Dopo averlo bastonato con i tagli e gli aumenti di tasse e tariffe, finalmente anche il pubblico di sinistra ha avuto il suo sollazzo. Il Grande Inquisitore TorqueMonti questa volta ha diretto la sua scure contro i ricchi pasciuti e ingordi di Cortina, celebrando un grandioso auto da fè a base di scontrini mancati e fatture contraffatte: qualche decina di contribuenti sono stati costretti, loro malgrado, a recitare il mea culpa di fronte a folle televisive inferocite e finalmente gaudenti dell’altrui disgrazia. Adesso sì che sul tavolo dei sacrifici ci siamo davvero tutti.
Ditemi quello che volete, ma a me questa sinistra “pauperista” non piace affatto. In primo luogo perché le tasse sono una cosa seria e, soprattutto, “laica”; altro che “le tasse sono una cosa bellissima” del compianto TPS! Le tasse sono una cosa necessaria per uno Stato moderno. Punto. Tutto il resto è fuffa: soprattutto il tentativo di costruire attorno ai tributi una sorta di “religione civile”. Dal punto di vista etico le tasse non hanno alcun senso: originariamente esse erano il frutto di un’imposizione (non a caso questa espressione è un modo di designarle) nei confronti degli abitanti di un certo territorio da parte di potenze politico-militari che se ne arrogavano il controllo. Questo elemento di sopraffazione viene meno solo con il superamento dello Stato patrimoniale e allora le tasse assumono un significato squisitamente politico (ma non etico!): devo pagarle perché altrimenti rischio di essere privato di alcuni servizi senza i quali non potrei conservare il livello di civiltà che caratterizza la mia esistenza corrente. L’evasione diventa pertanto un reato in quanto minaccia la tenuta della comunità statale.
Se si assume questo presupposto non ci vuole poi molto ad arrivare al motto che animò gli insorti di Boston del 1773: “No taxation without rapresentation”. Colpevolmente a sinistra si è lasciato che fosse la destra ultra-liberista – quella che propugna lo “Stato minimo” – ad appropriarsi di questa rivendicazione. I contemporanei “tea party” statunitensi rievocano proprio la rivolta delle 13 colonie contro le imposte della Corona d’Inghilterra per chiedere meno pressione fiscale e meno intervento pubblico. Ma se riconosco che il mio rapporto con la fiscalità è politico, io posso altresì pretendere che al tributo che verso corrispondano contropartite politiche precise. Potremmo declinare la parola d’ordine dei rivoluzionari americani del ‘700 con un più attuale “niente tasse senza spesa per il welfare, lo sviluppo, il lavoro…”
E veniamo così al vero punto debole del pauperismo sinistrato di questi giorni. Come ogni approccio ideologico alle cose anche questo tralascia le dinamiche reali per costruire un mondo astratto in cui sono protagonisti i valori (l’onestà contro la furberia) piuttosto che gli interessi dei vari gruppi. Che funzione ha svolto l’evasione nella storia economica del nostro paese degli ultimi trent’anni? A ben vedere è stata una delle ragioni del dilatarsi del debito pubblico, perché mentre finalmente l’Italia andava modernizzandosi sul piano dei servizi di welfare (solo nel 1979 entrava in vigore il Servizio Sanitario Nazionale), il suo sistema fiscale restava uno dei più antiquati ed inefficienti del mondo industrializzato. Questa disparità, unita a politiche monetarie che sin da allora puntavano all’integrazione fra i diversi paesi europei (sempre nel ’79 l’Italia aderì al Sistema Monetario Europeo, il “padre” dell’Euro), ha provocato il dilatarsi dei disavanzi pubblici e quindi del debito.
Ma perché i governi hanno tollerato questa situazione? La risposta va ricercata nel particolare modello di sviluppo che il nostro paese va assumendo in conseguenza della crisi degli anni ’70. Le grandi industrie private optano per l’“esternalizzazione” di particolari fasi del processo produttivo: iniziano così a fiorire cespugli di piccole e persino piccolissime imprese, collegati alle case-madri da forme più o meno dirette di sub-fornitura. In queste realtà l’evasione raggiunge livelli altissimi. Per le aziende è un modo di conservarsi competitive a fronte di concorrenti (soprattutto extra-comunitari) sempre più aggressivi. La tolleranza nei confronti dell’evasione diventa dunque un atto politico di adesione alla particolare ristrutturazione portata avanti dal capitalismo italiano.
Oggi quel modello è entrato in una crisi irreversibile: un poco perché l’evasione non bastava (fattori fondamentali per la competitività delle nostre imprese erano la volatilità della moneta e le protezioni nei confronti dei concorrenti extra-europei, definitivamente crollate con l’apertura all’ex blocco sovietico prima e ai paesi emergenti dopo), un poco perché spingendosi sempre più in là lungo la china del risparmio dei costi diversi “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana hanno levato l’ancora e sono salpati alla volta di lidi più convenienti. Il resto lo sta facendo la gestione della crisi da parte dei governi europei, con il crollo verticale dei consumi e le sempre più feroci strette del credito. E’ evidente che in questo contesto una seria lotta all’evasione – non certo alla maniera di Cortina – sarebbe esiziale per diverse imprese divenute ormai marginali.
A questo punto, tralasciato ogni moralismo, diventa evidente che la lotta all’evasione diventa persino controproducente se non la si articola con una strategia di ristrutturazione del sistema produttivo del nostro paese. Bisognerebbe partire da una valutazione di fondo – cui ha accennato lo stesso ministro Passera nei giorni scorsi –: quel 95% di imprese nazionali che si collocano al di sotto dei 15 dipendenti non è un dato di cui andare fieri, bensì – per dirla con Marcello De Cecco – una “metastasi”. Una metastasi la cui cura è diventata indifferibile se non si vuole che il nostro sistema economico muoia fra dolori atroci. Una cura che ormai non può più prescindere dall’intervento pubblico. Se si lasciasse fare al privato infatti la conseguenza generale sarebbe un probabile prossimo declassamento dell’Italia dalle potenze industriali: fra fallimenti e delocalizzazioni resterebbero nel nostro paese solo le imprese in grado di stare su standard cinesi: in breve, le imprese criminali.
Ma per fare tutto questo occorre una svolta culturale. Bisogna mandare al macero quanto prima il complesso dei “sacrifici”. L’equità non la si consegue imponendo a tutti il cilicio; dobbiamo liberarci definitivamente dell’idea insana per cui la gestione del bilancio pubblico debba seguire i criteri dell’economia domestica vittoriana: il massimo delle entrate e il minimo delle spese. In particolare il momento della spesa deve essere profondamente rivalutato: c’è da porsi la questione dell’indirizzo e della qualità della spesa, da modulare sulla base finalità economiche e sociali che si intende perseguire. E lungo questi assi andrebbe edificato un sistema fiscale finalmente all’altezza di una paese che non ci sta a rivivere un nuovo Seicento. (S.R. ’84)