di Remo Pezzuto
La nostra Costituzione, intrinseca di diritti e libertà, lascia ampi spazi al legislatore di disciplinare le garanzie degli individui. In più di 60 anni di Repubblica Italia, numerosi sono stati gli interventi per garantire in primis il diritto al lavoro per tutti i cittadini. Così come è stato disposto dall’art 1 della Carta Costituzionale “L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro” e l’art 4 stabilisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Trasuda da questi due articoli l’idea che sia il cittadino stesso a dover decidere e scegliere un lavoro piuttosto che un altro, in base alla sua disponibilità, e non lo Stato ad imporre tempi e modi. Nella Costituzione si discorre di Lavoro “stabile, a tempo indeterminato” eppure i Governi di vario colore, negli ultimi 15 anni, sono arrivati a creare più di 40 forme di “rapporti” di lavoro – 46 per l’esattezza – tra lavoro subordinato, parasubordinato, autonomo, speciale. Tutto questo in nome della flessibilità, del progresso, ma generando in realtà precariatà e mancanza di tutele per i lavoratori e le lavoratrici, che hanno perso oggigiorno anche la dignità di poter essere chiamate così.
La prima cosa che si impara quando ci si approccia ad una materia tanto affascinante quanto delicata come quella del Diritto del Lavoro è che i diritti acquisiti, quelli conquistati in anni di dure lotte – per esempio quelli presenti all’interno dello “Statuto dei diritti e dei doveri dei lavoratori” – non si possono più cedere. Può esistere solo una derogabilità cd “in meius”, un deroga per migliorare le condizioni di vita di chi lavora. Invece in questi anni di scellerate politiche neoliberiste, tornate alla ribalta in questo periodo di crisi, i governi di tutta Europa stanno facendo passare l’idea che, per evitare il crollo economico degli Stati, c’è bisogno di rinunciare a queste garanzie e rimettere in discussione i contratti di lavoro e le tutele presenti nel mercato. L’attuale Governo italiano, quello dei Professori, sulla scia del precedente, oltre a continuare l’opera di smantellamento dello stato sociale, continua a proporre gli stessi slogan populisti per farci abituare all’idea di non avere più un posto fisso e di dover essere liberamente licenziati in nome della spietata concorrenza del mercato.
Come dice Nanni Moretti nel film “Palombella Rossa”,“le parole sono importanti”; perciò non possiamo accettare l’idea che il Presidente Monti, così come il Ministro Fornero, dicano che il posto fisso e l’articolo 18 generino la monotonia delle lavoratrici e dei lavoratori. Piuttosto ci dicano che il precariato è qualcosa contro cui non si vuole combattere, oppure che la libertà di licenziamento è una richiesta delle imprese – richiesta più volte avanzata dalla Presidente di Confindustria, Marcegaglia – che altrimenti delocalizzerebbero le proprie industrie in altri paesi, così come minacciato dall’Amministratore Delegato di FIAT, Marchionne. Oppure ci dicano che saranno estese quelle tutele che oggi sono previste solo per coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato. Nulla di tutto ciò ci può far accettare l’idea che la precarietà e la libertà di licenziamento sono le alternative alla monotonia; che non siano altro che l’opportunità di cambiare lavoro in maniera creativa e stimolante. Questa è la brutale sintesi di un pensiero complesso in cui si prevede più mercato, più concorrenza, meno tutele, meno diritti, dove la massa dei disoccupati e inoccupati sarà disposta ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione. Il che consentirà ai datori di lavoro di sfruttare, usare, licenziare – rimpiazzando un lavoratore con qualcun’altro disposto a ricevere ancor meno.
La libertà di cambiare lavoro in base alle proprie capacità e scelte è proprio del lavoro a tempo indeterminato, in cui il lavoratore che non è sottoposto ai ricatti del datore del lavoro è libero di rinunciarvi quando vuole. La precarietà e il licenziamento invece rendono impossibile ogni libera scelta: si è in balia dell’arbitrio di un’altra persona, che può disporre a suo piacimento della vita del lavoratore. Deve essere invece quest’ultimo a rompere l’idea della monotonia, dettata da un miglioramento delle sue condizioni, e non il licenziamento facile e la precarietà. Oggi, nonostante alcuni ministri dicano che i laureati cercano il lavoro sotto casa, ogni mese migliaia di giovani lasciano l’Italia e si mettono in discussione in altri paesi, inventandosi e inventando nuovi lavori e patendo numerosi problemi: dall’affitto che deve essere ancora pagato dai genitori alla mancanza di una reale prospettiva. Ma questo non è solo un problema generazionale, visto che a causa della crisi migliaia di cassintegrati over 50 si trovano disoccupati, dopo anni impiegati sul proprio posto di lavoro. Proprio questa condizione di frustrazione generalizzata viene utilizzata dal Governo per mettere i “figli contro i padri”, “garantiti contro non garantiti” e generare così un attacco a 360° al diritto del lavoro, sfruttando il disagio della precarietà e la richiesta di riunificare il mondo del lavoro per estendere a tutti i lavoratori il ricatto della perdita del posto. Non si capisce davvero in che modo la libertà di licenziamento universale potrebbe far uscire i giovani dalla precarietà. Anzi, si tratterebbe di una stabilizzazione della precarietà.
Dalla riforma del mercato del lavoro vogliamo più diritti e più welfare, non più precarietà e più libertà di licenziamento. Questa è la sfida che bisogna lanciare: no al contratto unico precario, sì a diritti e reddito per tutti. Un reddito fissato al 60% del salario medio. Un provvedimento che ci chiede l’Europa, quella stessa Europa alla quale si ubbidisce per tagli e austerity e che si ignora se ci chiede di adottare una misura di welfare che esiste in tutti gli altri paes tranne che in Italia, Grecia e Ungheria. Bisogna eliminare tutta la giungla dei contratti di lavoro, che impongono la permanenza di uno stato di monotona schiavitù a vita – con l’obbligo di prendere volentieri un calcio in quel posto ogni qualvolta il datore di lavoro lo riterrà necessario. E’ necessario smetterla di imporre sacrifici nell’interesse della nostra generazione, di smantellare il sistema di welfare, di distruggere i diritti, consegnandoci solo macerie e togliendo ai nostri padri quel po’ che avevano. Bisogna smetterla di dire che la drammatica situazione è stata causata da chi è vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Se si vuole abbattere la monotonia, è necessario un contratto libero dall’incubo della scadenza e dal ricatto del licenziamento. Saremo allora disposti ad abbandonare la monotonia del posto di lavoro stabile ogni qual volta ne avremo voglia. Questa è la vera libertà del posto fisso e dell’art 18.