di Salvatore Romeo (’85)
Il rosso è un colore che attira la mia attenzione. Sempre. Ed il rosso delle scarpe di Martina era indubbiamente una distrazione da cui lasciarsi tentare. In realtà non conoscevo il suo nome. I capelli lunghi e biondi, cenere per l’esattezza, il suo volto, teso ed allungato, tradisce una giovinezza ormai sfiorita.
Avrei voluto parlarle. Semplice, direste voi. Ti avvicini la guardi e con sicurezza fai scorrere nel tuo esofago le parole “scusa ho come l’impressione di conoscerti”. Ma non ho mai amato le cose semplici. Benché parlare ad una sconosciuta bionda non sia cosa semplice. Di una cosa sono sicuro: mi avrebbe risposto che si chiamava Martina.
Poggiata ad un lurido bracciolo della poltrona, Martina leggeva con voracità un quotidiano; lo sguardo lento ed assorto lasciava trasparire un certo interesse per la situazione politica locale. Cosa ne so chiederete voi. Ho un difetto. Quando mi trovo in situazioni di promiscuità, non riesco a sopprimere l’impulso di allungare lo sguardo; non ritengo di essere un uomo curioso ma nel captare gli interessi altrui, riesco ad immaginarmi che tipo di persona io mi stia interessando. La sua bocca aperta per metà non lasciava spazio ad interpretazioni: Martina era senza dubbia una persona interessante ed io avrei dovuto parlarle. Ma in un treno il rumore di freni e binari, t’irrigidisce i sensi: l’udito scosso e ripetutamente violentato, cerca conforto nella vista; la tratta “Milano – Livorno centrale” ebbra di pianure e capannoni, poco s’addice a fornir rifugio. L’udito di Martina si rifugiava tra le bianche onde d’un quotidiano. Il mio nei suoi biondi capelli.
In realtà il conforto maggiore al mio stress da viaggiatore precario, proveniva dall’olfatto; anzi da una combinazione di vista ed olfatto. Le donne ,dicono, quando sono a loro agio, tendono a lasciar scorrere la mano fra le spighe mature dei loro capelli. Ciò, oltre ad un innegabile appagamento visivo, permette di captare il loro odore. E l’odore di Martina era semplicemente coinvolgente. Era il classico profumo di pesca delle pelli chiare, degli zigomi alti, degli occhi azzurri.
Mentre pensavo a tutto ciò, i miei occhi non avevano smesso di seguirne i movimenti; anche il più innocente degli sguardi, il più meccanico degli gesti o delle posizioni, mi donavano la sensazione che fossero stati fatti per me. Per attirarmi. In realtà sapevo che non era probabile la mia interpretazione ma il suo accavallare le gambe così ritmico e deciso, mi spronava ad avvicinarmi.
Ma spesso le gambe, come a vendicarsi del loro mesto ruolo nella gestazione dei sentimenti, si ribellano al fermo comando delle intenzioni: rimanevo così immobile al mio posto ad sognarne le mani ed il suo sorriso.
L’arrivo del controllore distrusse l’aura quasi sognante di cui mi ero scioccamente avvolto; è sempre così: anche quando hai svolto il tuo dovere da onesto e bravo cittadino pagante e belante, l’arrivo di una figura “d’ordine e disciplina” scatena un variegato “blend” di sensazioni. Si incomincia con l’irritazione verso quella ignobile figura che fiero di una cravatta rigata ed una giacca diverse taglie più grande, viene a dubitare della tua correttezza. Sono questi i momenti in cui succube di un istinto rivoluzionario, scovato nei più remoti anfratti del proprio cervello, vorrei ribellarmi all’ordine prestabilito negando l’esposizione del mio biglietto all’esterrefatto controllore. Ma il condizionale, come sempre, è giudice ed esecutore delle proprie intenzioni. Risultato: biglietto esposto con falso sorrisetto finale e tanta, tanta frustrazione.” Che occhiata truce, però!?! Sicuramente si sarà intimorito!” . Continuo a mentirmi.
Dopo il siparietto simil-comico con il controllore (più un monologo direi), un violento colpo di freni, mi induce a riprendere la postura del tutto innaturale; mi soffermo ad osservare il posto vuoto di Martina. Vuoto. Rabbrividisco di colpo al pensiero che lei sia scesa ma nel girarmi veloce verso il finestrino, ricevo un contraccolpo che mina la posizione della mia testa su in cima alla colonna vertebrale: Martina si è seduta accanto al mio posto. Non riesco mai a capacitarmi delle reazione umane ma per 10 minuti non distolgo il mio sguardo dal sedile vacuo del mio precedente incanto.
L’interpretazione dei sogni e dei gesti è sempre stata un mio grande interesse; scienze come la prossemica invadono pacificamente il mio pensare, ad ogni contatto umano che riesco a stabilire. Troppo facile quindi, mi affermo, le intenzioni di Martina: vuole instaurare un contatto. Mentre lo penso, lei incomincia a parlare. Quasi a giustificarsi dell’inatteso miracolo (o più semplicemente del cambio di posto), mi spiega che dal suo vecchio posto, che ora m’appare così vicino, entra da un intercapedine del finestrino, un acre odore di freni. Il sorriso finale termina quel discorrere lento e dolce come brezza in una giornata di sole di maggio. Ed io come i ciliegi in estate, risplendo d’un rosso intenso che solca il mio viso.
L’eccitazione fino ad allora provata, si limitava ad una mera ammirazione verso movimenti tenui e sinuosi, per un profumo dolce, così diverso dalla lugubre tramontana del mio passato. Ora a contatto con le sue lunghe gambe rosa ed il suo sguardo che si posa dove si posa il mio, nuove sensazioni incalzanti s’affacciano alle porte dei miei istinti. Le labbra rosse così ingenue ed innocenti prima, divengono farfalle da afferrare, strette tra l’implacabile morsa d’un bacio. Il suo corpo gentile nell’aspetto, diffonde nei miei sensi un elisir orientale: come un alchimia di attrazione sono spinto a sussurrarle nell’orecchio tutta la mia voglia, il mio desiderarla, il mio volerla.
Quando con rapida occhiata sembra rivolgermi gli stessi miei sentimenti avvolti tra i fili d’oro dei suoi capelli, mi convinco a parlarle. Uno squillo di telefono infrange le mie intenzioni in mille coriandoli taglienti. Rassegnato al peggio, mi convinco della mia possibilità quando le sento pronunciare il sostantivo “papà”. L’idea dia verla persa senza nemmeno averle parlato avrebbe saziato i miei sensi di colpa per un periodo chissà quanto lungo. L’osservo parlare e la sua bellezza quasi infantile diviene spietata e sensuale: che quadri che riesce a dipingere il desiderio mormoro tra i miei capelli. Per quanto possa essere un tipo calmo e razionale, mi sorprendo dalla reazione del tutto scomposta che le sue espressioni mi procurano. Un esplosione in petto m’avvisa, se ce ne fosse stato davvero bisogno, che la telefonata è finita e un improvviso imbarazzo pervade il mio spirito.
Una frenata. L’ennesima del viaggio. Non fai in tempo ad intuire il ritmo dell’oscillazione della carrozza che un evento improvviso ed esterno giunge a modificare le tue certezze. E le frenate sono quanto di più improvviso e destabilizzante possa esistere. Ma per quanto possa essere forte la scossa appena subita, non riesce ad far vacillare le mie certezze. Sono convinto: le parlo.
Come accade spesso nella vita, sembra che gli eventi si ripetano per ritrovare l’equilibrio perduto precedentemente. Fateci caso: se nel giro di poche ore la vostra giornata è variata più volte, voltatevi (in senso figurato ovviamente; se non avete compreso ciò chiedete scusa alla vecchietta seduta dietro di voi che certamente avrà trovato motivo di preoccupazione nel vedere girarvi così velocemente) e ripensate a ciò che vi è successo; v’accorgerete sicuramente d’ un frammento di quotidianità che si è ripetuto nel mosaico della vostra giornata.
Domato il turbinio dei miei pensiero, alzo gli occhi in cerca dei suoi, piccoli specchi che riflettono puntati verso il mare di casa mia. Non ci sono. Smarriti tra i venti della mia indecisione. Attonito cerco con vana speranza, un lembo della sua chiara pelle tra le inutili figure che affollano il treno. La scorgo con lo zaino poggiato sulle esili spalle. Al di là del finestrino, immersa tra le tristi onde della quotidianità. Mi sporgo dalle porte mentre queste si chiudono; non credo ai superpoteri ma le avrò trasmesso telepaticamente qualche segnale elettrico perché, senza apparente motivo, si gira. Mi fissa. Nel suo sguardo risiede tutta la tristezza di una vita felice in due. Di una vita che era la nostra. Di una vita che non faremo.
Il treno lentamente riprende la sua folle corsa senza principio, senza apparente meta .
La mia si sta allontanando con crescente velocità.