di Francesca Razzato
La volontà di Nekrosius di conferire ai personaggi della sua Commedia un aspetto contemporaneo e reale appare chiaro sin dalla prima apparizione del protagonista.
Il personaggio Dante indossa una casacca rosso carminio ( il colore lontanamente ricorda quello della più nota veste del Dante poeta impressa sui libri scolastici) e un jeans nero che potrebbe appartenere al nostro vicino di casa, o al nostro fidanzato. Dunque il primo esercizio mentale ed emotivo a cui il regista ci sottopone è quello di dimenticare la figura del Sommo Poeta che si era sedimentata nel nostro immaginario collettivo; quello che Nekrosius ci propone non è solo un esercizio di forma, ma anche di sostanza.
Il Dante che si prospetta davanti perde l’aura della gloria poetica accumulata nei secoli (corona d’alloro compresa), e potrebbe essere uno spettatore qualsiasi del pubblico, preso dalla ricerca spasmodica della risoluzione dei problemi della propria esistenza e della realizzazione dei propri sogni.
In questo percorso di ascesa si colloca la figura di Virgilio. E che nessuno se lo immagini come rappresentazione della “scienza umana”, come saggio maestro e guida, così come la tradizione scolastica medievale vorrebbe! Il Virgilio di Nekrosius è per Dante un amico, un compagno di avventure, uno con cui spartire le emozioni, così come accade a noi nella vita; solo l’impermeabile da detective gli conferisce un aspetto vagamente più autorevole, che però viene spesso tradito dalle sue movenze.
E Beatrice, l’intoccabile ed eterea “donna angelo” stilnovista che rappresenta la “scienza divina” e che condurrà Dante nel suo percorso verso la salvezza? Nella rappresentazione di Nekrosius appare palpabile, e in alcuni tratti carnale, nonostante il casto abito bianco che indossa. Sembra privata del connotato divino che per secoli la tradizione umanistica le ha attribuito.
E Dio che fine ha fatto? In questo la Divina Commedia del regista appare sotto una veste assolutamente nuova e insolitamente “laica”. Se la Divina Commedia è per la tradizione un itinerario della mente in Dio, e lo stesso Dante autore colloca se stesso in questo viaggio di ascesa verso la salvezza, il Dante di Nekrosius non appare mosso da alcuna spinta celeste, ma piuttosto dalla sua capacità di autodeterminarsi.
Aspetto interessante e in linea con i connotati sopra descritti dei personaggi è la scenografia: nera, e completamente neutra. Lo spunto che il regista offre al suo pubblico è in linea con le scelte stilistiche dell’intera rappresentazione: in quello sfondo nero possiamo immaginare e disegnare le nostre esistenze, così come fanno Dante, Virgilio e Beatrice.
Ma la splendida tessitura dei personaggi non è sufficiente a rendere l’abito dell’opera piacevole da indossare. Nekrosius, nel suo processo di attualizzazione, dimentica irrispettosamente i motivi per cui Dante autore intraprese la scrittura dell’opera, e la snatura.
La prima e seconda cantica, che nella descrizione dantesca appaiono caotiche e spaventose, nella rappresentazione del regista si presentano statiche e quasi prive di connotati orridi. I personaggi, anche quelli più autorevoli, sembrano essersi materializzati da una farsa plautina, e appaiono comici e grotteschi. A questo si aggiunge la lunghezza della rappresentazione e la difficoltà di seguire un’opera in una lingua sconosciuta, con il solo aiuto dei sottotitoli – che, più di essere di ausilio, costituiscono un elemento di distrazione.
Per questo, poco prima dell’inizio della rappresentazione del Purgatorio, è impossibile contenere il desiderio di andar via, e non pensare con nostalgia a quei tempi in cui nei teatri ci si recava muniti di ortaggi e tanto senso critico.