di Francesco Ferri
Un primo sguardo, fugace e distratto, attorno alle dinamiche che hanno attraversato il corteo dello scorso 6 Maggio – giornata dello sciopero generale indetto dalla Cgil contro le politiche del governo Berlusconi – mostra uno scorcio di realtà che sembra di una semplicità disarmante, che rasenta il limite della banalità. Una parziale analisi delle caratteristiche macroscopiche dei personaggi in scena sembra confermare questa tesi. Al governo c’è un schieramento di centrodestra che, in linea con i corrispettivi europei, è arroccato – e non certo da ora – su posizioni assolutamente distanti dagli interessi dei lavoratori salariati e, ancor di più, da chi un salario lo percepisce in maniera intermittente, o non lo percepisce affatto. Sembra, quindi, assolutamente pacifico che la maggior organizzazione sindacale italiana scelga di attuare uno sciopero accompagnato dai connotati di generalità. Governo conservatore distante e sordo, sindacato maggiormente rappresentativo che indice, appunto, lo sciopero generale.
Fine della storia? Evidentemente no. La realtà, come sempre accade, è estremamente puntiforme e necessita di innumerevoli sforzi di approfondimento. La traccia del ragionamento che proviamo a seguire si concentra in particolare su due aspetti che finiscono per risultare decisivi quando si prova a valutare l’efficacia di un’azione oppositiva, come quella messa in atto dalla Cgil, di ampio raggio: attori in scena e tempistica dell’azione.
Innanzi tutto, il governo italiano è si contiguo ai rigurgiti di neoliberismo che imperano in Europa, ma appare in assoluto la versione più feroce del peggior conservatorismo europeo, e di certo non solo per gli inflazionati motivi processuali.
Occorre quindi interrogarsi su cosa voglia dire, nel tempo in cui il governo Berlusconi, accerchiato dai problemi giudiziari, si mostra più feroce e rabbioso, indire uno sciopero generale. Appare infatti evidente che, come ogni qual volta ci si assume l’onere di associare ad un fenomeno conflittuale i connotati di generalità, si fa propria una responsabilità precisa: ci si assume il compito di provare a far approdare la micro vertenzialità in atto ad un livello successivo, più diffuso e più avanzato.
Le mobilitazioni di massa, le vertenze diffuse sui territori, le conflittualità prodotte hanno sempre, com’è noto, un andamento a climax: crescono, si alimentano a vicenda, si diffondono sui territori fino a raggiungere un picco. Poi, inevitabilmente, discendono. Se l’obiettivo di un’organizzazione sindacale, nell’indire una mobilitazione dall’ampio raggio, è la volontà di dare rappresentanza e forza alle varie mobilitazioni in atto, è assolutamente chiaro che la tempistica con la quale si è convocato lo sciopero è, quanto meno, totalmente errata.
I ragionamenti che si colgono intorno al tema della tempestività dell’azione della Cgil, nel (breve) corteo che partendo dall’Arsenale militare, è arrivato alla (vicina) piazza Maria Immacolata nel centro di Taranto, sono racchiusi nella distanza che intercorre tra un “meglio tardi che mai”, e un “la marea ormai è passata, e ci ha travolti”.
Occorre essere prudenti, certo, La convocazione di uno sciopero generale, indubbiamente, resta sempre una scelta politica importante, difficile e rischiosa. E risulta ancor più delicata se messa a sistema con un altro dato allarmante, e certo non nuovo: l’assenza, assoluta, delle altre organizzazioni sindacali confederali sulla tematica della mobilitazione generale, in maniera del tutto coerente con un diffuso atteggiamento collusivo nei confronti del governo. Nonostante ciò, o probabilmente a maggior ragione, numerose perplessità rimangono intorno alle scelte in tema di ritardi e tentennamenti che hanno caratterizzato gli scorsi mesi del sindacato della Camusso.
Nel passato autunno il livello di conflittualità, alimentata dalle rivendicazioni della Fiom (soprattutto a livello nazionale) e dalle mobilitazioni contro la riforma Gelmini (in maniera assolutamente rilevante anche a Taranto), ha avuto un’imponenza – per fermezza delle rivendicazioni, per diffusione territoriale e per maturità delle pratiche adottate – assoluta. Difficile immaginare cosa sarebbe stato lo sciopero generale convocato, per esempio, giusto qualche settimana dopo le storiche mobilitazione del 14 dicembre. Quel che appare incontrovertibile è che, comunque, il senso della giornata – per consapevolezza della posta in gioco, indubbia difficoltà del governo e desiderio diffuso di bloccare materialmente il paese – sarebbe stato radicalmente diverso.
Poi, l’altra sensazione che avvolge i partecipanti al corteo tarantino è una strana sensazione, mix tra mancanza di completezza, attesa continua e sentimento di privazione. Il dato che immediatamente si fa notare non è la quantità numerica degli aderenti alla manifestazione, configurabili tra le millecinquecento e le duemila unità. Di certo in un contesto politico, a livello nazionale e territoriale, decisamente arido, i numeri in gioco non appaiono insoddisfacenti. Ciò che colpisce un po’ tutti i presenti è la ridotta presenza di operai Ilva. Ad un numero di qualche decina di coraggiosi ragazzi che, nonostante le continue difficoltà nel ritrovarsi schiacciati tra crisi economica incessante, precarietà ambientale e ricatti di svariata natura, si fanno sentire visivamente e sonoramente, corrispondono alcune migliaia di operai che il 6 Maggio hanno scelto di non scioperare.
Un’ultima riflessione sembra l’unica che si possa accompagnare con elementi di novità per il presente, e interessanti prospettive per il prossimo futuro. Accanto ed oltre lo sciopero praticato dalla Cgil, in tantissime città si è manifestata una nuova forma di mobilitazione. Insolita, colorata, programmatica, efficace. Nasce da un dato di fatto tangibile e disarmante: la facoltà stessa di scioperare, storicamente la modalità per eccellenza per provare ad acquisire nuovi diritti o (come in questa fase) difendere quelli esistenti, spesso non è normativamente praticabile dalla generazione dei Co.co.pro., delle partite Iva, degli stage gratuiti.
Per provare a porre materialmente elementi di discontinuità in tema di negazione del diritto di sciopero per chi è costantemente avvolto dalla precarietà, la piattaforma Uniti per lo sciopero, da Genova a Bologna, da Roma e Napoli, ha attuato forme di mobilitazioni inconsuete. Cortei spontanei, lunghi e colorati, dal percorso imprevedibile e dalla composizione eterogenea, che interagiscono con lavoratori e precari che non hanno la possibilità di scioperare, bloccando di fatto gli esercizi commerciali rimasti aperti. Il risultato è un’interessante e continuo contatto, scambio, contaminazione tra chi il diritto di astenersi dal lavoro lo possiede e chi, tra tutti gli altri drammi, non possiede neanche questa facoltà.
Il livello immaginifico che accompagna questa nuova pratica è abbastanza chiaro: è una sfida, aperta, nei confronti del governo Berlusconi, ennesimo affossatore dei diritti delle categorie caratterizzate dal massimo grado di sfruttamento, ma anche un messaggio, determinato e preciso, nei confronti della Cgil. Gli spezzoni di Uniti per lo sciopero, che hanno attraversato il percorso delle manifestazioni ufficiali, ma allo stesso tempo hanno deviato, cambiato strada, mostrano visivamente la presenza di vite precarie, difficili e straordinarie che, anche dal sindacato, si sento poco tutelate, e per niente rappresentate.
Anche nel capoluogo Ionico, dietro lo striscione Uniti per lo sciopero Taranto i ragazzi del Link, gli attivisti del centro sociale Cloro Rosso, insieme ad altre realtà del territorio, hanno provato a ragionare in questi termini. Come è evidente, ogni territorio è caratterizzato da un livello di capacità di mobilitarsi propria, e in questo senso a Taranto c’è tantissimo da lavorare. Qualcosa di nuovo, in ogni caso, anche alle nostre latitudini si è manifestato il 6 Maggio: soggetti tra loro diversi per prospettive e progettualità hanno provato ad aprire un discorso comune dentro ed oltre il corteo della Cgil. La nostra città, indubbiamente, ha assoluta necessità di un tentativo di ragionamento in questi termini: soggettività diverse per formazione e percorsi personali, accomunate da voglia di pensarsi in prospettiva e desiderio di mettersi in gioco, che provano ad immaginare, insieme, frammenti di una vita diversa.