla possibilità d’impiantare in tale paese, a 41 anni dalla loro chiusura, nuove basi militari. Inoltre satellizzare la Libia significa anche sbarazzarsi di un pericoloso concorrente che da un ventennio buono contende il controllo dell’Africa Nera proprio agli Stati Uniti e alle vecchie potenze coloniali Francia e Inghilterra. I ricchissimi giacimenti petroliferi del Ciad, recentemente scoperti, le risorse della Sierra Leone, lo Zimbabwe, la Nigeria, il Mali, non dicono proprio niente a nessuno?
Dunque, riassumendo: la Libia diventerà un protettorato franco-anglo-americano in cui i ribelli agiranno da tipici governanti da repubblica delle banane (vale a dire i passacarte di ordini e volontà altrui), un po’ come nella Cuba o nella Repubblica Dominicana “liberate” dai marines un secolo fa; da essa partirà la penetrazione euro-americana in tutta l’Africa Nera, finalizzata alla contesa delle sue risorse alle grandi potenze emergenti quali Cina e India; e gli europei dormiranno sonni tranquilli, convinti che si sia trattata di una guerra tanto giusta quanto doverosa ed inevitabile. Occhio, però, perché anche noi italiani pagheremo la nostra parte. I fondi sovrani libici sono stati sequestrati da Stati Uniti, Francia e Inghilterra e quindi anche gli investimenti libici nella nostra economia rischiano di finire nelle mani delle “Tre Sorelle”. L’ENI corre il rischio di venir soppiantata dalle società petrolifere francesi, inglesi e americane e lo stesso vale per tutte le altre imprese italiane operanti in Libia. Anche il nostro export potrebbe subire duri colpi. Proprio tali fatti spiegano la sudditanza dell’Italia, che a Francia, Inghilterra e Stati Uniti mette a disposizione le basi militari, lo spazio aereo e anche gli aeroplani. E’ un modo disperato per farsi concedere qualche briciola, dopo essere stati costretti a salire sul carro del vincitore troppo tardi come nella migliore tradizione sabauda.