di Mattew Dalton
Le autorità europee stanno trattando i problemi di debito dell’Italia come il prodotto di una cultura politica malata. La vulgata popolare, che arriva da Bruxelles e Francoforte, pretende che asettici tecnocrati, con aiuti e consulenze provenienti dall’eurozona, introducano riforme necessarie in un sistema economico eccessivamente conformista.
Ma un’occhiata più attenta rivela che il fardello del pesante debito italiano non è il risultato della dissipatezza del recente governo – certamente non comparabile con la la dissipatezza di altri governi nel mondo. Esso risulta, invece, la risposta italiana alle politiche introdotte più di 30 anni fa per gettare le basi dell’euro
Nel 1979 le nazioni europee crearono lo SME, il Sistema monetario Europeo. Lo Sme impose ai paesi aderenti che la valuta locale si muovesse entro una banda di oscillazione fissa e predefinita rispetto ad ogni altra valuta aderente: tutto ciò con il preciso intento di limitare la volatilità del tasso di cambio in previsione dell’introduzione della moneta unica.
Ciò significò per l’Italia – il paese con uno dei tassi d’inflazione più alti al mondo – l’obbligo di alzare enormemente il tasso d’interesse per non vedere la propria valuta crollare rispetto al Marco tedesco e uscire dalla banda di oscillazione prefissata. Nel 1981 la Banca d’Italia alzò il tasso di sconto al 19% e questo tasso rimase sempre sopra il 10% fino al 1993.
Questo evento ebbe un impatto drammatico sulle finanze pubbliche italiane. I BTP decennali italiani raggiunsero il picco del 20% di tasso di interesse e la media del tasso fu sempre sopra il 14% fino al 1993, comunque sempre sopra l’inflazione. (Ciò dimostra che l’Italia ha già pagato tassi di interesse al di sopra del 7% reale e ha già vissuto alla giornata nel passato; la paura che attanaglia gli investitori odierni deriva dal timore che i tassi non si fermino. ma aumentino in modo spaventoso).
Durante quel periodo il debito pubblico esplose da meno del 60% del PIL nel 1980 al 120% del PIL nel 1994 – molto vicino ai livelli attuali. L’ammontare degli interessi rispetto al PIL salì da meno del 4% al 12%.
Gli economisti, poi, si soffermano su un’altra riforma adottata nel 1981 che avrebbe anticipato la politica monetaria della zona euro: la Banca d’Italia divorziò dal Tesoro e non fu più costretta a comprare i titoli di debito rimasti invenduti nelle aste del debito pubblico.
“L’indipendenza della Banca d’Italia a seguito di questo divorzio fu l’origine del grande fardello del debito pubblico italiano”, ha detto Fabio Padovano, un economista dell’Università di Roma.
Quando l’inflazione italiana superò il 20% – e lo fece negli ultimi anni ’70 e nei primi anni ’80 – fu comprensibile che la Banca d’Italia mantenesse il tasso d’interesse a livelli altissimi per difendere la lira dalla svalutazione; ma anche dopo il 1986, quando l’inflazione crollò sotto il 6,5% e ci rimase, la Banca d’Italia lasciò i tassi altissimi. Nel 1992 i tassi d’interesse erano al 15% nonostante l’inflazione fosse sotto il 5%.
Con il tasso d’interesse reale – cioè la differenza tra tasso d’interesse applicato dai titoli di debito ed il tasso d’inflazione – così alto è normale che il debito pubblico italiano fosse destinato a salire così tanto.
Ma negli anni ’80, con nella mente ancora l’altissima inflazione degli anni passati, il desiderio di proteggere la lira italiana dalla svalutazione per restare nello SME pesò nono poco sui politici italiani, sebbene la Banca d’Italia avesse dovuto accettare non poche altre richieste di svalutazione fino dall’ingresso nello SME.
“Gli italiani erano terrorizzati” dice Padovano “nel senso che avevano una storia di tassi reali negativi”.
Con la Banca d’Italia non più costretta ad acquistare i titoli di debito italiano all’asta, per essere piazzati i titoli dovevano essere appetibili per il pubblico e dovevano quindi promettere un tasso d’interesse reale elevato. Come la Banca Centrale Europea, anche la Banca d’Italia si fece la reputazione di banca indipendente.
Quanto detto non significa che i problemi del debito italiano siano completamente sconnessi da pratiche di spesa pubblica allegre e politici italiani sconsiderati. Nel 1975 il deficit spending italiano era il 12% del PIL – il deficit primario al netto degli interessi era al 7% del PIL . Ma da allora il controllo dell’Italia sulle finanze pubbliche è costantemente migliorato.
Questi numeri, comunque, contengono l’inizio di un trend preoccupante: il pagamento degli interessi cominciò a contare per una parte cospicua del deficit . Nel 1985 il deficit era il 12% del PIL italiano, ma il deficit primario era meno del 5% . Il deficit primario continuò a scendere fino ad arrivare al surplus dal 1992: l’Italia ha fatto registrare surplus primari fino al 2009, quando la Grande Crisi è cominciata. Il danno causato al debito italiano dall’impatto dell’alto tasso di interesse va al di là della dimensione del debito stesso. Gli alti tassi d’interesse hanno notevolmente ridotto la crescita dell’economia italiana. L’Italia ha fatto registrare uno dei più alti tassi medi di crescita al mondo nel periodo post-bellico (dal 1950 al 1973 ), ma la crescita media dell’economia tra il 1980 e il 1992 è sta solo del 2,1%. Dal 1995, anno dell’ultima svalutazione, la crescita italiana è stata di gran lunga la più bassa tra tutti i paesi d’Europa. Senza crescita il peso del debito pubblico non si può abbattere.
I banchieri centrali italiani si sono trovati a fare scelte non semplici a metà degli anni ’80 quando l’inflazione scese: tagliare i tassi d’interesse avrebbe potuto significare riaccendere l’inflazione. Ma adesso il paese se la sta vedendo con il fardello di politiche economiche che hanno preparato l’avvento dell’euro, politiche che, con il senno di poi, potrebbero aver mantenuto il tasso d’interesse troppo alto per troppo tempo.
Tratto da Wall Street Journal del 18/11/2011. Titolo originale: “Italy’s Debt Woes, 30 years making”.
Traduzione a cura di Roberto Polidori