di Cosimo Spada
Lunedì sera io Salvatore Romeo, Domenico Cinquegrana e Roberto Polidori ci siamo girati tutte le sedi dei comitati elettorali per farci un’idea di chi avrebbe vinto, chi perso e che cosa ci saremmo dovuti aspettare dal giorno dopo. Lo abbiamo capito subito cosa ci saremmo dovuti aspettare, ed è dal giorno dopo che abbiamo tutti uno strano dolore nelle parti basse dei nostri corpi, che per mero pudore io non citerò.
Mentre ci aggiravamo per una Taranto all’apparenza dormiente, ma invece molto sveglia, pensavo a quanto le sconfitte abbiano pesato sulla mia vita e sulle scelte musicali: dopotutto questa sarebbe una rubrica musicale, mica vi aspettereste da me l’analisi della situazione politica tarantina!? Da che l’adolescenza, col suo carico di ormoni e peli pubici, è entrata nella mia vita io vedo il mondo attraverso la lente della musica, ed è attraverso queste lenti che ho un po’ ragionato sulla politica e sulle sconfitte cui politicamente mi è toccato assistere.
Il rock si basa su alcuni semplici elementi, che messi insieme danno quella scarica di energia musicale e culturale che, anche se con difficoltà, ancora oggi attraversa la nostra vita. Penso alla frustrazione personale che tocca molte delle biografie di artisti celebri della musica: andatevi a leggere qualche biografia di John Lennon, o di Iggy Pop, o Joe Strummer, solo per citare alcuni esempi. Senso di soffocamento, sconfitte personali a volte vere e proprie tragedie personali.
Nella cultura anglosassone se vuoi sminuire qualcuno gli dai del “loser”, perdente: la loro è una cultura molto competitiva, e non giocare per vincere oppure giocare e perdere significa emarginazione. Mica come in Italia, dove tutto gira sulla sfera sessuale, do you remember il Bell’Antonio?
Ma allora cosa fa andare avanti questa gente, cosa li separa dalla scelta di porre fine a quella emarginazione? Ecco che entra in gioco un altro elemento importante del rock: la rivalsa.
Come il voodoo per i morti, il rock resuscita i cadaveri viventi. A volte salva la vita, altre volte è solo un momento di svago dal tuo personale inferno, come successe a Ian Curtis o Kurt Cobain.
Col tempo molti musicisti hanno tentato quasi di nobilitare la condizione del perdente, cercandone di costruire sopra quasi un’epica del perdente. Ad esempio “Loser” di Beck, pezzo del 94, col suo celebre ritornello “sono un perdente baby, perchè non mi uccidi?”. Se però vi volete fidare di questo bullo di periferia piuttosto sfortunello, allora procuratevi L.A.M.F. degli Heartbreakers. Disco del 1977. Il leader della band era il chitarrista Johnny Thunders, un italoamericano che prima degli Heartbreakers aveva militato in un’altra grande band della storia del rock, i New York Dolls. Sfortunatamente, il vizio dell’eroina, e la loro incapacità di governare tutta quella energia, li fece naufragare. E stesso destino toccò agli Heartbreakers: troppa droga, troppo sbandati, L.A.M.F.(che sta per Like a Muther Fucker). Così come per i New York Dolls, anche per gli Heartbreakers il successo sarebbe arrivato molto dopo, quando Thunders era ormai morto stroncato da un overdose.
L.A.M.F. contiene l’inno di tutti i perdenti del mondo, Born to Lose. Potremmo definire questo pezzo come vittimista, se non fosse per il poderoso rock che sostiene il testo: altro che vittismo, questa è una celebrazione della sconfitta! Il disco è un susseguirsi di piccole perle di disperazione sorrette dal punk rock e dai reef di Thunders che non ti fanno rimanere seduto per un attimo. Johnny sarebbe sopravvissuto a quel disco per altri 14 anni cercando di andare avanti, anche se con scarsi risultati fino alla pera definitiva. Quanta cazzo di vitalità in un tizio che moriva ogni giorno.
Mentre scrivevo questo pezzo ascoltavo
A Classic Education, Call it Blazing, 2011;
Albano Power, Maria’s Day, 2009;
Bon Iver, For Emma Forever Ago, 2008