di Francesco Ferri
I tempi della riflessione politica non coincidono con quelli della cronaca, divergono in termini di ampiezza d’analisi e di obiettivi perseguiti. Questa circostanza, in passato sempre chiara a chi frequenta i movimenti, ai più è sfuggita nei momenti immediatamente successivi ai fatti del 15 Ottobre romano. Risultato: insospettabili si sono addentrati in giudizi rasenti categorie morali e penali finora mai esplorate dagli stessi.
Passata qualche settimana, la drammaticità della crisi economica ci fa percepire i fumi di Roma come lontani e forse è possibile addentrarsi con più lucidità verso riflessioni politiche più ampie. E’ interessante, nello scegliere una categoria che possa riassumere problematiche, errori e speranze dentro il 15 Ottobre, assumere la prospettiva contenuta nel termine partecipazione. Sforzandosi però di declinarlo in una prospettiva molto più vasta rispetto al riferimento solo ed unico, come un disco rotto, ai fatti accaduti da Via Cavour a San Giovanni.
Cosa vuol dire partecipare? Anche coloro che utilizzano categorie morali come terreno di analisi hanno utilizzato la partecipazione come oggetto dell’imputazione per gli indicenti verificantisi, sottolineando che i pochi che hanno causato gli incendi e le distruzioni hanno impedito ai più, appunto, di partecipare, contrapponendo a quegli incidenti la legittimità del percorso “precedentemente concordato dal coordinamento”.
Occorre a questo punto precisarlo: i fatti verificatisi da Via Cavour indubbiamente rappresentano un problema, autolesionistico dal punto di vista dell’efficacia e assolutamente non democratico nella costruzione. Ora, essendo consci dell’importanza del terreno di riflessione assunto, occorre indagare a fondo cosa avrebbe dovuto significare organizzare la partecipazione della moltitudine alla giornata del 15.
Qualcuno può sostenere in buona fede che il funzionamento del coordinamento nazionale che ha preso le decisioni fondamentali nell’organizzazione del 15 Ottobre – a partire dalla scelta delle parole d’ordine fino al percorso del corteo – sia stato caratterizzato da un processo di partecipazione alle decisioni dei tantissimi che poi hanno manifestato? Sembra decisamente difficile.
Un meccanismo del tipo “le sigle discutono e decidono e il resto aderisce alla decisioni altrove prese” ha contribuito a creare problemi in termini di condivisioni della pratiche di piazza? Sembra proprio di si.
Partecipare vs passeggiare. Ecco, da questo punto di vista nuovo, che rifugge i gemiti dei moralisti ma anche l’apologia di realtà di piazza che non esistono più, forse è possibile realmente riflettere sull’importanza della decisione sul perché e sul come si sta insieme.
Anche qui occorre fare chiarezza. Il problema della manifestazione romana non è rappresentato dalla circostanza per la quale essa sarebbe stata, senza l’intervento (sbagliato ed autolesionista) di qualcuno, una sfilata utile soprattutto a chi si è atteggiato ad essa in termini di rappresentanza. Il problema è che la decisione sui modi dell’agire collettivo non è povenuto dall’insieme dei manifestanti stessi, magari in assemblee precedenti – aperte, diffuse e partecipate – come è avvenuto nel resto del mondo, ma da (autonominati) delegati riuniti in un coordinamento distante e sordo.
Proprio per questo la pratica della minoranza che ha incendiato e distrutto, creando indubbiamente disagi agli altri manifestanti, in termini di danni alla partecipazione dei tanti appare speculare al coordinamento che si è arrogato il diritto di decidere per tutti come sarebbe dovuto essere il corteo, quale percorso avrebbe dovuto seguire, dove sarebbe dovuto arrivare e in che maniere le donne e gli uomini provenienti dai vari territori si sarebbero dovuti comportare. Due facce della stessa medaglia, idealmente contigue in termini di impedimento all’autonomia delle decisioni dei tantissimi che, in massa, hanno riempito le strade di Roma.
Partecipare vs rappresentare. Costruire movimenti che abbiano caratteristiche diametralmente opposto a quanto appena descritto è facile? Sicuramente no. E’ tremendamente più semplice arrogarsi il diritto di decidere per tutti i modi dello stare insieme, cosi come è indubbiamente semplice incendiare senza preoccuparsi del consenso e della condivisione. Occorre però chiarire, in maniera netta, che sicuramente è difficile ma non è niente affatto impossibile.
Per esempio, al di là dell’idea abbastanza semplicista e riducente che ne danno i media, sintetizzata dalla parola indignatos – che in realtà non appartiene al movimento – l’esempio spagnolo rappresenta, nei termini di analisi fin qui utilizzati, uno straordinario mondo da esplorare. L’elemento più importante, la novità dirompente della mobilitazione in Spagna è rappresentata proprio dal tema della partecipazione. La quale, nel paese iberico, non rappresenta un enunciato, una categoria morale astratta o un orizzonte lontanissimo di un altro mondo possibile come spesso viene declinata nel nostro Paese, ma viene vissuta al contrario come una pratica quotidiana, difficile e dura nel dispiegarsi cosi come straordinaria in termini di risultati.
Spazi pubblici enormi stracolmi di donne e uomini che discutono e decidono. Immense assemblee estenuanti. Complicate e lunghissime discussioni. Il risultato? Il movimento – eterogeneo, moltitudinario, ampio ed aperto – sul tema delle pratiche, lavorando a lungo, discutendo e partecipando ha trovato una sintesi. Di più: un’intuizione e una pratica che, per chiunque prova ad indagare forme e modi per rovesciare l’esistente, non può che essere un terreno di analisi fondamentale.
Tra il bianco del passeggiare insieme ed il nero che evoca assalti con molotov e spranghe ci sono infinite tonalità di grigio, ampiamente sperimentate in Spagna – dove le sfumature si sono tradotte in occupazioni, liberazione e autodeterminazione degli immediati orizzonti di vita, compresa l’autogestione di asili nido ed ospedali. Un orizzonte di azione che va estremamente al di là dei compartimenti stagni del bianco e del nero sui quali siamo portati a ragionare e delle noiose discussioni nostrane su violenza e nonviolenza, amici e nemici, buoni e cattivi.
Partecipare a Taranto. Il tema delle riflessioni in ordine alla categoria politica della partecipazione assume un’urgenza particolare anche a Taranto. Lo abbiamo percepito, nei dialoghi e negli scambi di suggestioni prima della partenza, durante il corteo e sulla strada del ritorno da Roma per Taranto. E lo esige, in maniera più ampia, la vita sociale e politica della nostra città.
C’è bisogno di interrogarci tutti insieme, con umiltà e senza posizioni precostituite, su come e quanto i cittadini partecipano alla vita politica e la connessione con le riflessioni sulle esperienze dei movimenti di cambiamento globale, da New York a Tunisi, può essere un’occasione per sprovincializzare i dibattiti che quasi sempre stancamente si rincorrono nella nostra città. A partire magari dalla sensazione ormai diffusa sulla continuità che l’amministrazione Stefàno, al netto del resto dell’analisi sui quattro anni e mezzo appena trascorsi, ha rappresentato in tema di distanza e separazione dei cittadini dai centri decisionali del potere.
Due passi indietro. Provando a concludere: ciò che dovremmo tutti fare, oltre all’indagare i fenomeni della società in termini di esclusione dalla vita politica e provare ad invertirli, è entrare nell’ottica che la parola partecipazione, assunta come terreno del possibile cambiamento, in primis ci deve far riflettere sull’opportunità dei nostri comportamenti, singoli e collettivi, sul nostro rapporto con il resto della comunità.
Ecco, il tema della partecipazione finisce per parlare anche e soprattutto a noi stessi.
Dovremo tutti renderci conto che coloro che si occupano in maniera sistematica del mondo che li circonda sono pochi, pochissimi , e che la maggioranza delle persone – spesso per colpa dei nostri atteggiamenti di autosufficienza, dell’incapacità di comunicare e di coinvolgere – attualmente è fuori dai circuiti di discussione sul futuro di Taranto e del mondo.
Dovremmo tutti in quest’ottica fare uno, anzi due passi indietro, favorendo in questo modo la presa di parola dei tanti, tantissimi, che normalmente non si occupano di politica, spesso spaventati dal nostro tentativo, più o meno cosciente, di essere protagonisti. Solo allora, tutti insieme, avremo la forza di gridare collettivamente e di costruire altro rispetto alla mediocrità delle nostre esistenze.
Cosa accadrebbe se, proprio a partire dal dare forza e vita alla parola partecipazione, dal costruire comunità aperte e attente alle parole di ciascuno, dallo sperimentare percorsi politici inclusivi e non sovradeterminati, riuscissimo a mettere in moto una parte di queste donne e di questi uomini?
Lo abbiamo assaporato con i referendum e molti (opportunamente) se ne sono subito dimenticati. Lo vediamo in Spagna, a New York, in Islanda, nel Maghreb,
Certo è che dalla partecipazione vera, totale ed entusiasta di chi era a Roma il 15 Ottobre, di chi non c’è potuto essere, di chi ancora non è interessato a questo tipo di dinamiche, che si gioca buona parte del nostro futuro e delle nostre vite.