di Serena Mancini
Paolo Sorrentino torna a stupire con il suo ultimo film dal titolo “This must be the place”, un progetto ambizioso che, ad una prima visione, appare confusionario perché attraversato da un flusso lento di immagini e situazioni spesso prive di continuità logica. Cheyenne è una rock star “in pensione”, un personaggio pacato in ogni suo gesto e infantile persino nella risata. Ormai lontano dai riflettori vive a Dublino e la sua esistenza sembra dipinta su tela senza alcuna sbavatura. Una villa elegante e sfarzosa, una moglie tuttofare innamorata di lui e un cane con il collare partecipano alla noia che attanaglia da anni la ex rock star, incapace di dare un svolta alla propria vita. Inconsapevolmente in attesa dell’evento che possa interrompere la sua agonia Cheyenne coglie l’occasione della morte del padre per allontanarsi da casa e intraprendere un viaggio importante. Obiettivo: trovare un criminale nazista che ad Auschwitz aveva tenuto prigioniero suo padre e vendicarlo.
Tutto qui, dunque? Effettivamente la trama è estremamente semplice, ma ciò che colpisce davvero è la straordinaria capacità del regista napoletano di offrire una serie di spunti metaforici, nascosti in ogni dialogo, in ogni sguardo e in ogni silenzio dei protagonisti. A contare è il dettaglio, il riferimento che prima viene mostrato, poi passa in secondo piano e infine riemerge carico di significato. Per questo una seconda visione del film è d’obbligo se davvero si desidera coglierne il senso.
Cheyenne confonde la noia con la depressione e questo elemento mostra il suo costante tentativo di scegliere la strada più semplice. Qualora fosse depresso basterebbero alcuni medicinali per aiutarlo, mentre se annoiato dovrebbe “uscire dal baratro” da solo e quest’idea inconsciamente lo spaventa. Il film può essere diviso in due parti: la prima mostra allo spettatore il mondo del protagonista, i personaggi che lo circondano e la sua incapacità di agire, la seconda invece intende narrare l’evoluzione della rock star e il suo tentativo di riprendere in mano la propria vita. Una sorta di romanzo di formazione, dunque, che segue il protagonista dall’infanzia sino all’età adulta. Il cerone del viso e il rossetto scarlatto della rock star celano in effetti un bambino mai cresciuto, privato dell’affetto del padre e costantemente bloccato dalla propria insicurezza. Cheyenne non ha mai fumato perché “solo i bambini non hanno mai provato il desiderio di fumare” e non prende l’aereo perché ormai non ricorda più nemmeno come si fa.
Il protagonista di Sorrentino non è però il David Copperfield di Dickens: non mira al riscatto sociale, ma ad una crescita psicologica mai realizzata prima. Non gli importa che l’aguzzino del padre possa essere già morto, ciò che conta davvero è portare a termine la sua missione. La storia del protagonista scorre parallela a quella di altri due personaggi: suo padre e il giovane Tony. Suo padre aveva affrontato il campo di concentramento e aveva continuato a lottare tutta la vita per ribadire la propria dignità e vendicare un’umiliazione. Quindi un personaggio carismatico perché perseverante in ogni sua azione. La figura di Tony emerge invece grazie alle parole di sua sorella e di sua madre che spesso ne evidenziano la fuga da casa. Fuga della quale non si coglie esattamente la ragione, ma che quasi coincide con la partenza di Cheyenne. Anche nel suo caso potrebbe essersi trattato di noia, di depressione o persino di semplice rifiuto di convivenza con i suoi famigliari, certo è che sua madre non riesce a rassegnarsi all’idea di aver perso un figlio. Come Tony anche Cheyenne si è assentato per diversi anni senza mai tornare indietro, attraverso un viaggio simbolico che l’aveva allontanato dal mondo reale, relegandolo in una posizione di subalternità. Aveva scelto la morte peggiore: morire rimanendo in vita. Adesso che invece il suo viaggio è tangibile la ex rock star può tornare sui suoi passi, affrontare l’età adulta e divenirne finalmente protagonista.
Il talento del regista è indiscusso nella capacità di alternare ironia a drammaticità. Tutta la narrazione è accompagnata da inquadrature lente che offrono un’analisi completa e dettagliata del comportamento umano senza mai stancare. Il risultato è un film insolito, a tratti sconcertante per la sua veridicità della quale, per dirla con le parole di Cheyenne, “qualcosa mi ha disturbato, non so cosa esattamente, ma mi ha disturbato.”