di Vincenzo Vestita
Le mense aziendali dell’Ilva sono luoghi strani per il contesto in cui sono inserite. In poco più di mezzora si concentrano centinaia di lavoratori provenienti da diversi reparti per consumare il meritato pasto a metà della giornata di lavoro. E’ strano innanzitutto l’orario, le 11 di mattina; un orario in cui nelle city economico-finanziarie si inizia a pensare all’aperitivo in qualche prestigiosa caffetteria, noi in fabbrica (luogo in cui si sostanzia l’economia reale che più reale non si può) si va a pranzare. E siccome il tempo è denaro (il tempo è nostro, il denaro è del padrone), l’ora di pausa non è retribuita. Arrivi e fai la fila per lavarti le mani, fai la fila per prendere il vassoio e fai la fila per prendere un primo, un secondo e un contorno che, cambiando l’ordine degli addendi, sono praticamente sempre quelli (che sia profumo di mare o profumo di bosco, giusto il profumo ci trovi). Intanto un mega schermo posizionato strategicamente davanti ai tuoi occhi ti dice che nell’ultimo numero de “Il Ponte” il sindaco di Taranto elogia gli enormi sforzi compiuti dall’ ILVA nel rendere la fabbrica eco-compatibile e nel passaggio successivo un comunicato dell’ Ing. Buffo, Rappresentante della Direzione per la Qualità, l’Ambiente e la Sicurezza, ci spiega, in buona sostanza, che le prescrizioni contenute nell’Autorizzazione Integrata Ambientale non servono a niente perché l’ILVA è già eco-sostenibile così com’è e che il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale riguarda esclusivamente questioni tecniche. Non voglio entrare nel merito dell’ AIA concessa quest’anno dopo un iter lunghissimo, della quantità e della qualità delle prescrizioni previste alle quali l’ILVA deve attenersi per continuare a produrre acciaio; vorrei invece porre l’accento su quello che mi colpisce come un pugno nello stomaco ogni qualvolta osservo i comportamenti dei colleghi che mi accompagnano in quella diligente fila, ossia la straordinaria impermeabilità dell’operaio medio a temi che dovrebbero quantomeno solleticare un minimo di interesse.
Se in Italia ci sono oltre 50 milioni di allenatori di calcio, nell’ ILVA di Taranto sono concentrati gli 11.500 commissari tecnici della nazionale. E alla vigilia di Milan-Barcellona, partita clou di Champion’s League, quello che nei giorni normali è un mantra continuo, tra formazioni del fantacalcio e incredibili scommesse giocate alla Snai (una giocata di 3 euro la cui vincita finale ammonta a diverse migliaia di euro – vincita sfumata, chissà come, sempre per una singola partita –, il cui tagliando ti viene sventolato davanti agli occhi come prova concreta dell’esistenza del demonio), è diventata una psicosi collettiva. Ibrahimovic contro Messi, il calcio spettacolo del Barça contro quello meno “champagne” ma più concreto del Milan, Milanisti contro antimilanisti: le due file parallele di operai rumoreggiavano all’unisono. Sembrava di essere a Piazza Affari: c’era chi dava fiducia alle obbligazioni Milan, lanciandosi in entusiastiche previsioni quantomeno azzardate (“vinciamo 4 a 0, fidati”) e chi invece le vendeva come carta straccia (“do‘ ca$$ avit a‘scè!”). Alla fine della giostra, col vassoio pieno di prelibatezze da far impallidire la nouvelle cuisine, lo spread tra i granitici Bund catalani e i titoli di stato milanisti era arrivato a oltre 500. In buona sostanza neanche i tifosi rossoneri credevano nell’impresa.
Personalmente non sono mai stato un gran patito di calcio, per cui posso pensare, rigorosamente tra me e me e senza alzare troppo la voce, ad altri argomenti mentre consumo il mio regale pasto. E di argomenti quel martedì ce n’erano così tanti che la testa mi scoppiava.
L’amministratore delegato della FIAT, Marchionne, mette in scena il colpo di teatro finale di chi sa di avere il vento della crisi a soffiare potente nelle sue vele e, con la rescissione di tutti i contratti in tutti i siti della FIAT in Italia, abbandona il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di categoria su un binario morto. Circa 80.000 lavoratori del nostro paese, appesi ad un sogno chiamato Fabbrica Italia che di concreto ha solo un nome evocativo, dopo aver dovuto ingoiare il ricatto tra un lavoro più faticoso e con meno tutele e diritti e la disoccupazione, sono costretti a vivere un altro mese al cardiopalma. In questo periodo i sindacati di categoria si troveranno ad accettare a scatola chiusa i diktat della multinazionale dell’automobile, tirata su a massicce iniezioni di sussidi statali (è utile ricordarlo sempre); chi vorrà continuare a svolgere la sua funzione originale sarà spazzato via a norma di legge: almeno questo è lo schema d’azione e la speranza della FIAT. Non è previsto infatti nessun confronto, nessuna mediazione, nessuna contrattazione – elementi che sono l’essenza stessa del sindacato. Prendere o lasciare. E a Termini Imerese, stabilimento FIAT nel profondo Sud dell’Italia chiamato Sicilia, in cui le realtà industriali degne di questo nome si contano sulle dita della mano di capitan Uncino, è la FIAT a decidere di lasciare dopo 41 anni: giovedì 25 Novembre è stato l’ultimo giorno di lavoro per oltre 2000 lavoratori. Mentre rigiravo nel piatto quelle succulente pennette all’arrabbiata mi immaginavo quali sentimenti poteva scatenare nell’anima di un operaio sapere di serrare l’ultimo bullone dell’ultimo motore dell’ultima autovettura nel tuo ultimo giorno di lavoro. Quando il mondo al di fuori di quell’unica magra certezza in cui per anni sei stato costretto a rifugiarti brucia tuo malgrado – pensando che, dopotutto, in un posto come la Sicilia quel lavoro non era poi tanto male – passare dal purgatorio all’inferno nell’attimo in cui “smarchi” il tuo ultimo cartellino deve essere qualcosa di devastante. E una tremenda ingiustizia per la quale i colpevoli saranno osannati dalla storia come fautori di una catarsi necessaria nel nome della modernità.
La FIAT e l’ILVA sono due realtà produttive contigue, così legate l’una all’altra che credere che il destino dell’una sia indipendente dalle decisioni prese dall’altra significa vivere sulla Luna. E in materia di rapporti di forza la FIAT in Italia fa scuola da 100 anni. Mi interrogavo su quanto tempo debba passare prima che l’onda lunga dell’abbandono del CCNL da parte della FIAT arrivi da noi e che tipo di risposta le maestranze tarantine sarebbero in grado di mettere in campo.
Mi costrinsi immediatamente a cambiare i miei pensieri. Iniziai a riflettere allora sulla riforma previdenziale che il governo tecnico a guida Mario Monti presenterà tra qualche giorno e mi immaginavo li, con i pochi capelli rimastimi in testa canuti, un po ingobbito per via dei miei quasi 70 anni d’età, ricurvo su quel piatto di pennette all’arrabbiata, l’agenda piena di promemoria di funerali di colleghi spirati prima di raggiungere quella chimera irraggiungibile chiamata pensione e quei colleghi come me ancora “in forze” seduti agli altri tavoli a mangiare, a scannarsi bonariamente per un pallone che fa avanti e indietro, a maledire il fato per l’ennesima scommessa andata male. Panem et circenses… per fortuna o purtroppo ci sono cose che non cambieranno mai.