di Francesco Ferri
A poco più di una settimana dall’inizio delle operazioni di costruzione della tendopoli al confine tra la provincia di Taranto e quella di Brindisi – che hanno reso le cittadine di Manduria ed Oria, insieme a Lampedusa e Ventimiglia, elementi centrali di ogni servizio cronaca e paradigmi dell’attuale situazione politica – provare a fare un bilancio della portata del meccanismo in fase di attuazione nel territorio Ionico – e non solo – appare un’operazione assolutamente complessa. Giocano un ruolo determinante in questo senso l’assoluta inorganicità degli eventi che si susseguono con caotica frenesia e la circostanza per la quale chi gestisce l’emergenza – per usare un eufemismo – non è in grado di attuare soluzioni sistemiche.
Appare, comunque, necessario che un’ampia ed articolata riflessione, non solo tra gli addetti ai lavori, si attivi intorno alle vicende del centro detentivo situato nella cittadina del tarantino. L’importanza della tematica in gioco – la persistente e strutturale violazione dei diritti umani – insieme alla drammaticità dei racconti dai quali quotidianamente siamo investiti invocano una presa di coscienza, non solo individuale, intorno ai fondamentali valori in gioco.
Il tema assoluto del dramma funge come inevitabile sottofondo ad ogni tipo di ragionamento intorno alla vicenda della tendopoli e ai suoi meccanismi di funzionamento. Scavando un po’ più in profondità, ci si accorge di quanto in generale non sia tollerabile che in una democrazia che si autorappresenta come compiuta possano esistere frammenti di territorio che, come quello alla periferia di Manduria, risultino essere avulsi da ogni tipo di previsione normativa. Alla tendopoli, edificata con estrema fretta e molta superficialità, è stato associato il fantasioso acronimo di Cai – centro di accoglienza ed identificazione. È allarmante non solo che il Governo abbia la possibilità di arrogarsi il diritto di inventare una situazione giuridica di tale complessità senza che nessuna norma l’abbia prevista, ma anche che si abbia il coraggio di associare la parola accoglienza ad una realtà che, evidentemente, è portatrice di valori assolutamente antitetici. Infine, è interessante sottolineare che in quest’area, incredibilmente, è proibito l’accesso praticamente a tutti: giornalisti, operatori delle associazioni umanitarie e persino istituzioni.
Il quadro politico che palesa il retroterra culturale nel quale sorgono scelte organizzative dal cosi elevato tasso di pericolosità sociale è uno dei pochi elementi dai confini abbastanza delineati. Il Governo appare, dal punto di vista ideologico, contiguo ad ogni delirante quanto estemporanea pretesa della Lega nord, e dal punto di vista organizzativo visibilmente incapace di adottare alcun tipo di politica sistemica, in qualsiasi direzione. Il pericolo sostanziale è che il crepuscolo del berlusconismo sia caratterizzato da frequenti torsioni ideologicamente intollerabili e meccanicamente autoritarie come quella alla quale stiamo assistendo da ormai una settimana.
Il tipo di meccanismo decisionale cosi attuato finisce, inevitabilmente, per essere rigettato nella sua totalità, in ogni sua parte. Ne sono testimonianza prima le vibranti proteste attuate a Lampedusa da migranti e cittadini italiani, spesso insieme; poi le costanti fughe, individuali e collettive, che hanno caratterizzato tutta la settimana di Manduria.
Di certo anche gli organi di informazione, stampa progressista compresa e spesso in testa, hanno giocato un ruolo determinante nella creazione di un immaginario di paura e diffidenza. Il riproporre stancamente gli stessi schemi interpretativi, l’evitare di cercare spunti di riflessione nuovi e più in generale il pensare che ogni modello debba essere necessariamente come il precedente (Manduria come Lampedusa) e che basti conoscere una realtà per conoscerle tutte sono pratiche che ostacolano, in maniera forse definitiva, la possibilità che vicende cosi drammaticamente intense possano essere l’occasione per ripensare ad una comunità e al suo rapporto con il resto del mondo.
Eppure di spunti di riflessione ne restano ancora tantissimi. Ad esempio, a partire dalla cruciale tematica della mobilità. Lo spostarsi, la necessità di porre altrove la propria dimora, è un’esperienza che ha connotato il territorio pugliese e risulta elemento imprescindibile, dal punto di vista storico, per conoscere il passato di questa Regione, e quindi anche il nostro presente. Appare anche la caratteristica che ha contribuito, in maniera decisiva, a fare della Puglia un territorio culturalmente vivace ed incredibilmente assortito.
Oltre a quanto già scritto, gli elementi di riflessione dentro ed intorno le vite dei migranti in transito a Manduria ci pongono questioni che parlano direttamente alle nostre comunità.
Se il contatto diretto delle fasce di popolazione intimorite dalle possibili “invasioni” di tunisini con mediatori culturali ed associazioni di migranti ha contribuito a scardinare, in gran parte, i fenomeni di diffidenza, una domanda, tra le tanti, almeno fino ad oggi, appare drammaticamente irrisolta. È tollerabile che, proprio nella Regione geograficamente protesa verso mondi lontani, vengano costruite strutture di detenzione coatta, in assenza di ogni tipo di previsione normativa e in sistematica violazione dei diritti umani? Dalle risposte a questi interrogativi passa il futuro dei migranti catapultati a Manduria e delle comunità investite da questo fenomeno, ancora ondeggianti tra ancestrali paure e voglia di abbracciare.