La vicenda dell’ILVA di Taranto rappresenta un plastico esempio di come nel nostro Paese le situazioni, specie quelle paradigmatiche, vengano affrontate con un approccio tale da farci apparire agli occhi degli stranieri come coloro che cercano facili (e a volte improbabili o peggio ancora improponibili) scorciatoie per venire fuori dai pasticci. L’ opzione “facile” in questo caso non è contemplata, rimane quindi da stabilire se la soluzione adottata sarà improbabile o improponibile. Ovviamente scartando a priori, come da italica tradizione, quella necessaria.
Il 2012 può essere considerato a tutti gli effetti un nuovo anno zero per la “fabbrica dell’acciaio” della città dei due mari, una sorta di spartiacque tra un passato di 50 anni i cui danni sanitari ed ambientali sono stati definitivamente accertati e un futuro per niente scontato. Quel che risulta sicuro è che nulla potrà più essere come prima. Il sequestro senza facoltà d’uso degli impianti maggiormente responsabili dell’inquinamento causa di una maggiore incidenza di malattie e decessi rispetto ad altre realtà nazionali ha sbriciolato la monolitica certezza dell’intangibilità dello stabilimento così come gli arresti (pur ai domiciliari) dei Riva e dell’ex direttore dello stabilimento Capogrosso ha fatto venir meno quell’aura di intoccabilità dei vertici di una delle famiglie più ricche e potenti d’Italia.
L’effetto della nomina di Ferrante, considerato da tutti un poliedrico mediatore con un passato nelle Istituzioni, come nuovo presidente del gruppo un paio di settimane prima dell’inizio della “ tempesta giudiziaria”, ha oramai esaurito la sua componente di novità e di immagine di persona dialogante. Sembrano lontani infatti i giorni del comico defenestramento del “tentacolare” Archinà, passato da “fedele esecutore” a “capro espiatorio” nel giro di qualche ora solo perché pare utilizzasse fondi (aziendali) per ammorbidire l’informazione, le orazioni domenicali e qualche rilievo del perito incaricato dai magistrati, ovviamente tutto all’insaputa dell’azienda stessa, anche questo come da italico costume. Sembrano lontani i giorni in cui in maniche di camicia veniva in mensa a dialogare con noi operai, quasi a voler imprimere attraverso una immagine forte nelle nostre teste il “nuovo corso” dell’azienda; a tal proposito vorrei cogliere l’occasione, se mai il Presidente leggesse Siderlandia, per invitarlo a venirci a trovare nuovamente, in modo da spiegarci l’incomprensibile richiesta di cassa integrazione per 2000 lavoratori dell’area a freddo, dopo le continue rassicurazioni sui livelli occupazionali e soprattutto in considerazione del fatto che gli impianti sottoposti a sequestro sono altri. Fuor di metafora abbiamo capito il giochetto. E se la partita a scacchi che l’azienda (con il governo) vuole mettere in piedi con la magistratura entra nella sua fase critica, i primi ad essere ingaggiati sono come sempre i pedoni, in ottemperanza al “vecchio stile Riva”.
La mancata accettazione della nuova Autorizzazione Integrata Ambientale, la foglia di fico sotto la quale la proprietà ancora nasconde le sue reali intenzioni sulla volontà di mettere a norma secondo gli standard europei gli impianti sottoposti a sequestro e mai quantificate in una cifra congrua alla soluzione del problema, unito all’attacco del ministro dell’ambiente verso la magistratura che anche nel senso comune di noi lavoratori è sembrato piuttosto scomposto, alimenta giorno dopo giorno un clima di incertezza assoluta, che diventa sconcerto se unito alla richiesta di collocazione in cassa integrazione. Se da una parte infatti i magistrati sono dovuti intervenire in maniera così drastica, supportati da dati scientifici ambientali ed epidemiologici prodotti allo scopo di accertare un dolo, dando seguito all’obbligatorietà dell’azione penale prevista dal nostro ordinamento e dall’altra parte l’azienda oppone la messa in opera degli investimenti come subordinata al dissequestro degli impianti incriminati senza quindi rimuovere prima il dolo, spalleggiata in questa strategia dal governo, al centro finiscono i lavoratori stritolati da questo gioco delle parti impostato su conflitti di attribuzione tra poteri dello stato.
Basterebbe fare solo ciò che è giusto e necessario, come si fa normalmente in paesi che si considerano democratici e civili. Succede in altre parti d’Europa, dove la presenza di complessi industriali in generale e siderurgici in particolare è ben più pesante, che gli studi sugli impatti sanitari ed ambientali vengano commissionati e portati avanti dalle agenzie ambientali pubbliche e non dai magistrati, che i risultati producano piani d’azione per rispettare delle leggi obiettivo ambientali europee ed essere pronti a rispettarle dal primo giorno in cui queste entrano in vigore, che si costringano le aziende a prendere tutti i provvedimenti susseguenti, anche quelli più drastici, a prescindere dagli investimenti necessari allo scopo. Tutto questo è successo in Germania tra il 2000 e il 2004, nel Nord Reno-Westfalia.
Per quello io come tanti altri miei compagni di lavoro, alla domanda che spesso noi stessi ci poniamo: “Lavorare in fabbrica significa difendere l’ILVA?” abbiamo iniziato a risponderci che noi non vogliamo difendere l’ILVA, che la magistratura fa bene ad andare avanti anche fino alle estreme conseguenze, che il problema esiste, è serio e va risolto, che un lavoro vero non provoca danno a se stesso e agli altri. Sulla nostra pelle stiamo acquisendo la consapevolezza per la quale difendiamo l’idea che è possibile produrre acciaio in impianti all’avanguardia dal punto di vista dell’impatto ambientale, perché saremo anche operai ma non ci sentiamo PIGS.