di Vincenzo Vestita
Ogni volta che mi accingo a parlare o a scrivere di qualcosa che riguardi il rapporto tra la grande fabbrica e le ricadute di quest’ultima in termini sanitario-ambientali sul territorio confesso di trovarmi in una condizione di estrema difficoltà. Credo, in tutta onestà, che questa mia “sofferenza” derivi principalmente dal fatto di aver liberamente scelto di vivere in piena consapevolezza la mia condizione di operaio che presta la sua forza lavoro nel più grande centro siderurgico d’Europa, la cui ingombrante presenza – non solo fisica – ha riempito, riempie e probabilmente continuerà a riempire molto più degli spazi lavorativi della mia vita. Prendendo in prestito una felice, quanto pertinente, intuizione da uno dei miei autori preferiti, Zygmunt Bauman, potrei arrivare a dire che per me la fabbrica perde i suoi connotati di solidità e finitezza materiale e diventa “liquida”, colando come ghisa incandescente e zampillante tra le intercapedini di buona parte del mio tempo libero, spingendomi ad interessarmi, ad informarmi e soprattutto ad interrogarmi su aspetti che travalicano quelli strettamente correlati al mio lavoro al suo interno. E come la ghisa lascia scorie così il mio rapporto con la fabbrica ha sedimentato in me un certo modo di pensare, cambiandomi sicuramente più di quanto io creda o sia disposto ad ammettere. Per uno che nel suo infinitesimamente piccolo cerca di contribuire al cambiamento di questo mondo – che non è assolutamente il migliore tra quelli possibili – percepisco con estrema chiarezza sulla mia pelle viva la contraddizione palese tra il cercare di guadagnarmi onestamente il pane per (soprav)vivere in questi tempi disgraziati e il doverlo fare pesando in qualche modo, a diverso grado, sulla vita di altre persone (tralascio volutamente gli “effetti personali” del lavorare in uno stabilimento siderurgico come quello tarantino). E tutto accadeva già prima che, durante una delle tante assemblee a tema ambientale a cui ho preso parte negli ultimi quattro anni e mezzo, una signora, in maniera parecchio veemente, mi rimproverò ad alta voce, quale unico esponente della categoria dei lavoratori della Fabbrica li presente, di essere responsabile tanto quanto la proprietà della situazione ambientale e sanitaria del nostro territorio – perché sapevo e non facevo niente per impedire determinate cose nello svolgimento della mie mansioni lavorative. In ogni caso fu in quell’occasione che ebbi chiaramente la sensazione di essere portatore sano (sarebbe meglio dire consapevole) di una sorta di “peccato originale”, il cui seme fu piantato 50 anni fa con la costruzione del “cuore caldo” del nascente IV Centro Siderurgico a pochi metri dalle case abitate per risparmiare qualche chilometro di nastri trasportatori e da cui è cresciuto un albero che ha dato molti meno frutti di quelli inizialmente messi a preventivo e le cui radici si sono estese ben al di là del suo perimetro geografico, arrivando nei campi degli allevatori e nel mare dei pescatori. Le cronache del tempo riportano la disponibilità a costruire il Centro Siderurgico finanche in Piazza della Vittoria, il salotto della città, pur di avere la nostra “rivoluzione industriale” impacchettata, calata dall’altro e in ritardo con la storia di un secolo esatto. In questi 50 anni la percezione della Fabbrica si è trasformata, da grande opportunità di sviluppo e progresso, dapprima in una occasione mancata e, da ultimo, in qualcosa da far scomparire con la velocità di un fragoroso fuoco d’artificio.
Circola in queste ultime ore sui social network un articolo¹, del 2009, sulla situazione della città americana di Pittsburgh, stato della Pennsylvania, fucina madre dell’acciaio statunitense fino agli inizi degli anni ’80 e per questo soprannominata “Steel City” (città d’acciaio), oggi fiore all’occhiello della tecnologia e della sanità di alto livello. L’articolo viene per lo più proposto da esponenti dell’ambientalismo tarantino – persone che io rispetto moltissimo – convinti, da parte loro, che in questo articolo ci sia la prova empirica che la via d’uscita (la più rapida possibile) dalla grande industria sia quantomai possibile. Dopo aver letto con estrema attenzione questo breve articolo – che meriterebbe assolutamente di essere approfondito al di la del breve excursus storico che viene presentato – non sono riuscito a scorgere analogie con la situazione di Taranto che vadano oltre il forte degrado ambientale (la città americana venne definita come “un inferno senza coperchio”), ma in ogni caso degli spunti di riflessione sul come questa “lenta e caparbia” città sia riuscita a reinventarsi li offre eccome. Innanzitutto Pittsburgh non è mai stata solo ed esclusivamente un immenso insediamento industriale; “al contrario, è sempre stata un luogo ricco di scienza e tecnologia” e “le tanto osannate aziende high tech o le super cliniche mediche hanno radici lontane”. Già agli inizi del 1900 infatti nacquero i “laboratori delle meraviglie” che “stupivano gli americani con le prime radio, televisioni, frigoriferi, e altre cose all’epoca incredibili” e negli stessi anni Jonas Salk con l’aiuto di migliaia di pittsburghesi sperimentò e poi scoprì il vaccino antipolio. Si deve aggiungere la presenza di due Università di altissimo livello, la Carnegie Mellon², centro tecnologico all’avanguardia, e l’Università di Pittsburgh, con la sua ricerca medica avanzatissima, che attraggono investimenti milionari da colossi quali ad esempio la Microsoft. Tutti questi elementi, insieme ad altri che non ho riportato per esigenze di sintesi, mi hanno fatto riflettere sul fatto che Pittsburgh è probabilmente l’esempio più sbagliato da proporre a supporto della tesi di “rinascita” dopo l’era industriale ionica. A Taranto, a titolo esemplificativo, il massimo che si è arrivato a proporre in ambito sanitario è stato un grande polo misto pubblico-privato (pubblico il denaro, privata la gestione) da far sorgere al posto degli ospedali pubblici e senza nessun aspetto riguardante la sperimentazione scientifica. Per quanto riguarda l’Università la situazione non è migliore. Volutamente ho lasciato alla fine l’aspetto forse più importante di tutto l’articolo riguardante Pittsburgh: è stata “la concorrenza internazionale, che produceva acciaio a prezzi più bassi” a decretare la fine dell’era industriale.
Sono estremamente preoccupato delle risultanze delle perizie disposte dalla procura di Taranto, oltre che molto curioso di leggerle con attenzione perché io in quella Fabbrica ci vivo per buona parte della mia giornata. In ogni caso sono perfettamente consapevole che la volontà di cambiamento, di cui la questione ambientale diretta emanazione del modo di produrre i beni necessari a questo modello di sviluppo è uno degli infiniti aspetti, deve scontrarsi col principio che la Storia è scritta dai rapporti di forza tra attori tra loro in competizione e il cui esito non sempre (per la verità quasi mai) va nella direzione di ciò che è giusto. Mi chiedo quindi se riporre, in ultima istanza, le speranze di chiusura del polo industriale nelle carte bollate (la magistratura ha già iniziato a passare la palla alla politica) non sia una strategia non risolutiva e se non sia meglio utilizzare le energie per rendere le industrie “fuori mercato” il più velocemente possibile, premendo con ogni grammo di forza disponibile sulla politica per programmare nel frattempo la rinascita di Taranto.