di Vincenzo Vestita
L’occasione dell’incontro (sarebbe meglio dire garbato scontro) è stato un seminario di Italianieuropei, la fondazione di cultura politica del “baffetto” della politica nazionale Massimo D’Alema, tenuto a Roma all’inizio di questo mese. Protagonisti Mario Monti, Presidente del Consiglio investito del gravoso compito di salvatore della Patria, e Joseph Stiglitz, statunitense, economista di fama mondiale, premio Nobel per l’economia. Oggetto del contendere: le politiche di austerity che l’Europa a trazione tedesca sta imponendo a tutti i paesi membri, soprattutto ai cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Succede quindi che ai richiami (quasi una tirata d’orecchi) del Nobel Stiglitz sulla nuova riforma del mercato del lavoro, per cui “dopo la riforma del lavoro negli Stati Uniti la condizione del lavoro giovanile è peggiorata. Un mercato del lavoro flessibile non risolve i vostri problemi ” il buon Mario, non potendo rivolgersi al suo interlocutore con l’abituale saccenza e superiorità di cui spesso fa sfoggio insieme al ministro Fornero, non ha potuto fare altro che ammettere di “non aspettarsi troppo da riforme strutturali come quella del lavoro”. Sono letteralmente saltato sulla sedia.
Ma se una pesantissima riforma, che interessa milioni di lavoratori, viene portata avanti con assoluta pervicacia (e con l’assenso di larghissima parte delle forze sindacali e politiche, anche quelle che storicamente trovano consenso tra coloro che questa riforma, insieme a quella previdenziale, la subiscono) e i cui effetti non solo non vanno nella direzione della crescita ma impattano pesantemente anche sul lavoro giovanile, come rimarcato da Stiglitz, una domanda mi viene spontanea: a chi giova? Sarebbe utile quindi cercare di capire qualcosa di più di questa riforma e provare ad immaginare gli effetti che quest’ultima potrebbe avere sulla forza lavoro del più grande stabilimento siderurgico d’Europa.
Uno degli aspetti più importanti della riforma del lavoro “Monti-Fornero” è lo svuotamento materiale dell’articolo 18. Fino ad oggi infatti il principio fondante su cui poggiava tutto il sistema era quello per il quale se un licenziamento veniva giudicato illegittimo, il lavoratore aveva diritto ad essere reintegrato nel proprio posto di lavoro, per cui le motivazioni addotte dall’impresa per il licenziamento, una volta giudicate illegittime, decadevano. Con la nuova riforma invece le motivazioni del licenziamento, anche se ritenute illegittime, continuano a valere e servono a porre un discrimine alle tutele alle quali i lavoratori possono o non possono accedere. Il reintegro sul posto di lavoro diventa un caso “estremo e improbabile” per citare lo stesso Monti poiché alle imprese viene data la possibilità di scegliere la motivazione che rende più agevole e “sicura” la possibilità di licenziare. La nullità del licenziamento viene mantenuta, secondo le tutele già esistenti, esclusivamente per i licenziamenti discriminatori (per motivi di sesso, razza, credo religioso, politico, sindacale, ecc), già oggi piuttosto rari (la CGIL Toscana li ha quantificati come l’1,2% del totale dei licenziamenti ritenuti illegittimi nel 2011) e per i quali l’onere della prova (difficilissima) spetta al lavoratore. Nel caso di licenziamenti di natura disciplinare il ddl Monti-Fornero prevede il reintegro esclusivamente in tre casi (già stimati dal giuslavorista Piergiovanni Alleva in un decimo del totale) ossia 1) qualora sia accertato che il fatto imputato al lavoratore non sussiste o 2) che il lavoratore non l’ha compiuto o ancora 3) qualora il contratto preveda esplicitamente che quel fatto debba essere punito con una sanzione minore. Nelle altre ipotesi, anche nel caso il giudice valuti ingiustificato il licenziamento, non può ordinare il reintegro ma è obbligato a disporre un indennizzo; scritta in questo modo la norma non è altro che un “invito a provarci” per le imprese. Il reintegro per i licenziamenti per motivi oggettivi (di solito economici od organizzativi) sarà possibile solo a fronte della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”: una cosa praticamente impossibile perché sostanzialmente anche in questo caso l’insussistenza dovrà essere dimostrata dal lavoratore. Il motivo oggettivo si prefigura per questo come la corsia preferenziale per disfarsi dei lavoratori indesiderati. La nuova riforma riguarda anche i licenziamenti collettivi, ossia quelli che riguardano un numero di lavoratori superiore a 5 e prevede che un accordo sindacale possa “sanare” i vizi della comunicazione che avvia la procedura di licenziamento collettivo, sostituendo all’obbligo del reintegro in caso di violazione delle procedure, la possibile alternativa tra reintegro e indennizzo.
Un elemento determinante contenuto nel ddl Monti-Fornero è l’obbligo del tentativo di conciliazione unito alla previsione che il risarcimento per il lavoratore che riuscisse ad ottenere il reintegro “non potrà essere superiore a dodici mensilità della retribuzione”. Il protrarsi di un processo oltre i dodici mesi è eventualità tutt’altro che impossibile, che graverà sulle spalle del lavoratore ingiustamente licenziato, scoraggiando dal perseguire la strada del reintegro e spingendo ad accettare la monetizzazione del licenziamento.
Vengono rivisti anche gli ammortizzatori sociali nel loro complesso, ridotti nella loro durata e i cui effetti, sommati alla riforma previdenziale, produrranno effetti devastanti. Per i rapporti di lavoro in essere rimangono la cassa integrazione ordinaria e la cassa integrazione straordinaria per crisi e ristrutturazione. Viene abolita la CIS per cessazione di attività connessa a procedure fallimentari. Abolita anche la CI in deroga, sostituita da fondi di solidarietà bilaterali presso l’INPS.
Per quel che riguarda le tutele in caso di cessazione del rapporto di lavoro, vengono abolite l’indennità di mobilità e le diverse forme di indennità di disoccupazione (ordinaria non agricola, a requisiti ridotti, speciale edile) che confluiranno nella ASPI (Assicurazione Sociale Per l’Impiego) e nella mini ASPI, la cui durata è di 12 mesi (18 mesi per gli ultra cinquantacinquenni). Fino ad oggi i lavoratori che usufruivano della mobilità erano coperti per un periodo di 12 mesi, elevato a 24 per i lavoratori da 40 a 50 anni, e a 36 per gli ultracinquantenni, nel centro nord. Per i lavoratori delle aziende ubicate a sud le coperture, sempre in relazione all’età dei lavoratori, andavano invece da 24 a 36 a 48 mesi. Oltre ad una diminuzione del tempo totale degli ammortizzatori sociali vi è anche una diminuzione dell’indennità percepita.
Il cerchio si chiude con le modifiche introdotte sul lavoro a termine e in somministrazione (ex -interinale) e che fanno, da un lato, emergere il disegno organico di tutta la riforma in oggetto e, dall’altro, squarciano il velo delle dichiarazioni di facciata di una riforma che mitiga la precarietà. Sparisce la necessità di giustificare l’instaurazione del primo contratto a termine in base a ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo, reiterabile ora senza limiti per lo stesso lavoratore, in un’altra mansione o con un’altra impresa. Fino ad oggi l’insussistenza di quelle ragioni che dovevano essere comunicate in forma scritta era motivo di nullità del termine. Vengono eliminati anche i tetti quantitativi previsti dai contratti; in tutti i casi in cui vengano assunti con contratto di somministrazione una platea amplissima di soggetti: tutti i lavoratori percettori di ammortizzatori sociali da almeno 6 mesi e i lavoratori cosiddetti svantaggi e molto svantaggiati (chi non ha un impiego da sei mesi, gli ultracinquantenni, i privi di diploma superiore, gli adulti soli con una o più persone a carico, ecc). In sostanza al lavoro interinale viene affidato il compito di ricollocare tutti i lavoratori espulsi, nella crisi, dai processi produttivi e impossibilitati ad accedere alla chimera chiamata pensione.
Alla luce di quanto su esposto emerge chiaramente lo spirito di una riforma che, in un periodo di crisi oramai palesemente strutturale e di sistema, invece di aumentare le tutele per coloro che perdono il proprio posto di lavoro, da un lato agevola (se non proprio incentiva) la fuoriuscita dal mondo del lavoro e, dall’altro, rende meno durevoli e sostanziosi gli ammortizzatori sociali. Non a caso quindi Joseph Stiglitz, che conosce bene la situazione europea pur essendo statunitense, ammonisce il nostro Presidente del Consiglio sul fatto che questa riforma, unita alla politica di austerity, produrrà effetti nefasti.
Ho imparato che uno degli indicatori economici più importanti di una azienda è l’utile per addetto. Nell’anno dei record produttivi, il 2007, questo indice per il gruppo Riva ha raggiunto gli oltre 42.000 euro. In sostanza rappresenta una semplice frazione tra gli utili generati nell’anno preso in esame e il numero di addetti di un’azienda effettivamente impiegati per quell’anno. Se il numeratore di questa frazione è una variabile indipendente (o meglio non completamente dipendente) dalla volontà delle aziende, ma che deve tenere conto degli andamenti del mercato e di altri elementi, il denominatore può essere maggiormente tenuto sotto controllo. Inoltre se il numero di addetti diventa più “flessibile” (in barba al rischio d’impresa) ci sono margini più ampi per avere indicatori economici d’impresa più performanti, scaricando i costi delle variabili indipendenti sui lavoratori (il numeratore aumenta quando diminuisce il denominatore). Se poi teniamo in considerazione il fatto che tendenzialmente il numero di addetti negli anni successivi alla privatizzazione è diminuito in maniera più o meno costante, forse meno di quanto l’azienda avrebbe voluto, non posso che guardare al futuro con qualche preoccupazione. E mai come in questo caso spero di sbagliarmi.