Dalla “marcia dei 40 mila”…

di Vincenzo Vestita

Come era ampiamente preventivabile, la giornata del 30 marzo ultimo scorso ha ottenuto un vastissimo risalto sui media locali e nazionali. La “situazione Taranto” rappresenta infatti il perfetto paradigma del periodo storico in cui stiamo vivendo – nel quale dilanianti contrapposizioni, unite a profonde contraddizioni, permeano il Sistema (con la S maiuscola) nel quale viviamo.

I quotidiani hanno titolato, con diverse sfumature,  “la marcia degli 8.000”, riferendosi ai lavoratori dell’ILVA, diretti e indiretti, che hanno sfilato per le vie del centro del capoluogo ionico dopo che il prefetto ha negato (per fortuna) la possibilità per chiunque di manifestare nei pressi del palazzo di giustizia. La prova di forza delle tute multicolore è stata da alcuni comparata tra le righe alla marcia dei 40.000 avvenuta a Torino 32 anni fa. E 32 anni è l’età media dei lavoratori che hanno manifestato per le strade della città dei due mari, con fischietti, striscioni e slogan a “difesa del posto di lavoro”; ritengo pertanto non sia tempo perso riportare alla memoria gli avvenimenti di quel 1980, anno in cui io stesso iniziavo a biascicare le prime parole di senso compiuto ma su cui nel tempo mi sono molto documentato, perché quegli avvenimenti hanno rappresentato senza ombra di dubbio la sconfitta più dolorosa per la “classe operaia” del nostro Paese e l’inizio di quella parabola discendente di cui i giorni che viviamo sono il punto più basso.

Una piccola premessa è necessaria. Nel 1973 la FIOM, FIM e UILM si unirono nella FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici). L’unificazione, seppure mai pienamente organica, fu qualcosa di più di un semplice patto di unità d’azione. La FLM ebbe l’ambizione di rappresentare il punto più avanzato e uno stimolo verso un più elevato grado di unità sindacale.

L’annuncio della FIAT al ricorso alla cassa integrazione per 78.000 lavoratori, l’8 maggio 1980 anticipò di appena 2 giorni la presentazione e il varo della nuova piattaforma rivendicativa, il 10 Maggio 1980, in cui il Coordinamento FIAT della FLM chiedeva un cambio di rotta nella politica industriale dell’azienda attraverso “il rafforzamento quantitativo e qualitativo della ricerca e progettazione, in rapporto alle insufficienti e negative scelte di [quegli] anni“, interventi sull’inquadramento unico per permettere l’intreccio tra le categorie professionali operaie e impiegatizie, l’accorciamento dei tempi di passaggio dal 2° al 3° livello e un aumento salariale di 40.000 lire (poco meno del 10%). La crisi dell’auto era conclamata; i ritmi di crescita tra il 6 e il 10% nel trentennio successivo al secondo dopoguerra si dimezzarono nella seconda metà degli anni ’70 per poi ridursi progressivamente al 2-2,5% negli anni ’80 e diminuire ulteriormente negli anni ’90. La FLM riconobbe le difficoltà della situazione di mercato, denunciando l’impreparazione della FIAT rispetto alla concorrenza, unito al tentativo di esasperare la situazione per sabotare la vertenza sindacale. Il 21 Giugno un’intervista pubblicata da Repubblica all’amministratore delegato della FIAT Umberto Agnelli col titolo eloquente “Ci sono troppi operai in FIAT per reggere la sfida dell’auto” di fatto aprì uno degli scontri più duri e drammatici del nostro Paese. I sindacati accolsero duramente le parole di Umberto Agnelli anche per l’atteggiamento tenuto dalla FIAT nei giorni immediatamente precedenti; Luciano Lama (segretario CGIL) sottolineava il fatto che “fino a quattro settimane fa, dico settimane, la Fiat a Torino assumeva a ritmo impressionante, e si lamentava tutti i giorni di non trovare manodopera…

Nell’incontro che si svolse a Torino il 4 luglio la FLM propose inutilmente alla FIAT misure alternative ai licenziamenti, come la cassa integrazione, il blocco del turn over, i prepensionamenti ma trovò la totale chiusura della controparte. La Fiat da parte sua procedette con una operazione di trasferimenti selvaggi e con il licenziamento di circa 2.000 lavoratori “assenteisti”, in massima parte invalidi ed inidonei. La Fiat considerava assenze tutto, dai ricoveri ospedalieri ai permessi per maternità riconosciuti per legge. Il 31 luglio, alla vigilia del periodo di ferie, la FIAT conferma la volontà di procedere coi licenziamenti a partire da Settembre e annuncia la sostituzione di Umberto Agnelli con Cesare Romiti alla carica di amministratore delegato. Il 5 settembre la FIAT annunciò che vi erano 24.000 lavoratori eccedenti che sarebbero dovuti rimanere a casa fino a dicembre 1981 e di questi almeno 13-14.000 dovevano essere avviati alla mobilità esterna, in sostanza licenziati. Claudio Sabattini (FIOM) a nome della FLM, avanzò la proposta di una cassa integrazione a rotazione che avrebbe dovuto coinvolgere 78.000 lavoratori. Il 10 settembre la trattativa si interruppe e la Fiat annunciò l’avvio della procedura per 14.469 licenziamenti. La risposta operaia non si fece attendere, immediati furono i blocchi e i cortei interni a Rivalta. Il giorno successivo scioperi e manifestazioni di lotta si diffusero in altre città. Iniziò la lotta dei 35 giorni. La FLM proclamava scioperi di 3 o 4 ore ma i delegati e i lavoratori attuarono scelte più incisive portando avanti scioperi di 8 ore e ad oltranza. La FIAT dal canto suo era preparata al blocco della produzione avendo “fatto uscire tutti gli stock di vetture e mandati presso tutti i concessionari; era stato anche  previsto di richiamare in Italia parte delle auto già inviate all’estero” come svelò successivamente lo stesso Romiti. Il 15 Settembre Virginio Gallo, segretario nazionale dei trasporti della CGIL, denunciò che la FIAT aveva fatto sbarcare a Livorno 10.000 auto provenienti dalla Spagna ed altre 15.000 erano in arrivo dal Brasile. Per ostacolare queste iniziative contro gli scioperi degli operai FIAT ci furono iniziative di solidarietà sia da parte sia dei portuali italiani che di altri paesi (i lavoratori di Waterloo in Belgio, agli inizi di ottobre, impedirono l’invio a Torino di 2.300 autovetture). Il 26 settembre il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, si recò davanti ai cancelli della FIAT per parlare con i lavoratori che già da 17 giorni portavano avanti la loro lotta. Il 27 Settembre, grazie al voto di alcuni franchi tiratori, in Parlamento cadde il governo Cossiga.  La Fiat annunciò per il “proprio senso di responsabilità” il rinvio della procedura dei licenziamenti alla fine del 1980 e la messa in cassa integrazione a zero ore per 22.884 lavoratori a partire dal 6 ottobre. Questa decisione portò scompiglio nel movimento sindacale, rafforzando la posizione di coloro che puntavano alla smobilitazione. Le segreterie confederali disdissero lo sciopero generale del 2 ottobre che i lavoratori avevano reclamato con molta passione, puntando ad un raffreddamento della vertenza. Come risposta alle liste di espulsione per 23.000 lavoratori il Consiglione di Mirafiori (la riunione di tutti i Consigli di Fabbrica dei diversi settori) approvò la mozione che conteneva l’immediato presidio di tutti i cancelli e la richiesta alle Confederazioni di proclamare nuovamente lo sciopero generale. D’altronde bastava dare uno sguardo agli elenchi affissi ai cancelli per capire che l’azienda voleva decapitare l’avanguardia delle lotte. Marco Giatti, coordinatore per la FIOM piemontese della FIAT, riassunse sinteticamente i criteri usati per la scelta: “Gli elenchi sono formati da molte donne, molti inidonei, molti delegati e lavoratori combattivi. Vi sono squadre in cui i delegati non ci sono più oppure squadre in cui è rimasto solo il delegato ma gli è stato fatto il vuoto attorno”.  Nonostante i tentativi di pressione verso l’articolazione della lotta da parte di qualche dirigente sindacale, la forma di lotta dello sciopero ad oltranza e del blocco dei cancelli si estese immediatamente a tutti gli stabilimenti FIAT. Fu una decisione  pressoché unanime dei lavoratori, una scelta obbligata per impedire la spaccatura tra chi sarebbe rientrato al lavoro e chi sarebbe rimasto fuori. Dai primi giorni di ottobre davanti agli stabilimenti FIAT prese forma e si animò il “popolo dei cancelli”. I presidi furono consolidati e le tende e le baracche si resero più accoglienti e funzionali. In molte situazioni gli scioperanti si procurarono attrezzature per cucinare. Un pullman in disuso dell’ATM divenne il quartier generale degli scioperanti e la sede di Radiolotta,  collegata con le sedi sindacali, le agenzie di stampa, le radio libere, i radioamatori e che trasmetteva bollettini aggiornati sulla lotta FIAT. L’azienda iniziò ad organizzare assalti ai picchetti, insieme a comunicati stampa con invettive e falsità contro gli scioperanti, denunce e richieste di intervento alle forze dell’ordine denunciando gli operai, rei “…di aver sbarrato i cancelli mantenendo un comportamento serio e risoluto e quindi obiettivamente minaccioso…” (sic!). Col passare dei giorni gli operai della FIAT aggrappati ai cancelli degli stabilimenti diventarono un simbolo per tutti i lavoratori italiani ed europei. Ogni giorno arrivavano a Torino delegazioni di lavoratori e militanti sindacali da altre città e di altre nazioni a portare la loro solidarietà, anche materiale. Ai lavoratori arrivò la solidarietà di vescovi, parroci, intellettuali, istituzioni, uomini politici e tantissima gente comune. La sottoscrizione a supporto delle lotte lanciata dalla FLM raggiunse nei primi due giorni i 700 milioni di lire. Il 10 Ottobre si arrivò, dopo tanta attesa, allo sciopero generale nazionale con grandi manifestazioni in tutte le maggiori città italiane; davanti alla palazzina di Mirafiori per ascoltare il comizio di Benvenuto (segretario generale UILM) si concentrarono oltre quarantamila persone.

Per martedi 14 ottobre Luigi Arisio convocò una assemblea del Coordinamento dei capi ed intermedi FIAT al Teatro Nuovo di Torino. Nei giorni precedenti molti tentarono di segnalare il pericolo che questa manifestazione potesse essere usata contro il movimento di lotta dei lavoratori; in particolar modo negli stabilimenti FIAT diversi gruppi di delegati sollecitarono la FLM ad organizzare una contro-iniziativa pacifica e democratica, ma la risposta fu rassicurante in quanto “non c’era da preoccuparsi per una manifestazione che avrebbe raccolto non più di mille persone“. La FIAT invece organizzò le cose in grande, mobilitando i dirigenti di tutto il gruppo i quali a loro volta avevano impartito ordini ai capi e a catena questi avevano telefonato a casa ai lavoratori più moderati ed opportunisti. I dirigenti avevano organizzato pullman, pulmini, auto per raccogliere tutti i disponibili e predisposto bei cartelli che invocavano il diritto di lavorare. Dal Teatro Nuovo uscì un corteo silenzioso in cui i partecipanti erano organizzati per gruppi, dietro i cartelli dei rispettivi stabilimenti. Durante il corteo furono ripetutamente avvicinati dai giornalisti che domandavano loro le motivazioni della protesta, ma parecchi “…si sentivano rispondere di parlare con quelli che si trovavano in testa al corteo.” Il corteo arrivo in piazza del Municipio dove nel frattempo si erano radunati gruppi di operai e delegati e li “…fu sufficiente un lancio di monetine da parte dei pochi compagni che si erano raccolti per metterli in fuga. Lasciarono sul campo i loro lussuosi cartelli di legno fatti fare dalla FIAT, che io ed un altro compagno raccogliemmo e, opportunamente ridipinti, utilizzammo per ben altre manifestazioni“. La prima stima della questura fu di 10-12.000 partecipanti. La Stampa, il quotidiano di proprietà della FIAT, non senza un pò di pudore, parlò di 30.000 persone, mentre Repubblica titolò con “la marcia dei 40.000”. La notizia giunse a Roma mentre era in corso la trattativa sindacale e dopo l’arrivo delle prime notizie la delegazione FIAT chiese un’interruzione. Al rientro Romiti disse: “Le cose che ci siamo detti fino a questo momento non valgono più perché quello che è avvenuto stamattina a Torino modifica il quadro della situazione. La seduta è sospesa.” Appena terminata la manifestazione dei capi, il procuratore capo Coccia ed il sostituto procuratore Tinti, con un tempismo perfetto, emisero una ordinanza di intervento della Polizia e dei Carabinieri per garantire il libero accesso agli stabilimenti della FIAT, da portare a termine la mattina successiva. Marco Giatti ricorda come “quella manifestazione dei capi ha innescato un meccanismo per cui il sindacato ha ceduto di schianto. Il sindacato e la sinistra sotto l’urto di questa cosa e sotto la minaccia che se nella notte non avessimo raggiunto un accordo la polizia avrebbe sgomberato i cancelli, hanno ceduto. Secondo me si poteva reagire: proclamare lo sciopero generale e in qualche modo pareggiare il conto, ma questa minaccia che Carniti (segretario generale CISL) fece, fu lasciata cadere.” Il contrasto tra i vertici romani del sindacato e le strutture torinesi divennero immediatamente evidenti e lo stesso Romiti le evidenziò a supporto delle sue tesi. Durante la notte, al Ministero del Lavoro, Romiti chiese: “Come lo mettiamo giù questo accordo?” e Lama rispose: “Metta giù lei il testo dell’intesa, dottor Romiti“. La resa fu totale ed incondizionata.

Nel corso degli anni ’80 furono quasi 200 i suicidi tra i lavoratori licenziati dalla FIAT.

Oltre 30 anni dopo, in una situazione completamente diversa ma nel mezzo di un’altra Crisi economica di proporzioni ben maggiori, i lavoratori del più grande stabilimento siderurgico d’Europa sono scesi in piazza “a difesa del proprio posto di lavoro”, manifestazione che è utile analizzare (lo farò nel mio prossimo articolo su Siderlandia) alla luce di quello che accadde nel 1980, sia per sottolineare le analogie e rimarcare le differenze ma anche per azzardare qualche previsione sugli eventi del prossimo futuro, tanto in chiave locale quanto nazionale. E’ un atto dovuto per chi, come me, crede che la Storia abbia sempre qualcosa da insegnare.