di Massimiliano Martucci
Le immagini della strage di Firenze scorrono davanti agli occhi nitide e perentorie. La mano era squilibrata forse, ma era armata da frequentazioni di gruppi e ideologie che legittimano il gesto violento contro l’invasore, lo straniero, il diverso. Questo solo per premettere il punto di vista da cui parte questo racconto.
Tre anni fa, a Martina Franca, un gruppo di un centinaio di richiedenti asilo africani – parte dell’Eritrea, parte dell’Etiopia, parte del Sudan – era ospitato in una struttura privata, in seguito ad un piano straordinario del governo per far fronte all’arrivo di numerosi migranti stranieri. Un giorno di dicembre molti di loro organizzarono una manifestazione improvvisata per denunciare come era gestita la struttura. Si trovarono nella piazza principale con cartelli scritti in un italiano stentato. A Martina Franca non si vedeva una vera manifestazione di protesta da anni, forse almeno una decina, nonostante una crisi devastante del settore manifatturiero che rischiava di mettere in ginocchio la città.
Pochi mesi prima, il 18 settembre del 2008, a Castelvolturno la camorra ammazzò sei lavoratori africani. Il giorno dopo decine di immigrati scesero in piazza per chiedere che i responsabili fossero presi e processati. A proposito della manifestazione, Wikipedia dice che è stato “un episodio unico nell’intera storia d’Italia”.
Pochi giorni fa, un fascista ammazza due ambulanti senegalesi, immediatamente moltissimi componenti della comunità africana fiorentina scendono in piazza chiedendo giustizia e rispetto e, soprattutto, che venga arrestato il razzismo dilagante, salito agli onori della cronaca politica attraverso le affermazioni di deputati ed ex ministri (non necessariamente leghisti).
Gli episodi sono legati fra loro dalla velocità di reazione di una comunità che sente come collettive le offese arrecate a qualsiasi dei suoi componenti, la capacità di essere presenti insieme per rivendicare il diritto di vivere. Una comunità che sente bruciare le ferite tutta insieme e che insieme fa sentire la propria voce. Ecco la traccia del contesto, che non trova spazio nelle riflessioni e nei commenti, ma che invece rappresenta, forse, un fatto di non poco conto, soprattutto in un Paese in cui i poteri lavorano sempre più per dividere, per spezzare, per disaggregare. Mentre i poteri forti spingono perché l’erosione dei diritti di cittadinanza e dei lavoratori finisca l’opera di annichilimento, approfittando di tendenze sociali come il forte individualismo che rende quasi impossibile per i più deboli far sentire la propria voce, dal fondo dello schermo, dalla parte in ombra, dai margini si vedono immagini che in qualche maniera, seppure nella loro tragicità, rincuorano. Se la massa, intesa come moltitudine di uomini e donne che condividono lo stesso destino non esiste più, se è stata abolita la parola “classe”, ci vuole davvero poco perché il padrone – sia esso il datore di lavoro o il finanziere, il capitale o il politico, o il mafioso – possa diventare presenza capillare e quindi barriera tra i simili, tra i prossimi, tra coloro che dividono il pane. Basta vedere che non ci sono se non sparute reazioni nei confronti di una manovra che salvaguardia i privilegi dei pochi ricchi e chiede alla maggioranza di fare un buco in più alla cinta; basta rendersi conto che le nostre zone industriali sono ormai città fantasma, abbandonate senza che si sentisse un pianto, o una lacrima. Colpi di mannaia sferrati senza incontrare quasi nessuna resistenza.
Eppure non possiamo non domandarci cosa sarebbe successo se avessimo reagito come i senegalesi di Firenze o i nigeriani di Castelvolturno, cosa sarebbe accaduto se un licenziamento avesse bruciato la pelle di ognuno di noi, se ogni ricatto avesse ferito tutti indistintamente, se avessimo reagito come comunità che viene attaccata e non come individui che tentano una sortita solitaria pur di salvare quel poco che rimane. Il racconto ufficiale del futuro che ci aspetta mette i brividi, ma forse farebbe meno freddo se riuscissimo a ritrovare quel senso di appartenenza ad una comunità che sembra essersi smarrito.