di Salvatore Romeo (’85)
Il tutto è riconducibile all’uno. Così teorizzava il filosofo di Stoccarda. E l’”uno” di Mino Palata è il quartiere Italia-Montegranaro. Il suo fulcro via Calabria 75.
In un trilocale più servizi Mino, il Generale – suo padre – e Liliana – madre di origini milanesi ma sradicata da così tanti lustri da aver perso ogni inflessione lombarda – trascorrono giornate simili a tante famiglie del siderurgico tarantino. Il filo conduttore delle loro vite è un comune destino fatto di stenti, telefonate improvvise, turni notturni massacranti, pelle arsa e sottile come carta velina. E quel vuoto incolmabile negli occhi di chi affronta la morte ogni giorno, mascherata nei modi più bizzarri, senza lamenti: alla strenua di una condanna da scontare e per cui ci si è professati colpevoli. “L’ILVA ne dà u pane, Mì. U’ rest so’ puttanat’. Se non hai provato i turni massacranti di un’acciaieria, i turni dei “prima linea” è anacronistico parlare di sofferenza”, direbbe il generale.
Ma quello di Cosimo Argentina, bravo scrittore tarantino trapiantato in Brianza, non è un libro interamente dedicato alle “morti bianche”. Lo è soprattutto. Attraverso gli occhi disincantati di Mino Palata viene svelata la “vera Taranto”: quella dei “prima linea” dell’ILVA e della Cementir , dei pescatori e dei “fatiatòrǝ” ma anche quella dei “ricottari”, dei piccoli malavitosi, dei “rattusi”. Poi ci sono loro, gli imboscati: gente che ha disdegnato o a volte dismesso la tuta verde degli operai, preferendole pance e cravatte tali da mozzare il respiro.
Qui si narra la Taranto “viva”, dolce-amaro racconto dimenticato dalle classi borghesi, strette nelle loro vie di commercio e profumi fatui. Loro questa triste novella non la conoscono o l’hanno dimenticata, celata ai propri ricordi dalle immagini tipiche delle vite di successo. Eh si, perché il più dei professionisti che compongono il tessuto medio-alto della nostra città, ha un “prima linea” nelle precedente generazione che ha combattuto per garantirgli la possibilità di studiare la “quinta gamba del ciuccio”.
Ed è la volontà di “fottere e non di essere fottuti” che spinge i padri famiglia di via Calabria a costringere i figli a studiare, provando a garantirgli un futuro che non sia di lacrime e tumori. Mino Pelata è uno di loro; la sua quinta gamba del ciuccio è la giurisprudenza, il diritto e le leggi. Ma Mino non vuole studiare. Ha voglia di vivere la sua via, di giocare a pallone, di scrivere racconti macabri e realistici; al massimo di “sbulinare” qualche via Polibio: ma studiare no.
La sua Taranto, quella che dal lungomare, giunge a lambire i marciapiedi lastricati del “Borgo”; non è solo afa ed anziani seduti sul ciglio della strada, su sedie di paglia, intenti a carpire l’ultimo pettegolezzo da riferire al fruttivendolo. Perché è così che funziona in tutte le vie Calabria di Taranto: si guarda con efferato cinismo alle altrui disgrazie, per dimenticarsi, almeno per un attimo, delle proprie. E le disgrazie giungono puntuali come piogge a novembre, per chi è costretto a condividere l’aria con un altoforno. Cogola, “Derviscio Dominik”, “Trottola” La Manna, Angelo Cito, Michele Cara, sono solo alcuni dei capo famiglia che, schierati da “prima linea” nella guerra per la sopravvivenza, soccombono alle dure leggi del mercato. “Come del mercato?”, chiederete voi. Quando un argano crolla con il suo carico di ghisa per il cedimento di una catena di scarsa qualità, quando una cascata d’olio bollente investe un manutentore di un laminatoio a caldo mentre le protezioni in metallo non sono state previste, quando un pezzo d’acciaio precipitando si insinua nella mite esistenza d’una famiglia colpevole di povertà, in un altro angolo di Mondo ci sono padroni, uomini fatti della stessa carne dei primi, che perseguono il solo scopo di aumentare i profitti. Un cinque percento di riduzione del costo di sicurezza significa un cinque percento di profitto in più da dividere con gli “shareholders”. Un lavoratore ucciso ed una famiglia in lacrime e povertà, valgono un cinque percento in più di profitto. E per chi mastica caviale e percentuali, il bilancio è positivo.
In seconda battuta, c’è chi rifiuta di combatterla la guerra contro i propri limiti di essere umano. Due le sorti che attendono questi moderni disertori: una “palazzina di parcheggio indeterminato”, meglio conosciuta come “LAF”; l’altra, la peggiore, è la gogna del giudizio del quartiere , della via. Se tenti di sopravvivere, di ritagliarti un altro lembo di esistenza in attesa della condanna definitiva (due mesi di dolori lancinanti in un dozzinale letto di ospedale, a causa di un tumore che ti accompagna, stretto nella sua morsa, nei campi Elisi ), vieni bollato come “infame e ‘mfamone”. E così avviene il miracolo: ti trasformi in spettro agli occhi di chi ti ha confidato, fino al giorno precedente, le paure, le bestemmie e i patemi della vita da operaio.
Argentina in questo suo romanzo non trascura davvero nulla e sull’ intricata tela della realtà tarantina, degna del miglior Monet, pennella con tinte chiaro scure il ruolo di politici e associazioni ambientaliste, ree di sciacquarsi la coscienza di borghesi “ben pensanti” nelle calde onde dello Ionio; la loro unica abilità è di proporre soluzioni preconfezionate ai problemi della città, da “scaldare” nei loro tecnologici microonde.
Non svelerò il finale del libro ma lascio l’onere ed il piacere ai lettori di farlo. Vi svelerò solo un piccolo particolare: come accade nella vita “reale” tarantina, per chi abita nelle “via Calabria” tarantine, di lieto fine non v’è traccia.
E questo, in fondo, anche per colpa nostra.