di Luca Delton
Strabone, antico geografo greco, racconta che, durante la guerra tra Sparta e la Messenia, le donne spartane misero in guardia gli uomini dal pericolo legato alla loro assenza prolungata dalla città. Il pericolo era che Sparta non potesse più avere una “giovane generazione di guerrieri”.
Sono trascorsi migliaia di anni da allora, popoli e nazioni. Per fortuna siamo in epoca costituzionale.
Non ci serve più una generazione di giovani in trincea, come al tempo di Sparta (un poco rispettato art. 11 della Costituzione ce lo ricorda), ma resta immutata l’esigenza che la vita sociale e le strade della nostra città siano popolate da persone con qualche neurone più fresco.
Sgombriamo subito il campo, però, da equivoci e possibili risentimenti. Non si intende gettare intere generazioni tarantine più datate al macero; sono contro la guerra e non amo le battaglie tra generazioni.
Nella mia città ho avuto la fortuna di conoscere persone come Andrea Summa, uomo onesto e capace, guida vera, che mi piace ricordare per le ore trascorse a scambiarci idee nonostante i cinquant’anni di differenza.
E’ arrivato il momento, però, di riflettere sui numeri, che ci restituiscono una realtà oggettiva, e di fare proposte.
Taranto ha attualmente 191.000 abitanti (dato di agosto 2011), tra cui vanno calcolati anche i giovani che non sono a Taranto per studio o lavoro, ma qui conservano ancora la residenza. Nel 2001, dieci anni fa, eravamo 202.033 e nel 1981, al picco massimo, 244.000. Al netto della separazione di Statte, abbiamo perso 38.000 abitanti in trent’anni e più di 11.000 abitanti negli ultimi dieci. Nello stesso periodo di tempo, guardando gli altri capoluoghi di provincia pugliesi, Bari guadagna 3.000 abitanti, Lecce addirittura 12.000. Persino la poco patinata Brindisi guadagna circa 800 abitanti. Solo Foggia ha un saldo negativo di circa 2.500 abitanti, ma non può essere una consolazione tra i due mari.
Cosa accade e come possiamo provare a invertire la rotta?
Non essendo un analista di processi migratori, provo a formulare una riflessione partendo dai dati più vicini e, per me, emozionanti. Ripercorro il registro di classe della III F che uscì nel 1998 dalle aule del “Quinto Ennio” con il diploma di maturità. Era la mia classe ed eravamo venticinque, giovani e forti. Oggi abbiamo circa 32 anni. Di quei venticinque gli ultimi samurai che abitano ancora Taranto, oltre me, si contano sulle dita di una sola mano.
Risparmio la geografia delle loro destinazioni, tra cui ci sono, per far felice il Presidente Monti, anche alcuni Paesi esteri e non solo altre zone d’Italia. Se guardo al mondo degli amici, che valica i confini della mia classe e varia per età, i dati non cambiano molto.
L’emigrazione tarantina degli ultimi anni si connota fortemente per essere un’emigrazione numericamente agghiacciante e culturalmente di buon livello.
Il rischio è quello, se non si inverte la tendenza, di una desertificazione culturale, progressiva e letale.
Se si vuole un riscontro concreto e visivo è sufficiente percorrere qualche chilometro, raggiungere Bari o Lecce e osservare il numero di under 40 che animano quelle realtà.
Animare una città è cosa ben diversa dal fare shopping. Non mi piace analizzare le sfighe (per dirla alla Martone) della mia città senza coglierne i battiti vitali, che, nonostante tutto, ancora ci sono. Ed è fondamentale partire da quello che c’è.
Non possiamo permetterci di non parlare e raccontare le storie, a voce alta e chiara, dei tanti movimenti, per lo più fatti di giovani coraggiosi tarantini, che stanno provando a organizzare idee e forme di una partecipazione che ha caratteri commoventi.
Mi riferisco, tanto per citarne alcuni, ai ragazzi del Cloro Rosso, che hanno provato a mettere in piedi un’idea sana di socialità e rapporto con le periferie. Mi vengono in mente i ragazzi della Cooperativa Sociale Equociqui, che si assume il rischio, non da poco, di riattivare il commercio equosolidale a Taranto. I ragazzi di Ammazza che piazza sono l’emblema di un collettivo che, per amore della propria città, si arma di ramazza e dà forma concretissima alla partecipazione. I ragazzi del Coordinamento Universitario Link non hanno più bisogno di essere presentati. I miei amici del circolo Arci Palacool, con il supporto del sindacato, stanno ridando vita a una struttura urbana dando voce e spazio a giovani gruppi musicali locali. C’è chi ha organizzato stagioni teatrali senza chiedere contributi pubblici e sottraendo tempo a un lavoro precario.
Potrei continuare raccontando di quelli che cercano di impegnarsi nei luoghi, non sempre semplici, della politica e lo fanno con la convinzione che sia giunto il momento di aprire le finestre per cambiare l’aria consumata che ha invaso le stanze. Lo fanno con la dignità di chi non cerca scambi, favori o altre utilità, se non quella di poter provare a incidere nelle scelte amministrative.
Tutte queste persone si incontrano quotidianamente nei cinema, ai concerti, nei teatri, nell’organizzazione degli eventi, nella vita politica e associativa, al Tatà, uno dei progetti dei quali dovremmo fare una cornice da studiare e riproporre. Spesso, tra loro, si dicono che “sono sempre le stesse facce”. Penso che non siano poche e che siano la parte che mantiene l’anima della città in vita.
Le loro storie vanno raccontate, addirittura gridate per far capire che semplicemente esistono. Ci serve per ripartire da un pensiero positivo.
Questi ragazzi sacrificano tempo e forze per provare a non salire su un treno, che oggi è anche difficile da trovare, per andar via. Spesso non si coglie un elemento fondamentale delle tante difficoltà nelle quali agiscono. In qualsiasi luogo si viva bisogna produrre un reddito almeno sufficiente per poter sopravvivere. Nonostante siano in lotta quotidianamente per la realizzazione di quel reddito, nonostante le difficoltà dell’essere giovane in un Paese che i giovani non li incoraggia, non smettono mai di essere prima di tutto cittadini attenti ed impegnati.
E’ possibile generare occasioni di buon lavoro dalle storie che qui si è provato a raccontare e fare in modo che, almeno una parte di queste persone, non parta? Possiamo bloccare la ruota e poi cercare di capire se riusciamo a farla girare nell’altro senso, anche lentamente?
Sono convinto di questa possibilità, non per previsione incerta, ma per dati certi che ci derivano dall’osservare quello che accade guardando oltre il ponte Pizzone, verso città vicine.
Negli ultimi anni Lecce e Bari, che hanno strutturato la presenza giovanile intorno all’Università, hanno guadagnato in spinta propulsiva, vivacità culturale, rafforzamento dei parametri economici.
La Puglia vive una fase diversa dal resto delle regioni meridionali. Il tasso di disoccupazione presenta un -25% e l’occupazione è cresciuta del 4%. Dalla presentazione del Piano Straordinario per il lavoro, nel 2011, c’è stato un incremento di 25.000 nuovi posti di lavoro. Spesso si tratta di incentivi allo sviluppo di idee innovative e investimenti nell’”industria” pulita della cultura, che sta producendo occupazione stabile.
La seconda città della Puglia non può restare fuori da questa fase. Abbiamo bisogno, però, di competenze, forze e del sostegno attivo delle Istituzioni. Bisogna studiare, leggere i bandi, saper scrivere formulari per la presentazione di progetti, saper rendicontare le spese.
Insomma, non sono capacità che si possono improvvisare. Sono capacità che si trovano più facilmente nelle generazioni che sono passate dal telefono a rondella della Sip al collegamento col mondo ovunque ci si trovi. Ricordo con affetto il telefono in cui comporre lo “0” significava lavorare con lentezza.
C’è da lavorare sul recupero e la messa a disposizione dei giovani di numerosi spazi urbani in stato di abbandono. Basta studiare l’esempio di Torino, città simile a Taranto per vocazione industriale.
Le OGR (Officine Grandi Riparazioni) erano officine dismesse dalle Ferrovie dello Stato. Oggi sono spazi in cui giovani producono arte, musica, spettacoli e hanno trovato occupazione. Il Comune di Torino, in quella vicenda, ha avuto un ruolo fondamentale nella trattativa con il Gruppo Ferrovie dello Stato, proprietario dell’area, e nella concessione dello spazio ai giovani che oggi lo gestiscono ricavandone reddito stabile e producendo valore per tutta la città.
Sono solo alcune delle proposte e degli esempi che, in un freddo week-end di febbraio, mi vengono in mente mentre mamma, nella stanza accanto, prepara le “polpette col sugo”, per dirla alla Zakalicious.
Continuerò, insieme ad altri, a lavorare affinché, tra qualche anno, non vengano a svegliarci per dirci che la guerra è finita e l’abbiamo persa.
Vi lascio con un consiglio di lettura. Franco Arminio è un paesologo che ha scritto “Vento forte tra Lacedonia e Candela”. Studia, visitandoli e raccontandoli, quei piccoli paesi del sud in cui restano solo gli anziani. Lo fa con i toni ironici, amari e innamorati di una terra. Vive a Bisaccia.
Se sapremo dare responsabilità, spazi fisici e fiducia alle persone di cui ho parlato, senza abbandonarle al loro destino, eviteremo che Franco Arminio venga a visitare Taranto nei prossimi anni.
E’ un tema di oggi, una responsabilità attuale.