di Roberto Polidori
“Io sono con il popolo greco”: molti frequentatori di Facebook (me incluso), hanno utilizzato come immagine questo slogan sovrimpresso sul disegno del Partenone e sulla bandiera greca. E’ una forma di solidarietà nei confronti di chi (il popolo greco, appunto) risulta essere il capro espiatorio di un insieme di politiche economiche e finanziarie comunitarie non certo fallite per l’eccesso di “debito pubblico” (cioè per l’eccesso di intervento statale) quanto per l’eccesso di indebitamento privato che, nell’arco di 30 anni, ha sostituito il potere d’acquisto delle classi medie fatto di salari decrescenti.
Taranto non è un’isola “infelice” estranea al contesto economico e sociale europeo. Taranto è in Italia; l’Italia è in Europa, continente simbolo della “old economy”, il cui tessuto socio-economico è in progressivo veloce degrado.
Questa nostra città è il coacervo amplificato di tutte (ma proprio tutte) le contraddizioni di questo modello socio-economico: disoccupazione crescente; sistema imprenditoriale locale non autosufficiente – per non dire “inesistente” al netto di rare eccezioni –; relazioni industriali che chiedono maggiore flessibilità in cambio di riduzioni di salario e minori garanzie sul posto di lavoro; maggiore “semplificazione” di norme a tutela della salute dei lavoratori; progressiva sostituzione del welfare statale con un welfare privato – quindi: “ se hai soldi e se guadagni bene ti curi e ti crei la tua pensione privata, altrimenti ti arrangi” –; trasferimento della gestione di monopoli ed oligopoli naturali dal pubblico (da noi) al privato (a pochi privilegiati) con soldi pubblici.
Questo è ciò che sta succedendo – in ordine di ingresso nel tunnel dell’austerità imposta dalla Troika – nella Grecia di Papademos, in Portogallo, nella Spagna di Rajoy e nell’Italia di Monti: un appiattimento verso il basso nelle condizioni di vita di larghi strati di popolazione europea con progressivo annientamento della “classe media” e riduzione a condizioni di necessità che costituiscono l’anticamera della moderna schiavitù.
Taranto sembra essere il prototipo in pejus di questo fosco quadro – talmente attuale che solo qualche inguaribile personaggio politico nostrano con le fette di salame agli occhi può considerarlo “pessimista”–: il “dato peggiorativo” (e quindi il più sfruttato nella bagarre elettorale ormai abbondantemente cominciata) è costituito dall’inquinamento della grande industria. Basta scorrere velocemente le colonne di qualsiasi giornale locale per intercettare commenti e programmi incentrati su sviluppo e recupero ambientale.
In questo delicato frangente non è importante capire soltanto se e quanto differenti cartelli ascrivibili ad associazioni ambientaliste siano più o meno in grado di ideare ed attuare piani di sviluppo alternativi alla grande industria inquinante, quanto, piuttosto, verificare se i loro rappresentanti e/o portavoce abbiano ben presente quale sia il frangente storico nel quale la loro personale battaglia è combattuta. L’importanza strategica dell’istanza ambientalista in una città come Taranto risiede, a mio modesto modo di vedere, nell’assurdo meccanismo psicologico ed economico del modo di produzione capitalista secondo il quale per avere un lavoro decentemente pagato devi rinunciare a qualcosa di diverso dal tuo tempo e da una giusta fatica. La grande industria, in presenza di un mercato che “tira”, avrà sempre una enorme convenienza economica a produrre a Taranto finché le leggi attuali le consentiranno di farlo – l’attuale AIA ne è un esempio lampante –; tutto ciò per due motivi essenziali: 1) i costi sociali dei danni all’ambiente (esternalità negative) sono pagati dalla collettività e non addebitati a chi li provoca; 2) gli impianti industriali di Taranto (non solo l’ILVA) rappresentano l’applicazione pratica di un modello di produzione in grado di realizzare enormi economie di scala con costi decrescenti del personale per incrementi di produzione. Insomma, proprio le clamorose dimensioni produttive rendono l’industria tarantina così conveniente per il padrone, quando la domanda tira. Si badi bene: proprio ora in Europa ed in Italia il modello economico del “piccolo è bello” viene ferocemente messo in discussione dal Governo Monti come profondamente antieconomico e viene additato come causa prima della mancanza di competitività della nazione. Taranto, dunque, rappresenta il prototipo di sviluppo economico dell’Italia governata dai tecnocrati; gli stessi tecnocrati che, per alleggerire da incombenze burocratiche il padrone delle ferriere, ha semplicemente sospeso l’applicazione del SISTRI (norme attinenti il sistema di tracciamento dei rifiuti industriali) fino al 30/06/2012. Una qualsiasi amministrazione comunale – anche fortemente caratterizzata dall’istanza ambientale – che volesse battere i pugni a Roma dovrà tener conto di tutto ciò e della precaria condizione economica che i comuni (e soprattutto quello di Taranto) si troveranno a fronteggiare (vedi qui e qui).
Che importanza può avere in questo contesto un movimento ambientalista dal mio personalissimo punto di vista?
Il trionfo del pensiero unico capital-finanziario è l’effetto di trent’anni di socialdemocrazia o, meglio, di trent’anni di fallimenti progressivi del progetto socialdemocratico finalizzato al conseguimento di un capitalismo “buono” (profitti crescenti garantiti per chi aveva i capitali in cambio di un forte Welfare State per gli operai); in realtà la classe operaia e la classe media hanno concesso sempre più ai padroni (se penso a Marchionne e a Riva non saprei come altro chiamarli) in termini di “altro da tempo e giusta fatica”. Ritengo fermamente che l’asservimento fisico e mentale della forza lavoro al datore di lavoro sia l’atto finale di un lungo processo scientemente perseguito di destrutturazione della coscienza di classe e di divisione del lavoratore europeo. La divisione delle coscienze è stata ottenuta in due modi diversi: sullo stesso posto di lavoro e tra diversi posti di lavoro (attraverso la globalizzazione). In Fiat, ad esempio, il tempo dedicato al lavoro e la fatica sono sempre maggiori, il salario sempre più basso. ILVA, che lavora attualmente su un solo turno, è ancora un’isola felice in Italia rispetto ad altre realtà alla luce della sua alta produttività; è, però, un’isola infelice rispetto al problema salute. In questo contesto l’asservimento del singolo operaio ed il suo sacrificio coincide con il maggior pericolo (sicuramente percepito) di morire di cancro; l’iscrizione ad un sindacato diventa necessaria per il conseguimento di servizi utili a risolvere i quotidiani problemi del singolo operaio, più che la scelta cosciente di un operaio che condivide insieme con i compagni i principi di fondo della sigla sindacale alla quale aderisce. Questa balcanizzazione delle relazioni tra simili sul posto di lavoro è, paradossalmente, il più grosso guaio del mondo ambientalista tarantino; a Taranto, infatti, l’ILVA – date le sue dimensioni – non potrebbe decidere di “chiudere e spostarsi” in altro loco né di licenziare (a meno di una caduta dell’attività produttiva): i ricatti tipici della grande industria sui lavoratori non sarebbero facilmente attuabili se la coscienza di classe operaia fosse paragonabile a quella di tempi passati.
In questo contesto globale le istanze ambientaliste possono essere un formidabile catalizzatore di una necessaria riappropriazione di beni comuni in generale da parte della collettività: sanità, mobilità, istruzione, assistenza agli anziani; la progressiva riduzione di diritti e salari potrebbe aiutare a risvegliare le istanze del modo del lavoro cementandole con quelle ambientaliste; gli scioperi compatti in Grecia, Portogallo e Spagna – l’Italia è avviata su questa china – dimostrano che quando il “trade off”, cioè lo scambio, tra diritti (anche salute) e salario diventa realmente inaccettabile la gente reagisce in modo compatto.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritengo particolarmente appropriata alla situazione la mia attuale immagine Facebook: “Non pensate, non informatevi, non dialogate tra voi. Rimanete separati e fatevi la guerra. Ma anche no!”. Questo slogan assume ai miei occhi un significato particolare se utilizzato pensando ai rapporti tra classe operaia ed ambientalisti.