di R. Pezzuto e S. Romeo
Il 10 novembre si è tenuto a Firenze il primo incontro nazionale della campagna “Io voglio restare”. Si tratta dell’avvio di un percorso che mira a trasformare radicalmente il paese assumendo la condizione giovanile come una delle questioni cruciali che deciderà dell’avvenire del paese. Se l’Italia non saprà offrire opportunità alle giovani donne e ai giovani uomini che la popolano proseguirà il declino che ormai da tempo la caratterizza. Fino a che punto non si sa, ma non ci sfugge che in passato il nostro paese è stato in grado di bruciare primati conquistati con fatica fino a ridursi a una squallida periferia. La Storia si ripete ogni volta che i suoi attori ne dimenticano le lezioni.
Abbiamo aderito con convinzione all’appello “Io voglio restare”. Lo abbiamo fatto partendo dalla provincia di Taranto, una delle più disgraziate d’Italia. Le questioni che la campagna pone infatti sono espresse dal nostro territorio in forma quasi estrema. Un’emigrazione giovanile fortissima, che di fatto rappresenta un vero e proprio drenaggio delle energie migliori; una disoccupazione giovanile che alimenta situazioni di marginalità, degrado e disperazione. In questa polveriera – che ha continuato ad accumularsi nel corso degli ultimi decenni – la crisi ha innescato un’esplosione devastante: ora che anche nei principali centri di emigrazione le opportunità vanno facendosi sempre più scarse il dilemma per una ragazza o un ragazzo di Taranto che deve decidere del proprio futuro diventa ancora più drammatico. O si espatria o si sprofonda nel limbo dei NEETs – l’acronimo anglosassone che indica chi ha finito gli studi, non ha trovato lavoro ed è talmente demotivato da non cercarne neanche uno.
Alla base di tutto questo c’è il modello di sviluppo prevalso negli ultimi decenni nel paese, che trova nella nostra provincia una manifestazione sconcertante. In generale, il sistema produttivo italiano non è stato in grado di promuovere una robusta campagna di innovazione, basando la propria competitività con i più attrezzati competitori internazionali sull’ipersfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente.
A Taranto queste circostanze si trovano saldamente intrecciate nella questione ILVA. A cavallo fra il vecchio e il nuovo secolo è stata portata a termine una ristrutturazione complessiva della fabbrica: ha fatto il suo ingresso in stabilimento una nuova giovanissima classe operaia, quasi per nulla sindacalizzata e poco preparata alla durezza del lavoro che le veniva consegnato; contestualmente ILVA ha accentrato a Taranto la totalità della sua produzione di acciaio. L’intensificazione dei ritmi di lavoro che ne è conseguita, a fronte del mancato radicale ammodernamento degli impianti, ha avuto effetti drammatici sulla sicurezza dei lavoratori e sulla salute loro e dell’intera cittadinanza.
Nel frattempo, fuori dai cancelli, la situazione economica della provincia è andata degradando progressivamente. A seguito del cambiamento intervenuto nelle Politiche Agricole Comunitarie, l’agricoltura ionica si è trovata a subire la concorrenza delle nuove produzioni provenienti dalle aree periferiche dell’Unione Europea e dai paesi extracomunitari del bacino del Mediterraneo, uscendo rapidamente fuori mercato. Analogo destino è toccato alla manifattura tradizionale (tessile, confezioni, alimentare ecc.). A fronte di tutto questo non vi è stato lo sviluppo di un’economia della conoscenza, che avrebbe potuto dare un impulso all’innovazione delle imprese agricole e manifatturiere.
Questo insieme di circostanze ha alimentato un crescente dualismo sul piano economico: le sole attività in grado di restare sul mercato sono a tutt’oggi le grandi industrie; sul piano sociale le conseguenze sono state il progressivo inasprimento del ricatto occupazionale nei confronti dei lavoratori di quelle realtà e la spinta all’emigrazione per tutti gli altri; sul piano ecologico, gli esiti nefasti di quel modello sono sotto gli occhi di tutti.
Volendo ricercare una causa per tutto questo ci si viene a scontrare con l’indirizzo conservatore costruito e difeso dai gruppi che hanno diretto (in ambito politico, economico e culturale) il territorio nel corso degli ultimi decenni. La direzione imboccata si riassume in un “lasseiz faire” straccione: le imprese grandi e piccole hanno potuto decidere i propri investimenti in base alla convenienza del momento, ignorando che le sfide aperte dall’ingresso dell’Italia nell’Euro, dal progressivo ampliamento dell’Unione Europea e dalla rapida emersione di nuove potenze economiche avrebbero richiesto uno sforzo di innovazione che nessuna delle realtà presenti nel territorio ha voluto o saputo affrontare. Si è preferito che questo modello mostrasse per intero la sua insostenibilità piuttosto che avviare per tempo strategie volte ad arrestare il declino. Sarebbe stata necessaria una politica agricola mirata a specializzare le produzioni attraverso l’impiego di personale competente e a costituire consorzi che consentissero di sostenere i costi della ristrutturazione del settore; sarebbe servita una politica industriale che sollecitasse l’innovazione di processo e di prodotto – attraverso la promozione di attività di Ricerca e Sviluppo – e l’irrobustimento delle imprese minori; sarebbe stata indispensabile una politica ambientale che imponesse alle grandi industrie (ILVA, in primis) una radicale modernizzazione del ciclo produttivo. Ma queste trasformazioni avrebbero richiesto la messa in discussione di vecchi e consolidati equilibri: piuttosto che esporsi ai rischi legati all’innovazione, buona parte dell’impresa presente in loco ha preferito continuare a spremere i lavoratori e l’ambiente e a rigettare come superflui i contributi dei giovani preparati.
Le forze politiche che hanno governato il territorio in questi anni d’altra parte hanno concesso piena agibilità a questo atteggiamento, utilizzando spesso e volentieri le risorse pubbliche per sostenere quel sistema e legare saldamente a sé gli interessi economici prevalenti (si veda l’intera vicenda del dissesto del Comune capoluogo). All’occorrenza non hanno mancato di cedere alla corruzione, chiudendo entrambi gli occhi di fronte alla catastrofe in atto sul piano ambientale. Quelle stesse risorse dissipate per ingrassare un sistema marcio, incanalate in una strategia di modificazione del modello di sviluppo, avrebbero potuto e dovuto alimentare nuove opportunità, a partire dalla promozione di sedi universitarie qualificate (addette non solo alla formazione, ma anche alla ricerca e all’applicazione) in grado di studiare e offrire soluzioni alle esigenze del territorio – in primis, alla drammatica questione ambientale.
Se ci si chiede come mai tutto questo sia potuto passare senza un’opposizione forte in primo luogo da parte dei soggetti più penalizzati dal modello dominante, non si può non considerare la funzione che l’emigrazione ha svolto come valvola di sfogo per le tensioni sociali. Piuttosto che rivendicare opportunità all’interno del proprio territorio, per i giovani della provincia jonica è stato senz’altro più facile fare le valigie e partire, per cogliere le occasioni offerte da ambienti più vivaci. In questo modo la società civile locale è andata progressivamente impoverendosi ed è venuto meno un elemento di ostacolo per la strategia di conservazione dei gruppi di potere. Al contempo però si è spalancata una voragine di fronte a quel sistema. Non solo infatti si è disperso un possibile contributo di conoscenze e competenze che avrebbe sollecitato lo sviluppo delle attività presenti nel territorio, ma lo stesso mercato locale ha subito contraccolpi negativi: la domanda di beni e servizi espressa dai più giovani è andata infatti ad alimentare la crescita di altre aree del paese. Con la conseguente limitazione del mercato locale si è manifestato un ulteriore fattore di accelerazione del declino della provincia jonica.
In breve, l’emigrazione è il fulcro del circolo vizioso che da almeno due decenni caratterizza la provincia jonica. La situazione di Taranto, d’altra parte, esprime una tendenza emblematica di tutte le aree periferiche del paese (a cominciare dalle province meridionali) – e che la crisi sta estendendo all’Italia intera. La radice comune è un modello basato sull’intreccio perverso fra poteri pubblici e interessi economici: i primi si sono limitati a tutelare e favorire i secondi, anche quando questi perseguivano obbiettivi chiaramente dannosi per il paese. Si è lasciato così che le imprese continuassero a investire briciole in Ricerca e Sviluppo, che preservassero strutture e modi di operare antiquati, che scaricassero le proprie inefficienze sui lavoratori e sull’ambiente, che coltivassero livelli indecenti di evasione fiscale. Lo si è fatto non solo con la tolleranza, ma con politiche mirate a frammentare il mercato del lavoro, a destrutturare quello che resta della formazione e della ricerca pubbliche, a consentire l’aggressione del paesaggio. Si è così consolidato un sistema di potere che tiene saldamente insieme i vertici delle principali forze politiche, apparati dello Stato e soggetti economici piccoli e grandi. Un sistema che ha costituito un ostacolo impermeabile all’emersione di forze di rinnovamento. E’ questo il muro da abbattere.
Per farlo occorre attivarsi e organizzarsi. Non si può più continuare a considerare l’emigrazione come un fatto naturale, ma finalmente guardarla in faccia per ciò che è: uno strumento che i gruppi che detengono il potere in Italia utilizzano per auto-conservarsi. E’ necessario dunque iniziare a strutturare da subito la campagna “Io voglio restare” in ogni provincia del paese, conferendole alcuni obbiettivi chiari, che sorgano dal confronto fra istanze territoriali e necessità di unità d’azione a livello nazionale.
A questo proposito è bene tenere conto della necessità di creare argini immediati al deflusso di giovani energie o, peggio, alla loro sistematica sottoutilizzazione. Ciò è tanto più urgente per le aree meno avanzate del paese. Questo obbiettivo lo si può perseguire nel breve periodo e agendo sulle istituzioni territoriali attraverso tentativi di organizzazione della società civile su proposte concrete. Il nucleo attorno a cui far ruotare le proposte potrebbe essere la promozione di iniziative sociali che offrano un immediato riscontro ai soggetti coinvolti: spazi per l’arte e la cultura; biblioteche popolari; cooperative di produzione agricola collegate a gruppi di acquisto solidale; attività di artigianato o microimpresa; microcredito e finanza etica ecc. Per quanto “piccole” (e all’apparenza ininfluenti dal punto di vista “macro”), queste iniziative avrebbero il valore di consolidare un tessuto sociale laddove questo è stato profondamente squassato dai movimenti migratori degli ultimi decenni. Si tratterebbe di mezzi attraverso i quali fornire una base materiale (di relazioni, di consenso e di risorse) alle rivendicazioni generali (innovazione e conversione ecologica del sistema produttivo, rilancio della formazione e della ricerca, reddito ecc.) che interessano la nostra generazione.
E’ questa, secondo noi, la sfida con cui “Io voglio restare” deve misurarsi nell’immediato. Solo immergendosi nella società e contribuendo alla sua ristrutturazione questa campagna riuscirà a costruire quella incisività necessaria a perseguire obbiettivi quanto mai ambiziosi. E’ su questa base che noi in prima persona lavoreremo per dare corpo e anima a questo percorso, chiedendo a tutte le energie positive del nostro territorio di collaborare.