di Francesco Ferri
Il dato numerico complessivo in tema di referendum, e ancor di più gli elevatissimi elementi emozionali in termini di partecipazione finiscono per essere, nel medesimo instante, occasione difficilmente riproponibile e responsabilità pressante. L’irresistibile fascino del possibile cambiamento dello stato di cose esistenti acquista, indubbiamente, valori e potenzialità assolutamente non ipotizzabili anche solo qualche mese fa, prima della campagna referendaria stessa, delle mobilitazioni rilanciate dalla Fiom a partire dallo scorso autunno, dall’immaginario creato dalle manifestazioni studentesche culminate nel poderoso 14 dicembre romano e delle recenti sconfitte del centrodestra nelle elezioni amministrative.
Consci della difficoltà di mettere a fuoco un fenomeno – quello dei referendum – di così elevata complessità di lettura a così pochi giorni di distanza, appare comunque opportuno provare a tracciare alcune linee di un possibile, seppur parziale, ragionamento. Un’ avvertenza: quando in seguito si parlerà di referendum e comitati referendari, si farà riferimento ai primi due quesiti e al comitato “2 si per l’acqua pubblica” (già comitato “Acqua bene comune”). Non certo perché gli altri quesiti, in particolare quello riguardante il nucleare, appaiono meno importanti, al contrario. Proprio per provare a dare una bozza di lettura complessiva dei fenomeni in gioco, l’indubbia forza in termini di suggestioni evocate della parola comune, presente nel lessico di presentazione e nella costruzione concettuale in materia di servizio idrico, sembra indicata ad incorporare, sicuramente dal punto di vista del metodo, anche il modus operandi dei comitati contro il ritorno all’energia dell’atomo.
Una prima importante conferma che ci perviene dalle mobilitazione intorno alla campagna referendaria è caratterizzata dalla circostanza per la quale, indubbiamente, la storia non è finita. Lo straordinario risultato del referendum – e la storica campagna referendaria che l’ha preceduto – ci aiutano, forse con una certa definitività, a sbarazzarci di una prassi di ragionamento spesso implicito, ma fastidioso e inopportuno almeno quanto persistente e deleterio: che la storia, in qualche modo, segua il solco di un percorso già tracciato e che la capacità di indignarsi, di fare movimento e di provare a sovvertire l’esistente segua, da trent’anni a questa parte, un andamento che dagli alti degli anni 70′ conduce inesorabilmente ai bassi contemporanei, senza che niente e nessuno possa far si che questo presunto piano inclinato delle forme di resistenze possa variare di angolazione.
Ecco, la portata delle mobilitazioni intorno al referendum, insieme con le mobilitazioni degli operai Fiom e degli studenti ci aiutano a comprendere, una volta per tutte, che la storia non è finita ieri, non finirà domani, che non è ciclica, né immutabile, né precostituita. La storia, da quando il mondo esiste, la fanno le donne e gli uomini, ogni giorno.
Guardando oltre, provando a riflettere sul metodo di costruzione degli spazi di discussione e di prassi intorno alle tematiche del servizio idrico, ci appare subito evidente che da questa prospettiva arrivino risposte tendenzialmente definitive a conferma dello stato irreversibilmente comatoso del concetto di rappresentanza.
Chi si sforza di descrivere la notevolissima partecipazione alle urne in termini di un presunto rigurgito di attrazione nei confronti delle elezioni è quanto meno poco attento, se non in malafede. Il referendum, per sua stessa ragion d’essere, è un meccanismo antitetico alle idee di rappresentanza e di elezioni. Per la Costituzione, e per un consolidato immaginario collettivo, la possibilità di cassare immediatamente una norma, senza mediatori di alcun genere, è sintomo del desiderio di provare ad acquisire uno spazio di auto-rappresentazione non più filtrata, ma per una volta (e, forse, per sempre) diretta.
Poi, lo straordinario percorso politico, e di forme di vita materiale, praticato dai centinaia di comitati referendari locali – donne e uomini che si incontrano, imparano a conoscersi, si contaminano – pone fuori fase l’idea stesso di partito, inteso come organizzazione strutturata sul piano della delega interna nel rapporto militanti/dirigenze ed esterna nella dicotomia elettore/eletto.
Seguendo questo ragionamento, l’esperienza dei referendum ci mostra che, ancora nel 2011, con la crisi economica ancora tutt’altro che archiviata, dalla Sicilia fino all’estremo Nord, tra alti e bassi, una linea di mobilitazione di massa, capace di tenere insieme una straripante voglia di prendersi la parola collettivamente insieme a maturità e profondità della proposta politica (stiamo parlando, ricordiamocelo, del comune) sia non solo certamente attuabile, ma anche replicabile. L’assenza di simbologie retoriche e minoritarie, la scelta di far parlare il merito (avanzato) delle controversie senza ingabbiarlo in sterili liturgie, la scelta di linguaggi freschi e agili risultano elementi senza dubbio vincenti.
Da strutture di intervento laiche ed attraversabili sul piano della comunicazione, finalmente sganciate dalla fallimentare riproposizione del mito dell’antimoderno, passa un’ipotesi, per ora parziale ma concreta, di superamento dell’ultimo trentennio di totalizzante post-fordismo, insieme al suo infame mito dell’efficienza (soltanto presunta) dell’affidamento ai privati dei servizi pubblici, finalmente e forse definitivamente cassato dai quesiti referendari.
In ultimo, nel tentativo di provare a racchiudere il senso della portata complessiva dell’esperienza intorno ai referendum, la categoria del comune – praticata dal punto di vista sia terminologico che di prospettiva politica dal comitato contro privatizzazioni e profitto sui servizi idrici – risulta indubbiamente utile a sintetizzare spirito, corpo e progettualità dell’esperienza descritta.
L’indubbio fascino del concetto, che riesce a fuggire contemporaneamente sia dalle trappole del privato e dai limiti del pubblico, e l’enorme capacità di evocare suggestioni risiedono, sicuramente, nella capacità di lettura della fase praticata da chi ha introdotto, qualche anno fa, il concetto e ancor di più di chi, attorno e per il comune, ha plasmato la propria esistenza. Percorsi di vita straordinari, nuovi modi di stare al mondo, ricerca costante di spazi pubblici non statali.
Dentro e fuori i centri sociali, intorno a comunità virtuose della più variegata natura e tipologia, in ogni luogo di scambio e contaminazione non soggetto alle logiche del profitto, il comune è nato e cresciuto, spesso in silenzio e in disparte, costruendo istituzioni autonome dai poteri costituiti (di qualsiasi colore politico) e proprio per questo capaci di essere libere, aperte e solidali. Un modo altro di stare al mondo, di percepire il proprio rapporto con le donne e gli uomini, e di percepire la propria comunità.
Tutto questo, indubbiamente, dopo le 15 di un Lunedì pomeriggio di fine primavera acquista prospettive finora difficilmente pronosticabili. Le mobilitazioni intorno ai referendum, seguendo il solco segnato dalle mobilitazioni degli operai Fiom e dei soggetti in formazione dello scorso autunno, ed ampliandolo, hanno legato la prospettiva del comune ad una potenziale ed irresistibile logica di massa.
Se per Marx (cit. P. Virno) la trasformazione radicale dello stato di cose presente consiste nel conferire il massimo risalto e il massimo valore all’esistenza di ogni singolo membro della specie, la proposta politica, chiara e puntuale, praticata da tutte le soggettività che si sono mobilitate nella campagna referendaria appare, tanto sul piano del merito che nelle ipotesi di metodo, una possibile e concreta via di fuga dal post-fordismo in crisi.