di Vincenzo Vestita
Molto è stato detto e scritto sulla giornata tarantina del 30 Marzo 2012. L’attenzione che i media nazionali hanno riservato al rapporto conflittuale tra ambiente, salute e lavoro – che la situazione del nostro territorio esemplifica in modo estremamente plastico – è stata ben riassunta dal breve reportage di Alessandro Sortino andato in onda il 5 aprile su La7 nella trasmissione Piazza Pulita che, al netto di qualche piccola (e trascurabile) imprecisione, ha ben fotografato la giornata, inserendola nel quadro generale. Le immagini televisive sono state per me molto importanti, direi fondamentali, perché senza non avrei avuto una rappresentazione diretta di quello che è successo fuori dalla Fabbrica quel venerdì. Io posso riportare, per esperienza diretta in un paradossale gioco dei ruoli a parti invertite, la mia giornata vissuta dentro il perimetro della più grande acciaieria del continente. Se dovessi scegliere una coppia di parole per racchiudere questa strana esperienza userei “silenzio irreale”. Lavorare per oltre 10 anni in un posto che ha un suo”respiro”, il rumore degli impianti in marcia, il via vai delle auto e dei furgoni, dei mezzi pesanti, i passaggi a livello che si alzano e si abbassano in continuazione per permettere lo spostamento dei carri siluro incandescenti e fumanti o delle trenate di coils, e poi ritrovarsi in una strana giornata di inizio primavera in cui lo stabilimento sembra caduto in letargo, mantenendo la sua attività il tanto che basta a non pregiudicare gli impianti stessi, ridefinisce i parametri di qualcosa che credevi di conoscere bene.
La “marcia degli 8.000”, come è stata battezzata da molti, ha rappresentato l’atto conclusivo di qualcosa che in realtà ha iniziato a muoversi nella pancia del gigante d’acciaio, con intensità crescente, almeno 20 giorni prima. La “missione fuori porta” dei “150 lavoratori” dell’ILVA striscione-muniti all’aeroporto di Bari per l’incontro tra Clini, Vendola, Stefàno e Florido è stato in qualche modo il trailer del remake di un famosissimo kolossal prodotto dalla FIAT, regia di Cesare Romiti, degli anni ’80 (e di cui ho parlato la settimana scorsa), con molte differenze e qualche analogia. Partiamo da queste ultime. L’organizzazione di una manifestazione di siffatta portata non può essere improvvisata, in special modo quando si opera affinché dallo stabilimento esca la quasi totalità della forza lavoro. Le informazioni sulla marcia “per difendere il nostro posto di lavoro barattato nelle aule dei tribunali” viaggiavano attraverso una serie di volantini, affissi praticamente ovunque, anche nelle ordinatissime bacheche aziendali (normalmente chiuse e inaccessibili, la cui chiave è a disposizione solo di alcuni capi all’interno dei vari reparti), oltre che attraverso le informazioni recepite direttamente “dall’alto”. Piuttosto strano per una manifestazione spontanea di lavoratori preoccupati… tanto strano che, quantomeno tra gli operai, nei giorni precedenti e fino alla stessa mattina del 30, non sapevano spiegarmi le ragioni di quella manifestazione, con parole e concetti che andassero oltre le frasi fatte preconfezionate. La risposta più comune che mi veniva opposta è stata “per difendere il nostro posto di lavoro” ma bastava che io controbattessi “ma da chi?” per mettere in difficoltà la maggior parte dei miei colleghi. Per alcuni “Bast ca ni paijn” era il modo per troncare con eleganza francese la discussione. Già, l’importante è che ci paghino la giornata. E questa bella manifestazione non è stata certo a buon mercato. Non riesco a quantificare con precisione quanto possa essere costata una cosa del genere; a naso, calcolando 80/90 euro (tra paga netta e contributi) per ogni lavoratore che ha lasciato le sue mansioni per uscire dalla fabbrica a manifestare a difesa del suo posto di lavoro, moltiplicati per i circa 6.000 lavoratori diretti ILVA, fanno mezzo cuccuzzone di euro. La mancata produzione e delle attività di manutenzione del primo turno di un venerdì potrebbe ammontare anche ad un altro mezzo cuccuzzone di euro (a tenersi molto ma molto bassi). Senza calcolare i pullman esterni, gli striscioni (pare “made in ILVA”), le trombette e i fischietti, perché non ho la certezza di chi li abbia materialmente affittati o acquistati; probabilmente “il tecnico del tubificio” (il fantomatico organizzatore della manifestazione, per i lavoratori dell’area a caldo) o “il tecnico dell’acciaieria” (il fantomatico organizzatore della manifestazione, per i lavoratori dell’area a freddo). Nessuna assemblea è stata fatta, neanche tra gruppi ristretti di lavoratori, per discutere sulle ragioni, sulle finalità e sulle modalità di svolgimento della manifestazione, come ha fatto intelligentemente notare ed emergere il “rosso” Sortino nel suo servizio. Pur volendo credere, in mancanza di certezze assolute, che la manifestazione sia stata “lanciata” e organizzata da qualche solerte collega (con moltissimo tempo a disposizione) preoccupato dalla possibilità che le perizie commissionate dalla procura della Repubblica mettessero in qualche modo a rischio il suo salario, non si può dire certo che sia stata una manifestazione “all’insaputa” (va piuttosto di moda in questo periodo) dell’azienda vista la quantità di “risorse” che quest’ ultima vi ha investito. All’appello mancano 2.000 lavoratori, quelli dell’appalto. Anche loro hanno sfilato con giacche arancioni linde e stirate (così almeno mi è parso di vedere dalle immagini televisive e dalle fotografie che sono circolate), con i marchi delle loro ditte stampate e bene in vista. Di solito nello stabilimento, in particolar modo i lavoratori delle ditte più piccole, fai fatica a distinguerli dal resto dello scenario industriale per quanto sono sporche le loro tute. Non ho neanche la sicurezza che a questi lavoratori sia stata retribuita in qualche modo la giornata del 30 né tantomeno ho idea di come siano stati organizzati (o si siano organizzati) per partecipare alla marcia. Gli striscioni e i cartelli sono stati abbandonati frettolosamente, come nella marcia dei 40.000 del 1980 a Torino, questa volta non per un imprevisto lancio di qualche monetina ma per un tanto particolare quanto curioso concetto di ecosostenibilità. Fin qui le analogie.
Le differenze tra la marcia del 1980 e quella del 2012 sono molte e soprattutto profonde. Innanzitutto le ragioni per le quali sono state organizzate. La Fiat aveva la necessità di “spezzare” il fronte comune (con ampi pezzi della società civile) che si rafforzava giorno per giorno attorno agli operai attaccati ai cancelli della fabbrica (quelli sì che difendevano il loro posto di lavoro). La marcia organizzata dall’azienda dell’auto attraverso i suoi quadri fu l’elemento che, attraverso anche il supporto dei giornali, riuscì a cambiare lo scenario e a capovolgere le sorti dello scontro sociale in atto. Le forze sindacali e politiche (in particolar modo a livello centrale) non ebbero il coraggio di portare lo scontro alle estreme conseguenze e la forzatura di Romiti ebbe successo, determinando il repentino isolamento della classe operaia. La marcia dei lavoratori del siderurgico del mese scorso è stata organizzata con l’intento di “pesare” in qualche modo sull’operato della magistratura che, dopo le rilevazioni del NOE di Lecce, ha aperto d’ufficio un procedimento a carico dei vertici dello stabilimento Ilva di Taranto, con capi d’accusa pesanti, tra i quali anche omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Prova di questo sono i volantini circolati in fabbrica, la data e il posto in cui far convergere i manifestanti (prima che il prefetto rendesse il Tribunale off-limits) e buona parte degli striscioni esposti.
La seconda differenza, la più determinante a mio modo di vedere, si può riassumere in una sigla: FLM. Il movimento sindacale dei metalmeccanici, specie quando è stato particolarmente unito (uno dei motti della FLM era “uniti siam tutto, divisi siam canaglia“), ha sempre rappresentato in Italia il fronte più avanzato e combattivo, quello che più di tutti gli altri ha contribuito alle conquiste di civiltà e di democrazia nel lavoro ma anche quello che ha subito le sconfitte più cocenti e patito le conseguenze più pesanti. L’attuale fase ci consegna invece un fronte sindacale estremamente frammentato e diviso da più di un decennio. Il fronte unico è solo un ricordo lontano, e proprio la sconfitta del 1980 ha rappresentato l’inizio della scomposizione della FLM e di un periodo di difficoltà del sindacato inteso nel suo senso più generale. Attualmente in ILVA su 11.500 lavoratori circa gli iscritti al sindacato sono poco meno di 6.000. Tra gli impiegati gli iscritti sono meno di 10, tra i capisquadra meno di 40. Questo dato è perfettamente esplicativo del fatto che la “linea del comando” è completamente appannaggio dell’azienda o, quanto meno, non è minimamente in contatto con il sindacato. Inoltre per i sindacati ionici la “questione ambientale” non è mai apparsa essere prioritaria, se si considera che in sede di concessione AIA sono sempre mancate proposte organiche delle organizzazioni dei lavoratori.
La riapertura della procedura di concessione dell’Autorizzazione Integrata Ambientale, e l’esito dell’incontro del 17 Aprile a Roma, rappresentano il passaggio determinante per rimettere al centro del dibattito il protagonismo vero dei lavoratori di Taranto. La mattina del 30 Marzo non tutti i lavoratori sono usciti a manifestare durante una bella giornata di sole, a prendersi un bel pezzo di focaccia o un panino per le vie del centro, con la sicurezza di essere comunque retribuiti. Una parte di questi lavoratori, sicuramente minoritaria ma non inconsistente, non è uscita dallo stabilimento, perché non condivideva le ragioni e la metodologia di quella manifestazione attuata contro la possibilità di fare chiarezza sulle condizioni materiali in cui si lavora, chiarezza necessaria per riprogrammare lo stabilimento su basi nuove e moderne, difendendo così realmente il proprio posto di lavoro. Negli sguardi che si incrociavano quella mattina, avvolti dal silenzio degli impianti fermi o condotti al minimo regime, si potevano leggere coraggio, determinazione e consapevolezza. Bisogna unirle alla condivisione, allo studio di una materia che è tanto tecnica quanto fondamentale, nella convinzione che chi lavora in fabbrica ha la possibilità di essere il discrimine tra l’aggravarsi di un problema e la sua soluzione.
Il padrone è il padrone perché conosce 100 parole e gli operai solo 10. Bisogna studiare quindi per imparare 91 parole nuove… iniziamo: AIA, BAT…