di Francesca Razzato
“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da essi che si misura il grado di civiltà di una nazione.” ( Voltaire )
Come osserva Michel Foucault “la strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere” derivano da una nuova tecnologia sviluppatasi tra il XVI e il XIX secolo, caratterizzata da una serie di procedure dedite a controllare, incasellare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili.
Se il XVIII secolo ha inventato la libertà, bene che appartiene a tutti nello stesso modo, la prigione che si fonda sul principio della “privazione della libertà” non poteva non essere la pena per eccellenza, e la più “egalitaria” possibile.
Sempre Foucault descrive la prigione come un apparato disciplinare esaustivo, che deve prendere in carico tutti gli aspetti dell’individuo. La sua azione deve essere ininterrotta, e il suo metodo di azione è la costrizione di una educazione totale, spesso attraverso i meccanismi della repressione e del castigo.
La libertà e il tempo della persona non sono più a sua disposizione, ma imposti entro dei limiti e regolati.
L’isolamento come strumento per la riflessione, il lavoro portatore di ordine e regolarità, e la modulazione della pena a seconda della trasformazione dell’individuo all’interno della prigione, sono i principi cardine del sistema carcerario.
Questa breve ricostruzione delle origini della prigione e dei suoi principi cardine, suggerisce alcuni spunti per l’ attualizzazione e la contestualizzazione della tematica.
Un’ eloquente panoramica della realtà carceraria italiana, pugliese e tarantina si può evincere per esempio dai dati raccolti da Annarita Digiorgio per “Ferragosto 2010 in carcere”. Dati allarmanti. L’Italia è il paese europeo che ha avuto l’aumento più consistente di popolazione carceraria dal 2007 ad oggi. Secondo i dati del ministero della Giustizia i detenuti ammontano a 67.961, a fronte di una capienza di 45.022 posti.
In seguito al provvedimento “svuotacarceri” il numero dei detenuti è sceso a 67.615, a dimostrazione di quanto sia stato fallimentare.
Lo scorso anno sono morti in cella 173 detenuti, dei quali 66 per suicidio.
La regione italiana con il primato negativo è proprio la Puglia. Infatti, sono 4.621 i reclusi nelle carceri pugliesi, a fronte di una capienza di 2.528, e coloro che lavorano sono solo 125.
Dal 1 gennaio 2010 ad oggi sono morti nelle carceri pugliesi 10 detenuti, di cui 6 per suicidio.
La regione, inoltre, non ha tuttora nominato la figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, una figura importantissima, che ha il compito di occuparsi del recupero e del reinserimento sociale, della salvaguardia e della cura della salute, dell’istruzione, del lavoro.
L’esempio del carcere di Taranto è eloquente. I detenuti reclusi sono 619, per una capienza di 315.
L’edificio presenta criticità strutturali rilevanti, con interi settori che attendono ristrutturazione. Il muretto dei colloqui, sebbene sia vietato dalla legge, è ancora eretto ad impedire il contatto tra i detenuti e i propri familiari, e le attività all’interno dell’istituto sono disponibili al massimo per 20 reclusi.
Sotto questi numeri si cela la dignità schiacciata del popolo carcerario e la civiltà dimenticata del popolo “comune”.
E se i numeri rischiano di non trasmettere nella sua totalità e complessità il dramma che essi rappresentano, le testimonianze, invece, poiché ricche dell’esperienza vissuta e dell’emotività dei protagonisti, possono raggiungere la sensibilità di tutti, abbattendo quelle barriere che spesso separano “Noi”, “dall’ Altro”.
Per questo motivo è utile abbandonare le citazioni di saggistica e i dati numerici per raccontare una storia.
E’ la storia di Mario Ghionna, settantacinque anni e lo sguardo puro e brillante di un bambino. Un’intera vita spesa per gli altri, per gli “ultimi” , una vita nel volontariato.
Mario ha trascorso 17 anni nel carcere di Taranto come volontario dell’associazione “ Noi e Voi”. Il suo compito era quello del bibliotecario; il “professore”, come affettuosamente lo chiamavano i detenuti.
La biblioteca è stata per Mario un osservatorio sul carcere e un importante mezzo di interazione con esso. Attraverso essa egli ha potuto comprendere le complesse dinamiche che muovono il “pianeta carcere”, e cogliere le molteplici sfumature della condizione dei suoi abitanti; ma soprattutto essa ha costituito il mezzo delle sue battaglie e la “casa” delle sue conquiste.
Proprio nella biblioteca del carcere Mario, dopo un’accanita battaglia spesso troppo solitaria, è riuscito ad ottenere l’autorizzazione per l’apertura di un patronato, il primo in Italia.
Nella biblioteca ha incontrato i detenuti, le loro storie,le loro esperienze di vita, inevitabilmente si è scontrato con quella che viene semplicisticamente definita “la malvagità”. E dai suoi racconti, dalla storie di questi uomini e donne si percepisce quanto sia complessa l’esistenza umana, e quanto sia fallace la netta distinzione tra bene e male.
La donna che ha scontato 18 anni di carcere per l’uccisione del marito, che lei colse nel momento in cui violentava le figlie.
Il giovane laureando in ingegneria che ha assassinato il padre, per “salvare” la madre dalle sue sevizie.
Il ragazzo che ha perso la voglia di vivere perché denunciato dai suoi stessi genitori.
Il padre di famiglia che ha rubato per dare il “ pane” alle proprie bambine.
Il pescatore innocente, che ha scontato 12 anni per un delitto che non ha commesso e la sua vecchia madre, piegata su un bastone, che estate e inverno,sotto il sole e sotto la pioggia, è costretta a percorrere gli interminabili metri che separano la fermata dell’autobus senza pensilina, da suo figlio.
Storie di uomini e di donne, di assassini, di ladri e di innocenti, storie di chi nella sua vita ha dovuto fare i conti con la sua fragilità.
Storie di chi ha avuto la fortuna di imbattersi in un “eroe solitario” che ha riportato in loro la speranza di vivere e di cambiare, di riscattarsi.
Il giovane che ha assassinato il padre si è laureato in ingegneria in carcere. Gli è stato concesso un permesso speciale affinché potesse tenere nella sua cella un computer, e gli sono stati procurarti libri per portare a termine gli studi.
Il giovane denunciato dai suoi genitori, ha ritrovato la voglia di vivere, dopo il loro perdono. Qualcuno l’aveva confortato e l’aveva spronato a scrivere loro una lettera.
Adesso l’autobus si ferma sotto il carcere e c’è una pensilina che ripara dal sole e dalla pioggia. Nessuna donna o uomo dovrà più percorrere interminabili metri per raggiungere i suoi affetti. Queste sono le battaglie vinte da Mario, e da chi nell’apparato burocratico, non gli ha opposto resistenza e non l’ha intralciato nel suo operato.
Battaglie che hanno restituito a questi uomini e donne una parte di dignità.
Questo significa credere nell’ uomo, anche se esso si manifesta nella sua accezione peggiore, significa credere nella dignità non solo dei reclusi, ma di noi tutti.
La biblioteca del carcere di Taranto è stata trasferita da una stanza spaziosa e piena di luce, ad una soffocante e buia. La finalità che si cela dietro questo trasferimento è ignota.
Ma se l’uomo pensa di avere il pieno controllo delle sue azioni, con corrispettive conseguenze, spesso si sbaglia.
La biblioteca non è alimentata dallo spazio e dalla luce, ma solo dal suo contenuto: i libri.
E se i detenuti vengono privati della luce del Cielo e dello Spazio, proprio come la biblioteca, anche in questo caso i libri sono un alimento indispensabile.
“ Mario, in quanto bibliotecario, mi sa dire qual è il libro più amato dai detenuti?”
Mario risponde senza esitazione: “ I romanzi di avventura.”
Incredibile quanto sia imprevedibile “l’evasione”!